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anno VIII n. 12 - dicembre 1999

  

 ARTE

Quando la Povertà con l’arte diventa poesia

Domenica 5 dicembre, nel piccolo convento di S. Bonaventura al Palatino, davanti alle autorità religiose e civili, è stato presentato il libro di Alberto Crielesi: Il pittore Fra Pietro da Copenaghen al secolo Albert Küchler, Roma 1999. Tra gli ospiti stranieri, S. E. l’ambasciatore di Danimarca, il direttore dell’Accademia di Danimarca, la professoressa Hannemarie Ragn Jensen, titolare della Cattedra della pittura dell’Ottocento all’Università di Copenaghen. A conclusione della cerimonia l’autore ha illustrato le tante opere del Küchler, custodite nell’affascinante convento romano che ospitò tra le sue mura l’artista danese dal 1855 al 1883.
Nell’Ottocento la generosa presenza di personalità artistiche a Roma e nel Lazio è ormai cosa notoria, lunga è difatti la lista di nomi che la compongono, anche se si può notare qualche cronica dimenticanza. Una di queste è quella inerente al pittore danese Albert Küchler, alias fra Pietro da Copenaghen, un personaggio tanto stimato in Patria, quanto da noi (a parte una nota dell’Huetter) completamente ignorato. Ma fino a qualche anno fa, anche per gli storici oltremontani che si erano occupati dei Küchler, la sua vita artistica si arrestava pressoché l’anno dell’ingresso tra i francescani del Palatino, dimenticando, così, sia la vasta produzione che dall’eremo romano seguitava a uscire dal suo pennello, sia la scuola che attorno a lui era fiorita. Ora, grazie al presente lavoro di Alberto Crielesi, che per primo ha coordinato le fonti danesi con nuove fonti italiane da lui stesso identificate, possiamo avere un’immagine completa dell’opera di Küchler come uomo e artista. La sola scoperta di numerosi lavori finora sconosciuti del Maestro che l’autore del volume ha trovato a Roma e in altre località rappresenta un fatto sensazionale e viene quindi a colmare una lacuna rilevante nella nostra conoscenza dell’opera di questo artista e della sua cerchia.
L’esistenza del Küchler –tanto fiabesca e romantica che sembra un loquace affresco dell’epoca in cui visse– inizia a Copenaghen dove nacque nel 1803: allievo dell’Accademia Reale di Belle Arti, nel maggio del 1830 ricevette una borsa di studio e si trasferì a Roma, ove giuntovi entrò a far parte del circolo dello scultore danese Bertel Thorvaldsen. L’illustre maestro, già nell’Urbe dalla fine del Settecento, occupava in quel tempo il primo piano dell’allora casa Buti, in via Sistina, insieme alla sua cospicua raccolta di libri, antichità, e arte contemporanea; ritenuto un modello per i giovani artisti e letterati danesi, era il fulcro e la figura centrale intorno a cui ruotava la folta colonia, scandinava e non, a Roma.
Thorvaldsen, difattí, ne era l’amico, il protettore e, nello stesso tempo, il mecenate maggiore dei governi di cui la copiosa schiera di artisti erano borsisti. E a Roma il Küchler si unì con entusiasmo all’attività e alla vita spensierata e allegra dei suoi amici artisti nordici, partecipando con loro, nelle varie scorribande, alle innumerevoli feste romane, alle scampagnate a Testaccio, agli allegri convivi di Ponte Molle –la cui più alta onorificenza era l’Ordine del Balocco– e «fuori porta»: nella Sabina, a Olevano, nei Colli Albani ecc. Passeggiate e presenze che furono frequenti, come testimoniano le suo tante tele, e che sembrano rivivere in alcuni brani del suo amico, il poeta e scrittore H. C. Andersen, per la prima volta a Roma nel 1833.
Quelli furono gli anni che portarono il Küchler ad infittire i rapporti anche con Overbeck, il più noto esponente dei Nazareni, i Confratelli di S. Luca, per i quali l’arte –ma non soltanto la pittorica– era sinonimo di missione divina. Il tramite di quest’avvicendamento fu un altro artista cattolico, Franz von Rohden, con cui il Küchler strinse una calorosa e duratura amicizia: Franz (o Cecco) Von Rohden, che fu, tra altro, il suo padrino spirituale quando il pittore danese abbracciò la fede cattolica nel 1844. Qualche anno dopo la conversione al cattolicesimo seguì una vera e propria aspirazione alla vita claustrale, tanto che nel 1851 abbandonò Roma e il suo mondo, vestendo il saio del serafico Ordine con il nome di Fra Pietro da Copenaghen e mettendo al servizio della Religione la sua arte come umile strumento di Fede. Entrò, così, a far parte, come laico, della Custodia Alcantarina di Slesia, ove in uno sperduto romitorio di quell’impervia regione, oltre Breslavia, professò i voti. Per i suoi amici connazionali sia a Roina e in Danimarca, questo drastico mutamento di vita da lui adottato fu un’ulteriore nota di perplessità e di indignazione. Chi ne attribuiva la colpa ai pittori tedeschi, chi a un momento di sconforto dell’artista e chi, come lo scrittore Bergsœ, alla magia, al maliardo fascino di Roma che già aveva sedotto in passato il Thorvaldsen: « … Ma Roma è una città speciale! Se di un povero ragazzo aveva fatto un Thorvaldsen, allora poteva facilmente trasformare un’artista in un frate francescano, e fu così che avvenne: furono Roma e la vita di Roma a provocare la metamorfosi … »
Ma chi s’interessò della vita e dei presunti travagli spirituali del Küchler evidentemente non conosceva, o non condivideva, le teorie predicate dall’Overbeck, e nemmeno quel modo di vivere l’arte dei Nazareni, maniera che già avevano sperimentato in S. Isidoro a Capo le Case, conducendo una quotidianità con spirito di fratellanza e povertà ascetica sì da ricordare i primitivi cenobi del Poverello.
Soppressa, la Custodia di Slesia –che mostrò sempre particolare attenzione all’artista– volle che Fra Pietro ritornasse a Roma e fosse «incorporato» al convento di S. Bonaventura «alla polveriera».
Quest’ultima dimora ben si addiceva allo spirito del nostro artista: semplice e fraterna, posta in uno degli angoli più incantati di Roma, sul Palatino. Qui, nel suo studio posto in un’ala del convento, Fra Pietro produrrà stupende opere, da tutti ammirate e richieste. E dalle finestre di «questa grande stanza quadrata con le pareti completamente nude ed il soffitto a travi di legno ed il pavimento di pietra» si godeva una delle visioni più belle della Città Eterna e, come ricorda il Bergsœ, dei luoghi circostanti: « … vedi anche Frascati con le sue candidissime vigne e le sue ville, in più i Colli Albani, Monte Cavo, tutti coperti da alberi di castagno, tutto è infinito in quel meraviglioso silenzio, si sente solo ogni tanto qualche uccello che svolazza e le campane in lontananza del monastero all’Aventino che suonano per il Vespro … »
Amato e stimato dagli uomini di cultura, nella quiete del cenobio romano lontano dagli schiamazzi di un tempo, ricevette parecchie personalità desiderose di incontrarlo. Tra queste il vecchio amico Andersen, che il 1° maggio del 1861, nel suo quarto e ultimo soggiorno a Roma, salì sul Palatino per visitare Fra Pietro, il valente pittore che in luogo di onori e guadagni aveva scelto la vita raccolta e meditata del piccolo chiostro di S. Bonaventura. All’umile e bonario frate nel giardino del convento raccontò una sua fiaba, «La più bella rosa del mondo», e mentre la narrava –come ricorda l’illustre favolista nei suoi Diari– «i suoi occhi brillavano con uno sguardo aperto e sereno, sembrava felice, mi sentivo stranamente commosso a causa del cambiamento nella sua vita esteriore.»
Il fascino di Fra Pietro e del suo chiostro sul sensibile novelliere fu evidente: allorquando Andersen, nell’appartamento che lo ospitava, all’ultimo piano sopra il Caffè Greco a via Condotti, compose la storia de «La Psiche» ebbe senza dubbio in mente sia la mite e bonaria figura del frate pittore, sia l’incantevole contesto del Palatino con l’umile convento di S. Bonaventura, ove il frate «verso sera, al tramonto, apriva la finestra della sua cella e vedeva sotto di sé la vecchia Roma, i templi in rovina, il possente ma estinto Colosseo, specialmente di primavera, quando fiorivano le acacie, i sempreverdi godevano tutta la loro freschezza, sbocciavano ovunque le rose, limoni ed aranci splendevano, le palme oscillavano al vento, allora si sentiva commosso e appagato come mai prima. La silenziosa, vasta campagna romana si estendeva verso i monti azzurrini coperti di neve e profilantisi nell’aria come dipinti; tutto si fondeva, respirava pace e bellezza: era, indistinto, un sogno, sì, un vero sogno!»
Mori il 16 febbraio 1886 e fu sepolto nel Cimitero Teutonico. Si può concludere questa breve nota su Fra Pietro citando alcune righe tratte da I Bozzetti di un altro nordico, Axel Munthe, che così rievoca i tanti illustri personaggi stranieri innamorati di Roma e che a Roma nella pace riposano: « … Sacro è il suolo che calpesti. Qui è il ricordo di coloro che furono uomini … Uno accanto all’altro, come fratelli, dormono. … Pieni di entusiasmo e di giovanile esultanza qui vennero, salutando la città come madre. E Roma li accolse nel suo abbraccio, vivificò le sue anime con i suoi grandi pensieri, e raccontò loro, tra le rovine del Colosseo e le dimore imperiali del Palatino, la sua storia gloriosa e l’altra dell’Ellade fulgente di marmi. Qui sognarono il più bel sogno, qui lo spirito imparò ad aspirare al sublime … »


 

  

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