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anno VIII n. 9 - settembre 1999

  

 CINEMA

Black Cinema: they gotta have it
Spike Lee e la ripresa dell'emancipazione nera

Nel 1986 usciva She’s Gotta Have It (Lola Darling) e il cinema afro-americano rinasceva dalle sue ceneri. C’erano voluti quindici anni perché qualcuno raccogliesse la corposa eredità lasciata nel 1971 dala protagonista di She’s Gotta Have It, Tracy Camila Johns Melvin Van Peeble con il suo storico Sweet Sweetback’s Baadassss Song; ma ne erano serviti più di sessanta perché qualcuno seguisse le orme del pioniere del cinema nero americano: Oscar Micheaux.  Egli per primo aveva cercato, insieme con il produttore William Foster, di creare delle all black productions  che potessero dar vita a una rappresentazione verosimile e dignitosa dei neri d’America: qualcosa che non avesse a che fare con gli sterotipati ruoli che, dal griffithiano Birth of a Nation in poi, erano stati loro affibbiati. Ma il cinema di Micheaux passò invano. O quasi. Mancavano i mezzi, sia economici che tecnici, per confezionare un prodotto cinematografico che fosse in grado di concorrere con l’allora nascente industria hollywoodiana. Micheaux non aveva i soldi per rigirare una scena venuta male. Non poteva contare su scenari appositamente costruiti per il set (un antesignano del Neorealismo?) e doveva sfruttare la luce naturale. Inoltre distribuiva personalmente le sue pellicole, passando da un cinema all’altro con la sua bicicletta. I suoi film erano così grossolani a livello tecnico che spesso infastidivano chi li vedeva, ma la sua gente li adorava. Milioni di afro-americani potevano vivere, attraverso gli interpreti di quelle pellicole, un’esistenza che non avrebbero mai potuto abbracciare. Una realtà parallela in cui  poter essere ricchi, potenti, di successo: in una parola essere come i bianchi, i bianchi d’America. Poi, la impari e –saremmo tentati di dire– romantica lotta di Micheaux che, con spirito tipicamente americano, aveva tentato di colonizzare una parte del territorio cinematografico cessò: il grande baraccone hollywoodiano ebbe la meglio e una patina di conformismo e convenzionalismo si posò sugli attori neri del cinema americano. Era una sconfitta morale prima ancora che materiale e i Tom, i Coon, i Mulatto, le Mammy e i Buck continuarono ad essere tutto quello che il cinema dei bianchi offriva sulla rappresentazione degli afro-americani.1 Ma l’idea di un cinema nero non morì del tutto. Il Movimento dei Diritti Civili, il femminismo, la protesta contro la guerra del Vietnam, il movimento pacifista, gli attivisti d’America a supporto della lotta per la liberazione dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, il Black Panter Party e il Bla (Black Liberation Army) rappresentano il magma incandescente da cui scaturisce una nuova ondata di registi neri, tutti (o quasi) formatisi all’Ucla (University of California Los Angeles) presso il «Theater Arts Departement». Stiamo parlando di Charles Burnett, di Haile Gerima, di Ben Caldwell,Jim Kelly e Gloria Hendry in Black Belt Jones, del 1974 di Alile Sharon Larkin e di Julie Dash, la prima donna nera regista, se si esclude Eulzan Palcy nata però in Martinica. Il lavoro di questa nuova corrente si suddivide in due momenti differenti che vedono abbracciare   tematiche esclusivamente   socio- politiche durante gli anni Settanta, per ripiegarsi poi nel microcosmo familiare e individuale a partire dagli anni Ottanta. Ma i prodotti di questi registi, che mai si sono piegati alle logiche di mercato, sono sempre rimasti sconosciuti a un’audience media e, ciò che più conta, all’opinione pubblica. Dall’altra parte del Paese, nell’East Coast, invece, Melvin Van Peeple, individuando con lucidità ed esattezza le problematiche inerenti alla affermazione di un cinema –e prima ancora a un’estetica afro-americana– riesce a produrre qualcosa che entusiasma il pubblico. Stiamo parlando del già citato Sweet Sweetback. In un articolo del 1971, «A Black Odyssey: Sweet Sweetback’s Baadassss Song» (dove per «Odissea» Van Peeble intende quella che dovette affrontare per produrre e distribuire il suo film), il regista ci spiega quale è la formula per un cinema afro-americano di successo. Primo punto: i neri devono riprendersi la propria dignità sacrificata al totem bianco. Secondo: il film dovrà essere ben confezionato, cosa estremamente difficile in quanto, come al solito, una produzione indipendente significa scarsa disponibilità economica e quindi insufficiente possibilità di mezzi. Terzo: dovrà anche destare l’interesse e l’attenzione di un pubblico medio e non essere una pellicola per «addetti ai lavori»; quindi, oltre che ben fatto, dovrà essere breve ed essenziale, capace di tenere desta l’attenzione dello spettatore. Quarto: pochissimi filmmakers considerano la parte sonora come una terza dimensione; ciò che Van Peeble vuole fare è ridare spessore a questo elemento e usarlo come parte integrante del film. Quinto: anche i media saranno un elemento molto importante nell’economia del film. Da qui il titolo Sweet Sweetback’s Baadassss Song, in riferimento alle distorsioni acustiche, provocate dagli apparecchi radio-televisivi.
Il film racconta la storia di un nero carcerato che uccide due poliziotti bianchi e razzisti e la fa franca scappando in Messico: piace al pubblico nero, abituato agli atteggiamenti concilianti di Sidney Poitier, campione di pazienza e tatto del cinema degli anni Sessanta. In breve Sweet Sweetback diviene campione di incassi e una lezione per Hollywood. Da quel momento in poi nascerà e si imporrà quel filone di film con eroi neri che prende il nome di Balxploitation e che porterà, dopo aver sfornato qualche titolo interessante come Shaft (1971) e Super Fly (1972),  alla ripetizione di schemi triti e ritriti fino all’insterilimento del genere. Segue un lustro di silenzio su cui dominano incontrastate star della portata di Eddie Marphy e Richard Prior i quali, però, non solo non aggiungono nulla di nuovo, ma anzi riportano la rappresentazione dei neri ai preconfezionati stereotipi che gli anni Settanta si erano sforzati di abbattere: siamo in pieno «edonismo reaganiano».
Toccherà finalmente a Spike Lee riprendere la strada dell’emancipazione cinematografica, seguita con risultati più eclatanti ma caduchi nel caso di Melvin Van Peeble e più sotterranei ma continui nel caso degli esponenti dell’Ucla. I suoi film, a partire dal 1986, rilanciano quella che è stata definita l’era del New Jack Cinema o della «Black Renaissance». E questa volta non si tratta di un caso isolato. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, una serie di registi la locandina di She’s Gotta Have It di Spike Leeafro-americani cominciano a produrre film cosiddetti «indipendenti».2 A parte i registi dell’Ucla, che non hanno mai smesso di portare avanti il loro lavoro, altri nomi come John Singleton, Matty Rich, Robert Townsend e Mario Van Peebles hanno cominciato ad affermarsi. Dalla  fine degli anni Ottanta, cambiano anche le modalità di rappresentazione dei neri nel cinema bianco convenzionale. Finalmente viene loro concessa una connotazione di tipo sessuale che, precedentemente, era stata negata e/o rimossa. Attori come Welsey Snypes, Denzel Washington e Will Smith, accanto ad attrici come Angela Bassett e Lonette McKee, vengono rappresentati come sessualmente desiderabili; una scommessa che Spike Lee aveva lanciato per primo nel suo She’s Gotta Have It e che aveva poi reiterato nei successivi Mo’ Better Blues (1990) e Jungle Fever (1991). Ed ecco che i film di Spike Lee diventano, prima ancora che pellicole sulla cui validità artistica si può discutere, veri e propri atti politici. L’eurocentrismo impartito dall’insegnamento scolastico americano può essere contrastato nell’era dell’iconoclastia laica attraverso  la cultura delle immagini: anche un afro-americano può essere rappresentato in maniera esteticamente gradevole e quindi essere bello (black and beautiful). Una battaglia che, partendo dall’immagine, dalla rappresentazione esteriore, va poi a introiettarsi nelle coscienze dei neri d’America.
«Il più grande ostacolo per la rivoluzione nera in America è la nostra sensibilità condizionata dal programma dell’uomo bianco. In breve, il fatto che l’uomo bianco ha colonizzato le nostre menti. Noi siamo stati violentati, confusi e insteriliti da questa forma di colonizzazione; è da questo brutale, calcolato genocidio, che il più efficace e vischioso razzismo è cresciuto, ed è con questo punto di partenza in mente e l’intenzione di ribaltare tale meccanismo che entrai nel mondo del cinema.»3
Ancora una volta Melvin Van Peeble aveva centrato il problema. Se rappresentare significa dare forma a qualcosa secondo la nostra idea, il nostro modo di vedere, e di concepire l’oggetto da rappresentare, allora il prodotto di tale rappresentazione ci dirà tutto su chi l’ha creato. Come dire che un film come Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, 1956) non potrà dirci molto sulle reali conoscenze scientifiche e tecnologiche degli anni Cinquanta ma, come ormai è risaputo, sarà un prezioso rivelatore del livello di fobia comunista in America durante quel periodo. Dunque agire sulla rappresentazione convenzionale dei neri nel cinema significava cambiare anche il modo di considerare i neri nella vita reale. Il New Jack Cinema ricrea un suo modello di rappresenatività diverso da quello precedente, ed è anche il tessuto connettivo di tutti quegli elementi culturali che hanno da sempre connotato l’identità dei neri: il Black Cinema, infatti, è fortemente legato alle radici etniche africane che si esprimono in maniera immediata in termini di accentuazione dei colori caldi e pastosi, di predilizione per i ritmi tribali e, in termini più indiretti, in quello che viene definito il soul, l’anima dei neri.4 Contemporaneamente, è presente una forte componente metropolitana, scaturita dalla realtà dei ghetti e dei projects e dalla musica di cuiUn’immagine da Sweet Sweetback’s Baadassss Song di Melvin Van Peeble è espressione: il rap. La musica, a partire dal jazz, il linguaggio, struttura portante del rap, e il soul, che tutto contiene, sono gli assi portanti che caratterizzano la produzione di Spike Lee e di tutti gli altri registi neri: un minimo comun denominatore che era stato già individuato, a suo tempo, da Charles Burnett e dagli altri dell’Ucla. Ma c’è un terzo elemento, quello più importante, che ha caratterizzato il cinema nero, non solo degli ultimi dieci anni, ma anche di quello passato: il realismo. Sia che si trattasse di cinema documentario (Robert Townsend, Warrington Hudlin), sia che si trattasse di fiction, i registi afro-americani sono sempre stati fortemente aggrappati al reale. Era importante che i loro film potessero raccontare storie vere e denunciare, spesso sottolineando la veridicità dei loro racconti con l’aggiunta di stralci documentari, la situazione di emarginazione e razzismo in cui da sempre vivono. La verità, dunque, nient’altro che la verità, non più gridata attraverso le note sofferte di un blues o sotto i ritmi incalzanti dei rappers, ma ora anche attraverso le immagini di un cinema politico prima che estetico. Per creare un’estetica bisogna anzittutto sapere chi si è, cosa si vuole e quali sono le istanze che ci caratterizzino, che esprimano l’essenza della nostra identità o l’essere parte di qualcosa. E gli afro-americani hanno appena ritrovato la loro identità che adesso dovranno cercare di difendere a spada tratta: finita la rabbia e la voglia di imporsi all’attenzione di un pubblico ormai internazionale, molti registi sembrano avere in parte esaurito la propria carica innovativa. Il cinema nero indipendente alle soglie del nuovo millennio rischia di essere inglobato dalla potente macchina holliwoodiana, che Titanic-amente spadroneggia, forse anche a causa dell’ambiguità di fondo con cui registi come Spike Lee si sono mossi nell’ambito delle loro produzioni. Una macchina che potrebbe nuovamente ingolfasi e sclerotizzare la rappresentazione degli afro-americani su nuovi, più moderni, ma pur sempre inesorabili, sterotipi.
Manuela Michetti

Note al testo:
1 Queste sarebbero le tipologie di neri americani che, secondo il critico afro-americano Donald Bogle, avrebbero caratterizzato il cinema hollywoodiano dalla sua nascita fino ai nostri giorni. Cfr., Donald Bogle, Toms, Coons, Molattoes, Mammies & Bucks: An Interpretative History of Blacks in American Films, New Expanded Edition, New York 1993.
2 Il termine indipendente, per quanto riguarda la produzione di film afro-americani, deve essere interpretato in senso ampio. Molte di queste opere sono finanziate e distribuite dalle major companies, e utilizzano i mezzi messi a disposizione dagli Studios. A parte il film di debutto She’s Gotta Have It, i film successivi di Spike Lee sono stati prodotti dagli Studios di Hollywood. Molti registi neri più recenti devono cercare da sé i finanziamenti (Julie Dash, Charles Burnett, Wendell Harriss ecc.). A volte sono disponibili finanziamenti da parte dello Stato, e un discreto numero di piccole case di distribuzione continuano a scovare registi promettenti che arrivano da diversi background.
3 Da «A Black Odyssey: Sweet Sweetback’s Baadassss Song», in Black Films and Filmmakers, Dodd Mead, New York 1975.
4 Viene definito «New Jack Cinema» il cinema nero degli anni Novanta, dal film campione di incassi del 1991 New Jack City di Mario Van Peeble: un film che a detta di Steven D. Kendall avrebbe segnato un’epoca e un modo di fare cinema. Per ulteriori approfondimenti, vedi: Steven D. Kendall, New Jack Cinema, J. L. Denser, Meryland 1994.

 

  
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