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anno IX n. 1
gennaio 2000

indice di gennaio

 LETTERATURA

Dickinson, una donna vissuta a metà dell’Ottocento
di NICOLA D'UGO

V’è una letteratura d’accordo, che mobilitandosi dalle urgenze dell’individuo va a ricercare un linguaggio comune. Si tratta di un’urgenza, anzitutto di un umore individuale, che viene convogliato in un’azione –lo scrivere–, l’esercizio della quale richiama a sé, evoca in sé, attraverso quello che comunemente chiamiamo formazione e sensibilità, un’espressione fatta di scenari linguistici, di modi di dire, di luoghi interiori che subito vengono acciuffati dall’autore nella propria mente. Questi acciuffamenti interiori Emily Dickinson in un celebre dagherrotipopossono essere in qualche modo rispettosi di un discorso comune, tesi a una dicitura che integri la scrittura poetica in uno scenario regolato da altri e con gli altri, che tiene conto della sua collocazione ambientale, della tendenza della letteratura contemporanea, del suo assumere una conformazione riconoscibile come efficace a entrare a pieno titolo in quello che viene chiamato «agone letterario», ossia il luogo di confronto e di scontro delle scritture di una determinata epoca. La scrittura di Emily Dickinson, una donna vissuta a metà dell’Ottocento, è particolarmente affascinante per due motivi. Anzitutto perché la sua opera appare meno inquinata dalle mode letterarie, dagli agoni che caratterizzano in genere le preoccupazioni dei poeti. Poi per la stretta tangenza del suono e dell’idea, dell’immagine e della sua espressione in parole. Al punto che, nei suoi riguardi, si è parlato di charm e riddle (incantesimo e indovinello) a un tale grado che torna inadeguato qualsiasi tentativo di traduzione.
Tutto ciò che è entrato a far parte della memoria individuale di Dickinson può quindi fuoriuscire come un magma proprio, che ha una sua coerenza non nell’ampio disegno delle opere epiche, ossia costruite secondo un ordine delle parti, ma nell’esercizio di una espressività che cerca di essere coerente anzitutto alle proprie sensazioni. Il che in letteratura è una rarità. Normalmente si tende a seguire i grandi autori, quelli che si considerano tali ovviamente, e a rifinirli o a contrastarli attraverso una scrittura «nuova», che lasci un segno alla socialità linguistica, a scapito della propria soggettività e, specialmente, della propria unità spirituale. La fortuna della Dickinson è tale da fare scuola ormai da più di mezzo secolo, quasi il tempo che ci ha messo ad essere ampiamente riconosciuta nella sua integrità, ad essere pubblicata non secondo i canoni editoriali del suo tempo e dei decenni successivi, ma secondo la scrittura originale ritrovata solo dopo la sua morte.
Nel momento in cui si è andati riconoscendo la portata del suo linguaggio poetico, si è potuta superare nell’animo dei curatori qualsiasi anomalia grammaticale della scrittura di Dickinson. Si è potuta cioè mettere da parte quella socializzazione linguistica, quella omologazione a modelli vigenti con cui deve scontrarsi, in necessità della artificiosa compattezza culturale dei sistemi editoriali e culturali, qualsiasi opera originale non vi appartenga per costituzione. Società e arte trovano in questo un perenne scontro, non solo sul terreno tecnico della scrittura, ma anche su quello delle proposte di scenari originali che la società non sa raccogliere in sé. Questo riguarda evidentemente la critica, già prima di qualsiasi applicazione dello strumento critico, prima cioè di qualsiasi consapevolezza. È, anche in questo caso, un atto umorale che pare indirizzare il critico a una repulsione o a un accostamento ulteriore dell’opera che si trova fra le mani. Egli può ritenere di trovarsi fra le mani, dopo la lettura di poche sillabe, un autore incolto, dilettantesco, oppure un parolaio, o anche uno spericolato sperimentatore, il seguace di una scuola ecc. In questo caso il rischio del critico è quello di una repulsione verso l’opera prima ancora di averla letta, o una catalogazione dell’autore entro un suo ordine mentale di memoria. Egli può considerare una perdita di tempo la prosecuzione della lettura di un autore ignoto, non meno di quando da ragazzino con fatica apprendeva le nozioni che il sistema culturale di cui faceva parte gli presentava come i modelli detti «letteratura». Le anomalie formali della punteggiatura e degli accapo, di una o più parole «scritte male», sono alcuni dei metri di giudizio del critico, quali spie improprie del valore artistico di un autore. È bene allora osservare con cautela anzitutto quelle anomalie umorali che sono in noi, nel momento in cui ci sentiamo disponibili a criticare un’opera letteraria. Riconoscere oggi che Emily Dickinson è un grande poeta è un atto piuttosto diffuso e prevalentemente dovuto all’autorevolezza che la circonda e all’influenza che ha esercitato su quella che ci hanno detto essere la «letteratura». Il difficile diviene applicarci in quell’altra letteratura che va formandosi nel nostro tempo, la letteratura ignota, per cui dobbiamo saper aggiornare le nostre configurazioni mentali senza dimenticarci della loro costituzione. Il rischio, in quest’ultimo caso, è quello di rimanere ancorati a un passato che sentivamo come nuovo o di trattare come vecchia la novità, la freschezza e l’urgenza dichiarativa di quel passato.


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