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anno VIII n. 9 - settembre 1999

  

 SATIRA

Parla come magni!

Simpatico monito romanesco diretto a persona che si avventura in un linguaggio troppo sofisticato rispetto al suo semplice modo di vivere. L’invito ad adoperare una parlata on line (ullallà che so’ modernu!) con le proprie abitudini alimentari è figlio del tempo in cui i mulini erano bianchi, i contadini li facevano neri, le caste erano caste (e pure); mentre il signore parlava e mangiava francese, il popolano parlava e mangiava «burinu». E guai a saltare le corsie!
Oggi che i mulini sono affumicati dallo smog, l’invito di che trattasi non potrebbe essere raccolto nemmeno da… Pico della Mirandola!
Se io parlassi come magno, dovrei adoperare un esperanto composto degli idiomi appresso indicati: un pizzico di malese, come le posate in acciaio e plastica, resistenti alla lavastoviglie, che mi accingo ad adoperare. Una spruzzata di giapponese, come il sushi del mio antipasto. Una dose di… De che?!?
Nel piatto c’è merluzzo del Baltico.
Al momento non so:
A) Che cavolo di lingua si parla nel Baltico.
B) Se tale mare bagna una o più nazioni.
C) Se tali nazioni parlano la stessa lingua.
D) Se la caduta del muro di Berlino ha sconvolto o meno la geografia politica bagnata dal mare «de quo».
E) In quali maledette acque territoriali hanno pescato il mio merluzzo?
E se l’insalata russa è condita con olio spagnolo, sottaceti portoghesi e mais texano? Aiutooooooo! (Urlo di Munch).
Guardo la mia lasagna precotta, scongelata, uscita indenne e fumante dalla microtempesta delle microonde: è bella, policroma… avvolta nel mistero!
E le domande mi sgorgano spontanee: lasagna, chi sei? Di cosa sei fatta? Chi ti ha fatto? Dove? Quando? Come?
Capitan Findus mi sorride mentre affonda più volte il berretto blu nel mare e lo svuota nella sabbia, mollando frattanto qualche calcione ai rompiglioncini che gli caciàrano intorno.
«Cosa fai Capitan Findus?» gli chiedo stupefatto.
«Non lo vedi? Sto svuotando il mare!».
«Ma capitano! Mi par che tu usi uno strumento inadeguato: e quando affitti?»
«E come puoi tu, con la tua piccola  mente, pensare di penetrare il mistero della mia lasagna? Sei tu forse nutrizionista, biologo, cuoco organoletticista, ingegnere, esperto di refrigerazione, di trasporto, di distribuzione, di marketing? Cosa ti vai a chiedere come, dove, quando? Vuoi forse una relazione tecnica di milleottocento pagine, di cui non capiresti una mazza? Non ti resta che la fede: credi fermamente nella mia lasagna… e magnetela subbito, se no te se fredda!»
«Ed io, raccogliendo l’invito del tuo capitano, o lasagna, me te magno. E mentre me te magno, te recito fervidamente ’sta preghiera:
O lasagna che sei nel piatto, sia santificato il tuo nome; io credo ardentemente che sei bona, genuina, fatta bene, che nun me fai male, che nun me te metti sullo stomaco. E benedetto sia… il viaggio tuo nella panza mia… dall’ingurgitatio fino alla defecatio. AMEN.»

Francesco Barbone

 

Attenti al vocabolario!

Più precisamente: quando eseguite una traduzione, controllate comunque con il vocabolario la parola da tradurre, anche se il vocabolo vi sembra noto.
Un mio compagno di scuola, ogni volta che, alle prese con la versione dal latino, si imbatteva nell’avverbio Igitur, che vuol dire «dunque», traduceva invariabilmente: «Si va!», incurante dei rimproveri del professore.
In terza media, al sottoscritto, latinista emergente, capitò di tradurre una scenetta campagnola dove, in un cortile, «…mures discurrebant». Disdegnando il vocabolario, tradussi di slancio: «… i topi discorrevano» . Un’occhiata al glorioso Campanini e Carboni mi avrebbe avvertito che discurrebant voleva dire «correvano di qua e di là». Anzi ora che ci penso, si può affermare che la parola discorrere viene recepita in italiano in senso traslato, cioè: «correre con le parole da un argomento all’altro».
Il professore però mi fece pesare molto l’errore e mi additò al ludibrio dei compagni, ai quali non parve vero di avere preso in castagna il piccolo erede di Cicerone.
L’ira di Achille, studiata di fresco, mi ribollì nelle vene e l’ampia aula del Mamiani risuonò della mia vocina incazzata.
«Ma per la miseriaccia, in queste favole parlano tutti: lupi, agnelli, asini, leoni, volpi, corvi! Che ne sapevo io che gli unici muti erano i topi?»
Francesco Barbone

 

  
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