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Notizie... in CONTROLUCE              NOTIZIE IN… CONTROLUCE

anno IX n. 1
gennaio 2000

indice di gennaio

 RACCONTO

Il Revisionista
di PIERO VAGLIONI
illustrazione di
ROBERTO PROIETTI

«Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei

morti.»
Pier Paolo Pasolini

Il vecchio se n’era andato oramai da molto, molto tempo, sarebbero stati quindici anni nel momento in cui Paolo avrebbe risposto presente per la diciottesima volta ad un appello e aspettato una mezz’oretta e poi via, a casa o in biblioteca a studiare per gli ultimi momenti di vorace apprendimento. Quindici anni. Una telefonata rompe la monotonia dei gesti mattutini. Ring. Nessuno va a rispondere, tanto sono occupati a prepararsi per un’altra, dura giornata di lavoro. Ring. Su i pantaloni, la lampo in fretta. Ring. Pronto? Pronto è la famiglia del defunto Franco Petroni qui è il Policlinico. Papà, è per te. Freddo. Il muro era stato abbattuto. Vento freddo. Defunto Franco. Nessuna direzione. Nessuna protezione. Non c’era più niente tra lui e il resto. Niente.

* * *

Il manuale di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea ristagnava sul tavolo illuminato a metà di uno dei petali della Biblioteca di Italianistica. Corrado Alvaro sembrava guardare Paolo leggermente di traverso, con un occhio socchiuso, poco convinto di ciò che il giovane stava assimilando della sua figura così com’è trattata sull’Asor Rosa, mirabilmente diviso per regioni, periodi, tematiche e omissioni. O forse il povero scrittore era semplicemente perplesso dal profilo sull’Asor. Forse. L’uomo nel labirinto, che stronzata. Quindici. La tipa con la gonna verde stava ripassando per la settima volta davanti a Paolo e a tutti gli anni Venti Trenta, ma con quella gonna non avrebbe ballato il Charleston, semmai l’hula-hop. Un’occhiata a Piero attraverso il vetro, pollice e indice uniti, movimento del polso ad inclinarsi verso l’interno, due volte, secche, come gli squilli di telefono a coppie, lontani nella memoria, presenti e vividi dentro, come il profumo di dopo aver fatto l’amore che il sudore si riposa al ritmo calante del respiro. Caffè. Sigaretta. Che palle! Mauro stava preparando Storia medievale ed era as scoglionato as Paolo. Ragazze passavano davanti ai due, mostrando indifferenti i loro numeri in misure opere azioni e soprattutto omissioni da baraccone d’alto rango. Nausea, latente, sopportabile, oramai, dopo tutto quel tempo.
«Che palle! Non ce la farò mai. Dieci giorni e quattro libri, mai. Il fascismo, il nazismo, chi se l’è mai coperti, porca miseria, porca!»
«Boh, io forse ce la faccio, basta ricordarsi il mare di autori.»
«Centosedici?»
«No, un po’ di meno. Quello era il programma di quello stronzo di Patillè, per fortuna che se n’è andato affanculo alla Rai.»
«Plucecci è tranquillo, però.»
«Sì, anche la Bedin è precisa, umana.»
«Ecco, sì, umana.»
Sigarette end. I due si guardarono in faccia per un istante, guardarono l’avveniristica porta della biblioteca e mesti e fiacchi salirono i pochi gradini per rientrare in un mondo silente e ovattato d’inizio e metà del secolo che era oramai alla fine. Le pagine fluivano piano come l’entrare e uscire di gente per sigaretta dalla biblioteca. Quantomeno finire il capitolo. Paolo già non ricordava più i caratteri fondamentali di Corrado Alvaro; un uomo nel suo labirinto. 1926. Bah?!

* * *

Il motorino si accese come al solito, con una rassicurante mezza pedalata. Il tempo di coprirsi bene per il mite e relativo inverno romano, sistemarsi la borsa incastrandola nel portapacchi e il bastardo si rispengeva non appena Illustrazione di Roberto Proiettiil cavalletto scattava verso l’alto e la manopola del gas accennava ad un milionesimo di giro. Era una cosa automatica, al limite dell’elettronica digitale e pura, puntuale come il più classico degli orologi svizzeri. La corsa a spingere il catorcio malefico sotto la minacciosa statua della Minerva dava a Paolo il calore necessario per arrivare a casa non totalmente congelato e gettava delle solide basi per una artrite diffusa, galoppante e precoce, considerando la «tenera» età del nostro.
Teste di cazzo barricate nelle loro macchinette e macchinone e scatolacce clacsonanti imprecavano e sterzavano per rimanere fermi, completamente, o per peggiorare la situazione contribuendo a bloccare ancora di più semmai possibile fanculo teste di cazzo fanculo stronzi io vado a casa vado a casa fanculo.
Slam. Ciao ciao ciao. Slam minore. Profumo di chiuso, con le foto di qualche anno prima, in certi casi di molti, che guardavano Paolo di sguincio o direttamente. STOP. STOP. STOP. Stop al panico, un rap per rilassarsi. Paolo e il vecchio che sorridono seduti su uno scoglio, i corpi abbronzati e diversi nella loro somiglianza; una mano del vecchio sulla spalla di Paolo. Estate, la scogliera dietro al porticciolo, tanti anni prima. Più di quindici. Paolo spense la radio e accese la TV. Solite notizie dementi per un’audience lobotomica: dubbi sulla verità di alcuni filmati da Auschwitz, alcuni esperti di tecniche cinematografiche sarebbero quasi in grado di dimostrare la non veridicità di certi filmati che mostrano fosse comuni, esecuzioni o cadaveri in miserrime condizioni. Vi faremo sapere perché ricordate che il nostro solo scopo è un’informazione giusta ed equa, un’informazione dalla parte della gente, un’informazione indipendente. STOP AL PANICO PANICO. E fanculo.

* * *

Una voce dal fuori profumato e ordinato annunciava la cena imminente: le necessità fisiologiche primarie avevano comunque la precedenza, non importa se si stesse facendo qualcosa di diverso, di forse più importante o interessante. Arrivo, urlò sommesso Paolo dal di dentro puzzolente e disordinato; la biondina dai capelli sempre in ordine e rilucenti sorrideva dallo schermo tendente al verde. Nero. Slam minore. Profumo di pulito e rettitudine. Ordine. Hai studiato? Sì. Ce la fai per la prossima settimana? Spero. Buon Appetito. Altrettanto. Signore benedici la nostra tavola mmmmm… Fade into black. Amen. Mmmmmmm. Lo zio Carlo aveva la faccia contenta di chi ha la coscienza pulita e porta avanti una vita dignitosa e retta; pulizia interiore ed esteriore. Mai uno sgarro, mai un eccesso. La strada dell’eccesso porta al palazzo della saggezza – william blake; come farglielo capire? No way. No.
Prima il tavolo della cucina era più massiccio e largo; il vecchio sedeva sempre alla sinistra di Paolo e aveva un portatovagliolo costruito per la festa del papà, non essendocene all’epoca una per il nonno, tutto dipinto con fiori che, se Paolo al tempo non fosse stato così piccolo, avrebbe definito psichedelici. Si versava i due bicchieri di vino a pasto che la sua salute gli permetteva e sorrideva sempre, anche quando era più malato del solito e a malapena ce la faceva a rientrare nella stanzetta allora asettica e pulita, con un costante odore di alcool e medicinali vari.
«Quando hai l’esame?»
«Te l’ho detto, la settimana prossima l’appello, poi speriamo che l’esame mi slitti di qualche giorno.»
«Insomma non sei preparato…»
«Qualche giorno in più fa sempre comodo.»
«E poi quanti esami ti mancheranno?»
Ancora? «Cinque dopo questo.»
«Credevo quattro.»
Sempre la stessa cantilena; lo fa apposta, non è né cretino né rincoglionito, e mi fa le stesse domande una volta a settimana, come minimo. Che palle.
Paolo scarpettava nel sugo sempre abbondante con la lentezza di chi tenta di rilassarsi in un contesto particolarmente stressato, incrociando di tanto in tanto lo sguardo della cugina Silvia intenta a dosare le calorie del suo piatto nel suo stomaco controllato minuziosamente dal di dentro come dal di fuori. Il notiziario della sera ritmava l’automatico masticare con sapiente diplomazia e bruschi e violenti picchi di neo-realtà dalle zone più povere e sofferenti del pianeta. Lo zio Carlo ruminava con regolarità il cibo consueto della sua solida dieta mediterranea, proferendo sguardi preoccupati al televisore che scandiva le miserie esteriori ed interiori del genere umano. Dove mai andremo a finire, sembrava esprimere quello sguardo da prete consapevole della cattiveria profonda del mondo, ma distaccato nel limbo della sua immacolata coscienza. Un «burp» soffocato con un soffio delicato sancì la fine delle ostilità tra denti, stomaco, esofago e cibo; Paolo fece per alzarsi da tavola proferendo un più profano cenno alla cugina che si ricomponeva dopo le fatiche fisiche e psicologiche da ingurgito.
«Perché non tenti di stare un po’ più con la tua famiglia?»
«Devo studiare.»
«D’accordo, ma una mezz’oretta la puoi anche perdere per parlare un po’ con noi.»
Parlare? E di cosa? Non c’era mai un dialogo reale, un libero scambio di opinioni: Führer Karl dettava le linee di pensiero generali, regolava le angolazioni di vedute, approvava o correggeva le opinioni, e lo chiamava parlare, discutere…
«Così, per discutere un po’ di determinate questioni, per avere un minimo di dialogo… Oramai nelle famiglie non c’è più dialogo, io lo so perché i colleghi in ufficio me ne parlano, si confidano con me, e questo perché mi stimano e sanno che possono fidarsi di me…»
Talvolta attaccava delle pippe mostruose; la sua logorrea straripava copiosa travolgendo tutto e tutti. Silenzio nel resto della cucina tipo la più amata dagli italiani. Non è vero.
«Me lo diceva sempre mio padre, tuo nonno, te lo ricordi, vero, Paolino? Paolino…»
«Certo. Me lo ricordo.»
«Me lo diceva sempre, se hai qualcosa in mente, beh fai di tutto perché questa cosa si realizzi. E io l’ho fatto e ora lo puoi vedere con i tuoi occhi ciò che ho costruito, no?»
«Certo. Sì.»
Non dimentico, io, ho tutto in mente. Il vecchio si sarebbe messo a ridere e ti avrebbe preso per il culo alla sua maniera, da romano verace. Cantava sempre quella canzone, la Romanina, e diceva che gli ricordava il suo primo amore a quindici anni. Quindici. E gli toccava cantare in mezzo a tutti quei burini del paese, ignoranti e senza voglia di capire. Pensano solo a mangiare. A mangiare e ad accumulare, si lamentava spesso il vecchio.
«Certo, povero vecchio, non è che fosse cattivo, solo che non aveva la cultura, non ha certo avuto le possibilità che ho avuto io e che avete voi, no certo, povero vecchio era un po’ ignorante.»
Un abbozzo di sorriso compiaciuto – compassione con un retrosapore di simpatia.
Cattivo? Cultura? Ignorante? Non è vero. Di che cazzo parli?
«Ti ho mai raccontato di quando tuo nonno lavorò per i fascisti?»
Cazzo dici?!!? Non è vero.
«Sì, quando il Podestà chiamò dalla finestra alle due di notte perché il muro di cinta aveva una crepa e nonno Franco si vestì in fretta e furia e corse giù con il secchio, la cucchiara e il cemento e lavorò finché non fece giorno? Certo, visto che si trattava del Podestà non è che…»
Non è vero, papà non mi aveva mai parlato di questo, non è vero, coglione che non sei altro. Non è vero. Un quattro novembre, inizio anni Settanta, il punk era ancora lungi dal sorgere e il vecchio si metteva in tasca le patatine alla festa della vittoria, al municipio del paese e con l’altra mano mi teneva la mano e mi parlava dall’alto dei suoi metri. La medaglia lucida sul risvolto della giacca buona della domenica. Sole caldo nel freddo della mattinata di un inverno ancora non maturato. Mi dava un bicchiere di carta con dell’aranciata, e gli chiedevo del vino, è troppo presto, e io pensavo si riferisse all’ora del mattino. Il campanile segnava quasi mezzogiorno e io fissavo il punto della torre dove si era arrampicato, la nonna mi teneva in braccio e tutto il paese tratteneva il fiato. La pianta di fico cadde al terzo colpo di accetta. Applausi. Risate, gioia, la nonna mi alzava al cielo e mi ricadeva giù; ridevo, contento. Jimbo, il cane adottato da tutto il paese che gironzolava in cerchi di gioia. Una carezza sulla testa. Tutti in piedi l’inno nazionale applausi tutti allegri. La mamma camminava nel sole della piazza a portarci a casa per il pranzo, le braccia mi facevano male ma le mani erano contente di stringere quelle del vecchio e della mamma. Non è vero.
«Io non ho certo bisogno di dire sissignore a nessuno, non in quella maniera, certo erano altri tempi, più autoritari, più definiti, non so dire se più precisi, ma io in ufficio sono portato in un palmo di mano, sono stimato, per il mio valore, per ciò che so fare…»
Non è vero. Coglione che non sei altro, fantozzino illuso di potere per una promozione a coglione maggiore di cui non farai in tempo a vantarti. Non è vero.
Il vecchio sedeva sul molo della spiaggetta dietro al porticciolo, con dei calzoncini di tela blu e una canottiera della salute bianca; ad una estremità di una canna aveva applicato una specie di uncino a tre punte a chiudersi leggermente sulle le punte; lo usava per prendere i ricci senza entrare in acqua, quando, verso la seconda metà di agosto, il mare comincia a rinfrescarsi un minimo in confronto alla precedente brodaglia e i ricci femmina hanno il ventre carico di uova, squisite da mangiare.
«Io, poi, fosse stato per me quella casa non l’avrei venduta, l’avrei tenuta, ma, ti ricordi, con tuo padre di affari proprio non si poteva ragionare, e purtroppo tu sei come lui, una filosofia di vita intendo, ma col tempo puoi cambiare, devi cambiare, devi ancora maturare, se vuoi vivere decentemente, decentemente, insomma, bene…»
Devi? Maturare? Vivere decentemente?
«Beh, da un certo punto di vista era un po’ fracica, sì, il tetto era arrivato, certo, niente che non si sia potuto riparare, ma in fondo oramai è andata così, quei soldi, come tu ben sai, ti sono serviti, ci sono serviti, ma Paolino, mi ascolti?»
«Sì, sì, ti sento.»
Fracica?
«Insomma, era una vecchia casa, dico ti immagini se tu dovessi portare i tuoi amici nei uicchenz in una catapecchia che era quella casa, ma dico, ti ricordi?»
«Mi ricordo. Mi ricordo.»
Catapecchia?
Bisogna vedere i ricci marrone scuro, non quelli neri, sono maschi quelli. C’era un giornale, di solito, che io e il vecchio compravamo al mattino e leggevamo quando eravamo stanchi di nuotare e di mangiare ricci e il sole cominciava la discesa quotidiana dietro quelle scogliere alte a picco, dall’altra parte del porto. Mi parlava di Testaccio, della sua casa vicino al campo della Magica, dei gol di Foffo Bernardini che vedeva la domenica pomeriggio dal balcone della sua finestra e gli urli della folla non diversi da quelli delle bestie squartate durante la settimana; c’era un odore di sangue al quale oramai tutti si erano abituati. Aprì il giornale, quel giorno il vecchio, e prese un’aria strana quando gli cadde lo sguardo su dei versi che erano stati pubblicati per chissà quale ragione e descrivevano Testaccio, «disadorno tra il suo grande | lurido monte» e mi lesse una parte di quella poesia che avrei riscoperto anni dopo e che spero non mi chiederanno all’esame perché io non sono capace di fare della critica accademica sulle cose che amo.
«Paolo? Paolino? A cosa stai pensando?»
«Niente, l’esame… Dicevi?»
«Ma niente, come al solito, si ragiona, ti stavo raccontando del nonno…»
«Ah, già, il nonno.»
Ricordo bene, non ti preoccupare, c’ero, io, quando il vecchio era ancora vivo, non dimentico io. Non dimentico.

* * *

Lo zio Carlo si avviò come al suo solito verso la poltrona del salotto, accese la TV e si preparò al film della sera, non prima di aver controllato i progressi della figlia negli studi. Da vecchio saggio quale non è mai stato discuteva con lei di matematica e trigonometria, come di letteratura italiana del Quattrocento. Paolo si richiuse nel di dentro disordinato, accese lo stereo e la lampada della scrivania, aprì il manuale di Italiano Mod & Cont e tentò di ricomporsi e concentrarsi e studiare per passare all’esame e farne un altro e poi un altro e poi get the fuck outta there. Si aprì il tomo, al capitolo del secondo dopoguerra, Officina, Il Politecnico, Vittorini, Pavese, Pasolini. C’era un libro che Paolo aveva trovato in un angolo della stanzetta al piano superiore della casa al paese, prima che fosse spogliata, ripulita e venduta come una prostituta invecchiata e aggrinzita che non fa più comodo a nessuno. In uno scaffale dell’armadio che custodiva le foto del padre e dei suoi fratelli quando erano giovani, dietro una vecchia bottiglia di vino rosso d’annata che aspettava chissà quale occasione per essere stappata, trovò quel libro con la copertina verde e arancione, lo nascose nella tasca interna del suo giubbetto di jeans, lo nascose dai barbari in disperata ricerca di un souvenir, magari anche prezioso, catenine d’oro, soldi, oggettini da antiquario, lo nascose dagli sciacalli che si sarebbero puliti le zanne e avrebbero assunto un’aria triste appena consegnate le chiavi alla volpe, che non potendo mangiarsi il grappolo aveva comprato tutta la vigna. E per un pugno di merda. È talvolta incredibile come chi meno ha avuto nella vita si abbarbichi alla quantità illusoria, considerando tanto o abbastanza ciò che in realtà è miseria, considerando oro ciò che in realtà è merda.
Andammo tutti al cimitero del paese, qualcuno comprò dei fiori, stettero lì a parlare e discutere; mal nascondevano l’aria soddisfatta di chi ha un brillante futuro e non gli resta che allungare la mano e afferrarlo. Le tombe rilucevano nel sole pomeridiano, pochi visitatori si segnavano nell’uscire, io giocavo a tirare i sassolini più vicino che mi riusciva alla base della cappelletta, ma qualcuno di questi entrò nel tempietto di marmo asettico. Lo zio Carlo mi sgridò. Non avevo rispetto dei morti. Io. I morti avevano facce che ridevano, io le vedevo, le facce dei morti ridono, mi diceva il vecchio. Uno dei suoi poeti incredibili. Ora so, ricordo e so. Se vuoi una cosa, cercala con tutto il tuo cuore, con tutta la tua forza e volontà; chi la dura la vince. Io guardavo indietro, non lo vedevo quel futuro roseo che tanto si sciacquava nella loro testa. Vedevo un enorme vuoto davanti a me, una pianura sconfinata e nel vento, nel vento freddo, e nessun sentiero. L’arco di marmo del paese brulicava di foglie secche trascinate dal vento, io e il vecchio camminavamo assieme a loro, risalendo il vecchio convento, fin su alla fontana e alla strada che porta al cimitero. Le vedi le foglie, mi diceva il vecchio, le foglie cadono e i vecchi se ne debbono andare. Era triste, ma mi sorrideva, come sorrisero i miei prima di montare in macchina e sparire nella notte d’autostrada. I vecchi subiscon le ingiurie degli anni non sanno distinguere il vero dai sogni i vecchi non sanno nel loro pensiero distinguer nei sogni il falso dal vero. Sorrideva e mi raccontava le sue minibarzellette sceme, e dei suoi poeti, e delle storie del lavoro a costruire case per la gente che ce li aveva i soldi e ce ne aveva tanti, parlando come poi non avrebbe più fatto, sdraiato in quel letto bianco, a corto di fiato e di voglia di parlare, di esprimersi. Diceva che voleva esser buttato al Tevere, o dato in pasto ai leoni, o lasciato su una collina nel vento, con la faccia scoperta e il suo sorriso.
        «Quando io e costoro saremo morti
        Portateci su qualche collina nel vento
        A giacere col volto scoperto un attimo
        Ché umanità e lebbra sappiano
        I volti dei morti ridono
        RE! RE! I VOLTI DEI MORTI RIDONO

I volti dei morti ridono. Ora sapeva. Ricordava e sapeva. Era importante. Si tolse gli occhiali, andò a girare lo scaffale vicino alla finestra e ne tolse un libricino dalla copertina verde e arancione, edizione Garzanti di una quindicina d’anni prima, anno più anno meno, l’aprì nel punto in cui l’uso aveva formato un segnalibro automatico. Cominciò a leggere alcuni di quei versi così radicati dentro da sembrare versi propri. Ne lesse parte in silenzio, andando con la memoria altrove, in un altrove oggettivamente lontano, ma palpabile, vicino a quella foto un po’ ingiallita di un ragazzo seduto su un letto, i capelli leggermente più lunghi del decente, i jeans logori dal tanto resistere. Poi l’emozione nel ripetere quelle strofe crebbe e inconsciamente Paolo cominciò prima a mormorare, poi quasi a declamare, ma non era una declamazione estatica o esaltata, era un qualcosa che, sommesso, sgorgava da un dentro profondo e preso:
           «Me ne vado, ti lascio nella sera
        che, benché triste, così dolce scende
        per noi viventi, con la luce cerea
           che al quartiere in penombra si rapprende.
        E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
        intorno, e, più lontano, lo riaccende
           di una vita smaniosa che del roco
        rotolìo dei tram, dei gridi umani,
        dialettali, fa un concetto fioco
           e assoluto … »


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