RACCONTO
Il Revisionista
di PIERO VAGLIONI
illustrazione di ROBERTO PROIETTI
«Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso lurna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti.»
Pier Paolo Pasolini
Il vecchio se nera andato oramai da molto, molto tempo, sarebbero
stati quindici anni nel momento in cui Paolo avrebbe risposto presente per la diciottesima
volta ad un appello e aspettato una mezzoretta e poi via, a casa o in biblioteca a
studiare per gli ultimi momenti di vorace apprendimento. Quindici anni. Una telefonata
rompe la monotonia dei gesti mattutini. Ring. Nessuno va a rispondere, tanto sono occupati
a prepararsi per unaltra, dura giornata di lavoro. Ring. Su i pantaloni, la lampo in
fretta. Ring. Pronto? Pronto è la famiglia del defunto Franco Petroni qui è il
Policlinico. Papà, è per te. Freddo. Il muro era stato abbattuto. Vento freddo. Defunto
Franco. Nessuna direzione. Nessuna protezione. Non cera più niente tra lui e il
resto. Niente.
* * *
Il manuale di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea
ristagnava sul tavolo illuminato a metà di uno dei petali della Biblioteca di
Italianistica. Corrado Alvaro sembrava guardare Paolo leggermente di traverso, con un
occhio socchiuso, poco convinto di ciò che il giovane stava assimilando della sua figura
così comè trattata sullAsor Rosa, mirabilmente diviso per regioni, periodi,
tematiche e omissioni. O forse il povero scrittore era semplicemente perplesso dal profilo
sullAsor. Forse. Luomo nel labirinto, che stronzata. Quindici. La tipa con la
gonna verde stava ripassando per la settima volta davanti a Paolo e a tutti gli anni Venti
Trenta, ma con quella gonna non avrebbe ballato il Charleston, semmai lhula-hop.
Unocchiata a Piero attraverso il vetro, pollice e indice uniti, movimento del polso
ad inclinarsi verso linterno, due volte, secche, come gli squilli di telefono a
coppie, lontani nella memoria, presenti e vividi dentro, come il profumo di dopo aver
fatto lamore che il sudore si riposa al ritmo calante del respiro. Caffè.
Sigaretta. Che palle! Mauro stava preparando Storia medievale ed era as scoglionato as
Paolo. Ragazze passavano davanti ai due, mostrando indifferenti i loro numeri in misure
opere azioni e soprattutto omissioni da baraccone dalto rango. Nausea, latente,
sopportabile, oramai, dopo tutto quel tempo.
«Che palle! Non ce la farò mai. Dieci giorni e quattro libri, mai. Il fascismo, il
nazismo, chi se lè mai coperti, porca miseria, porca!»
«Boh, io forse ce la faccio, basta ricordarsi il mare di autori.»
«Centosedici?»
«No, un po di meno. Quello era il programma di quello stronzo di Patillè, per
fortuna che se nè andato affanculo alla Rai.»
«Plucecci è tranquillo, però.»
«Sì, anche la Bedin è precisa, umana.»
«Ecco, sì, umana.»
Sigarette end. I due si guardarono in faccia per un istante, guardarono
lavveniristica porta della biblioteca e mesti e fiacchi salirono i pochi gradini per
rientrare in un mondo silente e ovattato dinizio e metà del secolo che era oramai
alla fine. Le pagine fluivano piano come lentrare e uscire di gente per sigaretta
dalla biblioteca. Quantomeno finire il capitolo. Paolo già non ricordava più i caratteri
fondamentali di Corrado Alvaro; un uomo nel suo labirinto. 1926. Bah?!
* * *
Il motorino si accese come al solito, con una rassicurante mezza
pedalata. Il tempo di coprirsi bene per il mite e relativo inverno romano, sistemarsi la
borsa incastrandola nel portapacchi e il bastardo si rispengeva non appena il cavalletto scattava verso lalto e la
manopola del gas accennava ad un milionesimo di giro. Era una cosa automatica, al limite
dellelettronica digitale e pura, puntuale come il più classico degli orologi
svizzeri. La corsa a spingere il catorcio malefico sotto la minacciosa statua della
Minerva dava a Paolo il calore necessario per arrivare a casa non totalmente congelato e
gettava delle solide basi per una artrite diffusa, galoppante e precoce, considerando la
«tenera» età del nostro.
Teste di cazzo barricate nelle loro macchinette e macchinone e scatolacce clacsonanti
imprecavano e sterzavano per rimanere fermi, completamente, o per peggiorare la situazione
contribuendo a bloccare ancora di più semmai possibile fanculo teste di cazzo fanculo
stronzi io vado a casa vado a casa fanculo.
Slam. Ciao ciao ciao. Slam minore. Profumo di chiuso, con le foto di qualche anno prima,
in certi casi di molti, che guardavano Paolo di sguincio o direttamente. STOP. STOP. STOP.
Stop al panico, un rap per rilassarsi. Paolo e il vecchio che sorridono seduti su uno
scoglio, i corpi abbronzati e diversi nella loro somiglianza; una mano del vecchio sulla
spalla di Paolo. Estate, la scogliera dietro al porticciolo, tanti anni prima. Più di
quindici. Paolo spense la radio e accese la TV. Solite notizie dementi per
unaudience lobotomica: dubbi sulla verità di alcuni filmati da Auschwitz, alcuni
esperti di tecniche cinematografiche sarebbero quasi in grado di dimostrare la non
veridicità di certi filmati che mostrano fosse comuni, esecuzioni o cadaveri in miserrime
condizioni. Vi faremo sapere perché ricordate che il nostro solo scopo è
uninformazione giusta ed equa, uninformazione dalla parte della gente,
uninformazione indipendente. STOP AL PANICO PANICO. E fanculo.
* * *
Una voce dal fuori profumato e ordinato annunciava la cena imminente:
le necessità fisiologiche primarie avevano comunque la precedenza, non importa se si
stesse facendo qualcosa di diverso, di forse più importante o interessante. Arrivo, urlò
sommesso Paolo dal di dentro puzzolente e disordinato; la biondina dai capelli sempre in
ordine e rilucenti sorrideva dallo schermo tendente al verde. Nero. Slam minore. Profumo
di pulito e rettitudine. Ordine. Hai studiato? Sì. Ce la fai per la prossima settimana?
Spero. Buon Appetito. Altrettanto. Signore benedici la nostra tavola mmmmm
Fade into
black. Amen. Mmmmmmm. Lo zio Carlo aveva la faccia contenta di chi ha la coscienza pulita
e porta avanti una vita dignitosa e retta; pulizia interiore ed esteriore. Mai uno sgarro,
mai un eccesso. La strada delleccesso porta al palazzo della saggezza william
blake; come farglielo capire? No way. No.
Prima il tavolo della cucina era più massiccio e largo; il vecchio sedeva sempre alla
sinistra di Paolo e aveva un portatovagliolo costruito per la festa del papà, non
essendocene allepoca una per il nonno, tutto dipinto con fiori che, se Paolo al
tempo non fosse stato così piccolo, avrebbe definito psichedelici. Si versava i due
bicchieri di vino a pasto che la sua salute gli permetteva e sorrideva sempre, anche
quando era più malato del solito e a malapena ce la faceva a rientrare nella stanzetta
allora asettica e pulita, con un costante odore di alcool e medicinali vari.
«Quando hai lesame?»
«Te lho detto, la settimana prossima lappello, poi speriamo che lesame
mi slitti di qualche giorno.»
«Insomma non sei preparato
»
«Qualche giorno in più fa sempre comodo.»
«E poi quanti esami ti mancheranno?»
Ancora? «Cinque dopo questo.»
«Credevo quattro.»
Sempre la stessa cantilena; lo fa apposta, non è né cretino né rincoglionito, e mi
fa le stesse domande una volta a settimana, come minimo. Che palle.
Paolo scarpettava nel sugo sempre abbondante con la lentezza di chi tenta di rilassarsi in
un contesto particolarmente stressato, incrociando di tanto in tanto lo sguardo della
cugina Silvia intenta a dosare le calorie del suo piatto nel suo stomaco controllato
minuziosamente dal di dentro come dal di fuori. Il notiziario della sera ritmava
lautomatico masticare con sapiente diplomazia e bruschi e violenti picchi di
neo-realtà dalle zone più povere e sofferenti del pianeta. Lo zio Carlo ruminava con
regolarità il cibo consueto della sua solida dieta mediterranea, proferendo sguardi
preoccupati al televisore che scandiva le miserie esteriori ed interiori del genere umano.
Dove mai andremo a finire, sembrava esprimere quello sguardo da prete consapevole della
cattiveria profonda del mondo, ma distaccato nel limbo della sua immacolata coscienza. Un
«burp» soffocato con un soffio delicato sancì la fine delle ostilità tra denti,
stomaco, esofago e cibo; Paolo fece per alzarsi da tavola proferendo un più profano cenno
alla cugina che si ricomponeva dopo le fatiche fisiche e psicologiche da ingurgito.
«Perché non tenti di stare un po più con la tua famiglia?»
«Devo studiare.»
«Daccordo, ma una mezzoretta la puoi anche perdere per parlare un po
con noi.»
Parlare? E di cosa? Non cera mai un dialogo reale, un libero scambio di
opinioni: Führer Karl dettava le linee di pensiero generali, regolava le angolazioni di
vedute, approvava o correggeva le opinioni, e lo chiamava parlare, discutere
«Così, per discutere un po di determinate questioni, per avere un minimo di
dialogo
Oramai nelle famiglie non cè più dialogo, io lo so perché i
colleghi in ufficio me ne parlano, si confidano con me, e questo perché mi stimano e
sanno che possono fidarsi di me
»
Talvolta attaccava delle pippe mostruose; la sua logorrea straripava copiosa
travolgendo tutto e tutti. Silenzio nel resto della cucina tipo la più amata dagli
italiani. Non è vero.
«Me lo diceva sempre mio padre, tuo nonno, te lo ricordi, vero, Paolino?
Paolino
»
«Certo. Me lo ricordo.»
«Me lo diceva sempre, se hai qualcosa in mente, beh fai di tutto perché questa cosa si
realizzi. E io lho fatto e ora lo puoi vedere con i tuoi occhi ciò che ho
costruito, no?»
«Certo. Sì.»
Non dimentico, io, ho tutto in mente. Il vecchio si sarebbe messo a ridere e ti
avrebbe preso per il culo alla sua maniera, da romano verace. Cantava sempre quella
canzone, la Romanina, e diceva che gli ricordava il suo primo amore a quindici anni.
Quindici. E gli toccava cantare in mezzo a tutti quei burini del paese, ignoranti e senza
voglia di capire. Pensano solo a mangiare. A mangiare e ad accumulare, si lamentava spesso
il vecchio.
«Certo, povero vecchio, non è che fosse cattivo, solo che non aveva la cultura, non
ha certo avuto le possibilità che ho avuto io e che avete voi, no certo, povero vecchio
era un po ignorante.»
Un abbozzo di sorriso compiaciuto compassione con un retrosapore di simpatia.
Cattivo? Cultura? Ignorante? Non è vero. Di che cazzo parli?
«Ti ho mai raccontato di quando tuo nonno lavorò per i fascisti?»
Cazzo dici?!!? Non è vero.
«Sì, quando il Podestà chiamò dalla finestra alle due di notte perché il muro di
cinta aveva una crepa e nonno Franco si vestì in fretta e furia e corse giù con il
secchio, la cucchiara e il cemento e lavorò finché non fece giorno? Certo, visto che si
trattava del Podestà non è che
»
Non è vero, papà non mi aveva mai parlato di questo, non è vero, coglione che non
sei altro. Non è vero. Un quattro novembre, inizio anni Settanta, il punk era ancora
lungi dal sorgere e il vecchio si metteva in tasca le patatine alla festa della vittoria,
al municipio del paese e con laltra mano mi teneva la mano e mi parlava
dallalto dei suoi metri. La medaglia lucida sul risvolto della giacca buona della
domenica. Sole caldo nel freddo della mattinata di un inverno ancora non maturato. Mi dava
un bicchiere di carta con dellaranciata, e gli chiedevo del vino, è troppo presto,
e io pensavo si riferisse allora del mattino. Il campanile segnava quasi mezzogiorno
e io fissavo il punto della torre dove si era arrampicato, la nonna mi teneva in braccio e
tutto il paese tratteneva il fiato. La pianta di fico cadde al terzo colpo di accetta.
Applausi. Risate, gioia, la nonna mi alzava al cielo e mi ricadeva giù; ridevo, contento.
Jimbo, il cane adottato da tutto il paese che gironzolava in cerchi di gioia. Una carezza
sulla testa. Tutti in piedi linno nazionale applausi tutti allegri. La mamma
camminava nel sole della piazza a portarci a casa per il pranzo, le braccia mi facevano
male ma le mani erano contente di stringere quelle del vecchio e della mamma. Non è vero.
«Io non ho certo bisogno di dire sissignore a nessuno, non in quella maniera, certo
erano altri tempi, più autoritari, più definiti, non so dire se più precisi, ma io in
ufficio sono portato in un palmo di mano, sono stimato, per il mio valore, per ciò che so
fare
»
Non è vero. Coglione che non sei altro, fantozzino illuso di potere per una
promozione a coglione maggiore di cui non farai in tempo a vantarti. Non è vero.
Il vecchio sedeva sul molo della spiaggetta dietro al porticciolo, con dei calzoncini di
tela blu e una canottiera della salute bianca; ad una estremità di una canna aveva
applicato una specie di uncino a tre punte a chiudersi leggermente sulle le punte; lo
usava per prendere i ricci senza entrare in acqua, quando, verso la seconda metà di
agosto, il mare comincia a rinfrescarsi un minimo in confronto alla precedente brodaglia e
i ricci femmina hanno il ventre carico di uova, squisite da mangiare.
«Io, poi, fosse stato per me quella casa non lavrei venduta, lavrei
tenuta, ma, ti ricordi, con tuo padre di affari proprio non si poteva ragionare, e
purtroppo tu sei come lui, una filosofia di vita intendo, ma col tempo puoi cambiare, devi
cambiare, devi ancora maturare, se vuoi vivere decentemente, decentemente, insomma,
bene
»
Devi? Maturare? Vivere decentemente?
«Beh, da un certo punto di vista era un po fracica, sì, il tetto era arrivato,
certo, niente che non si sia potuto riparare, ma in fondo oramai è andata così, quei
soldi, come tu ben sai, ti sono serviti, ci sono serviti, ma Paolino, mi ascolti?»
«Sì, sì, ti sento.»
Fracica?
«Insomma, era una vecchia casa, dico ti immagini se tu dovessi portare i tuoi amici
nei uicchenz in una catapecchia che era quella casa, ma dico, ti ricordi?»
«Mi ricordo. Mi ricordo.»
Catapecchia?
Bisogna vedere i ricci marrone scuro, non quelli neri, sono maschi quelli. Cera un
giornale, di solito, che io e il vecchio compravamo al mattino e leggevamo quando eravamo
stanchi di nuotare e di mangiare ricci e il sole cominciava la discesa quotidiana dietro
quelle scogliere alte a picco, dallaltra parte del porto. Mi parlava di Testaccio,
della sua casa vicino al campo della Magica, dei gol di Foffo Bernardini che vedeva la
domenica pomeriggio dal balcone della sua finestra e gli urli della folla non diversi da
quelli delle bestie squartate durante la settimana; cera un odore di sangue al quale
oramai tutti si erano abituati. Aprì il giornale, quel giorno il vecchio, e prese
unaria strana quando gli cadde lo sguardo su dei versi che erano stati pubblicati
per chissà quale ragione e descrivevano Testaccio, «disadorno tra il suo grande |
lurido monte» e mi lesse una parte di quella poesia che avrei riscoperto anni dopo e
che spero non mi chiederanno allesame perché io non sono capace di fare della
critica accademica sulle cose che amo.
«Paolo? Paolino? A cosa stai pensando?»
«Niente, lesame
Dicevi?»
«Ma niente, come al solito, si ragiona, ti stavo raccontando del nonno
»
«Ah, già, il nonno.»
Ricordo bene, non ti preoccupare, cero, io, quando il vecchio era ancora vivo,
non dimentico io. Non dimentico.
* * *
Lo zio Carlo si avviò come al suo solito verso la poltrona del
salotto, accese la TV e si preparò al film della sera, non prima di aver controllato i
progressi della figlia negli studi. Da vecchio saggio quale non è mai stato discuteva con
lei di matematica e trigonometria, come di letteratura italiana del Quattrocento. Paolo si
richiuse nel di dentro disordinato, accese lo stereo e la lampada della scrivania, aprì
il manuale di Italiano Mod & Cont e tentò di ricomporsi e concentrarsi e studiare per
passare allesame e farne un altro e poi un altro e poi get the fuck outta there. Si
aprì il tomo, al capitolo del secondo dopoguerra, Officina, Il Politecnico, Vittorini,
Pavese, Pasolini. Cera un libro che Paolo aveva trovato in un angolo della stanzetta
al piano superiore della casa al paese, prima che fosse spogliata, ripulita e venduta come
una prostituta invecchiata e aggrinzita che non fa più comodo a nessuno. In uno scaffale
dellarmadio che custodiva le foto del padre e dei suoi fratelli quando erano
giovani, dietro una vecchia bottiglia di vino rosso dannata che aspettava chissà
quale occasione per essere stappata, trovò quel libro con la copertina verde e arancione,
lo nascose nella tasca interna del suo giubbetto di jeans, lo nascose dai barbari in
disperata ricerca di un souvenir, magari anche prezioso, catenine doro, soldi,
oggettini da antiquario, lo nascose dagli sciacalli che si sarebbero puliti le zanne e
avrebbero assunto unaria triste appena consegnate le chiavi alla volpe, che non
potendo mangiarsi il grappolo aveva comprato tutta la vigna. E per un pugno di merda. È
talvolta incredibile come chi meno ha avuto nella vita si abbarbichi alla quantità
illusoria, considerando tanto o abbastanza ciò che in realtà è miseria, considerando
oro ciò che in realtà è merda.
Andammo tutti al cimitero del paese, qualcuno comprò dei fiori, stettero lì a parlare e
discutere; mal nascondevano laria soddisfatta di chi ha un brillante futuro e non
gli resta che allungare la mano e afferrarlo. Le tombe rilucevano nel sole pomeridiano,
pochi visitatori si segnavano nelluscire, io giocavo a tirare i sassolini più
vicino che mi riusciva alla base della cappelletta, ma qualcuno di questi entrò nel
tempietto di marmo asettico. Lo zio Carlo mi sgridò. Non avevo rispetto dei morti. Io. I
morti avevano facce che ridevano, io le vedevo, le facce dei morti ridono, mi diceva il
vecchio. Uno dei suoi poeti incredibili. Ora so, ricordo e so. Se vuoi una cosa, cercala
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua forza e volontà; chi la dura la vince. Io
guardavo indietro, non lo vedevo quel futuro roseo che tanto si sciacquava nella loro
testa. Vedevo un enorme vuoto davanti a me, una pianura sconfinata e nel vento, nel vento
freddo, e nessun sentiero. Larco di marmo del paese brulicava di foglie secche
trascinate dal vento, io e il vecchio camminavamo assieme a loro, risalendo il vecchio
convento, fin su alla fontana e alla strada che porta al cimitero. Le vedi le foglie, mi
diceva il vecchio, le foglie cadono e i vecchi se ne debbono andare. Era triste, ma mi
sorrideva, come sorrisero i miei prima di montare in macchina e sparire nella notte
dautostrada. I vecchi subiscon le ingiurie degli anni non sanno distinguere il vero
dai sogni i vecchi non sanno nel loro pensiero distinguer nei sogni il falso dal vero.
Sorrideva e mi raccontava le sue minibarzellette sceme, e dei suoi poeti, e delle storie
del lavoro a costruire case per la gente che ce li aveva i soldi e ce ne aveva tanti,
parlando come poi non avrebbe più fatto, sdraiato in quel letto bianco, a corto di fiato
e di voglia di parlare, di esprimersi. Diceva che voleva esser buttato al Tevere, o dato
in pasto ai leoni, o lasciato su una collina nel vento, con la faccia scoperta e il suo
sorriso.
«Quando io e costoro saremo morti
Portateci su qualche collina nel vento
A giacere col volto scoperto un attimo
Ché umanità e lebbra sappiano
I volti dei morti ridono
RE! RE! I VOLTI DEI MORTI
RIDONO.»
I volti dei morti ridono. Ora sapeva. Ricordava e sapeva. Era importante. Si tolse gli
occhiali, andò a girare lo scaffale vicino alla finestra e ne tolse un libricino dalla
copertina verde e arancione, edizione Garzanti di una quindicina danni prima, anno
più anno meno, laprì nel punto in cui luso aveva formato un segnalibro
automatico. Cominciò a leggere alcuni di quei versi così radicati dentro da sembrare
versi propri. Ne lesse parte in silenzio, andando con la memoria altrove, in un altrove
oggettivamente lontano, ma palpabile, vicino a quella foto un po ingiallita di un
ragazzo seduto su un letto, i capelli leggermente più lunghi del decente, i jeans logori
dal tanto resistere. Poi lemozione nel ripetere quelle strofe crebbe e
inconsciamente Paolo cominciò prima a mormorare, poi quasi a declamare, ma non era una
declamazione estatica o esaltata, era un qualcosa che, sommesso, sgorgava da un dentro
profondo e preso:
«Me ne vado, ti lascio
nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea
che al quartiere in penombra
si rapprende.
E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
intorno, e, più lontano, lo riaccende
di una vita smaniosa che del
roco
rotolìo dei tram, dei gridi umani,
dialettali, fa un concetto fioco
e assoluto
»
Per l'intero numero in formato pdf clicca su: Versione PDF
Se non disponi di acrobat Reader, puoi scaricarlo da:
|