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anno IX n. 1
gennaio 2000

indice di gennaio

 LETTERATURA

La dimesione fluviale di Ananìa
Il faticoso e accidentato cammino del poeta ne Le ali di Darwin
di LORENZO POMPEO

Superata l’iniziale e viscerale repulsione dovuta dalla scelta di un titolo che ricorda troppo da vicino una delle più detestabili (in verità per nulla diversa da tutte le altre) trasmissioni di intrattenimento nazional-popolare, mi sono accostato alle liriche di Ananìa timidamente. Da subito mi hanno colpito alcune liriche, come «Libero mercato» oppure «Settembre», della prima sezione. La trama e le immagini nitide di queste due liriche mi hanno aperto la strada per entrare nel mondo poetico dell’autore, ma mi fu chiaro da subito che era necessario percorrere una via più lunga del previsto e rileggere più di una volta i versi della raccolta prima di tentare di decifrare la sua cifra stilistica. La lieve malinconia delle immagini, come in un verso di «Settembre» che fa: «la solitudine è di nuovo rumore», oppure «Questo pingue deserto | non risponde» in «Libero mercato» mi è apparsa dalla prima lettura uno dei pregi maggiori di questa poesia. Una malinconia stemperata in una quotidianità, come quella del mercato evocata nell’omonima poesia. Proprio questa dimensione della quotidianità, della poesia che diventa «diario» del poeta, appare una delle più importanti chiavi di lettura del lavoro di Ananìa. Aspro e amaro si fa il tono nelle liriche «amorose» della prima parte della raccolta come in «Giardino» o in «L’arte del dono», che si chiudono entrambe con un’amara considerazione. Fondamentale appare il ruolo delle chiusure in queste e in molte altre liriche della raccolta, dove la forza dell’enunciato spesso si impone da sé per la potente densità paragonabile a quella di un epigramma aforistico, così come possiamo rilevare, ad esempio, nella breve e intensa lirica «Barabba», che si chiude con un verso come «questo barabba è il Cristo non risorto». Ma dopo un’attenta lettura del volume, sono proprio le liriche amorose che mi sono apparse le più convincenti, a tratti persino commoventi. La gamma dei sentimenti e le sfumature sono le più varie, e si va dall’ira di «Questue» che si apre con «Quando smise di fingere era morta», ai toni più intimi e dimessi di una lirica come «L’altro» in cui il poeta scrive: «Ed ecco in lei, così assidua dell’ombra, | una luce che dissipa il disprezzo.» Nella prima parte della seconda sezione intitolata Lei la scrittura appare come unica possibile riparazione di una dolorosa separazione (la sezione si chiude con «da un anno non scrivevo»). Commovente in questa sezione è la presenza-assenza di una alterità che dà vita a immagini ricche di autentico pathos, come quando il poeta scrive: «In me riaffiora l’amore | e il suo affanno si quieta | il dito sosta nell’arca | del mio ricordo s’addormenta. | Ora nel suo | è il seme del mio sonno.» Allo stesso modo pregevoli appaiono i componimenti della la sezione Gemella, nella quali il tema centrale è quello della morte. Anche in questo caso gli approcci e i punti di vista sono diversi e, talvolta, opposti: dal tono tragico del componimento che apre il ciclo, che comincia proprio con il verso «morte nata con me», che ci ripercorre un topos caratteristico della lirica barocca, al tono più scherzoso e dimesso di «Un taxi macilento mi ha sfiorato», dove il poeta in modo semiserio prefigura la sua morte nel letto domestico mentre si trova in Nuova Guinea. Particolarmente riuscita è la lirica che chiude la sezione, «Agosto, in miasmi…», nella quale in una città deserta ad agosto appare «il mio nonno risorto | che il suo silenzio semina», dove l’ombra dell’avo chiude la lirica, ma anche la sezione incentrata sul tema della morte, con l’invocazione di un’ombra per mezzo di quelle facoltà medianiche che da sempre solo la poesia sembra possedere. A Gemella segue una sezione, Ustioni, dedicata al rapporto del poeta con il mistero divino. Anche in questo caso il poeta dichiara in uno dei suoi più riusciti componimenti la sua personale idea del divino: «Questo l’assoluto che venero | l’ordine rigoroso del precario | la sua normalità e incanto.» Il tema del contrasto tra l’ordine e il caos è centrale in questa sezione, in cui il poeta sembra rinunciare in modo volontario ed esplicito a tracciare una qualsiasi forma di tassonomia o gerarchia nel caos dell’esistente, ma sceglie di venerare l’intero mondo animato, che sembra rappresentare per Ananìa l’unico sintomo del divino.
Non manca infine una piccola sezione centrata sui temi dell’impegno politico, nel quale dietro le immagini appare più nitido il ricordo, ovvero l’autobiografia dell’io lirico.
Anche se questa sezione non è certamente la più efficace della raccolta, la dimensione dell’impegno politico appare sincera e coerente rispetto alle altre liriche, nelle quali tale dimensione talvolta era già affiorata. Nella raccolta, che raccoglie il lavoro degli ultimi cinque anni, dal 1993 al 1998, si avverte l’inteso lavoro che il poeta ha dedicato alla sua poesia. Evidentemente molte cose sono cambiate in questo decennio che ci siamo da poco lasciati alle spalle e molte delle liriche di questa raccolta tentano di raccogliere la sfida dei tempi nuovi, in cui la dimensione dell’impegno politico appare sempre meno efficace e/o sincera, mentre il mito dell’ideologia si è definitivamente sgretolato. Ed è come se la rinuncia al punto di vista ideologico e a ogni forma di sintesi dell’esistenza imponesse un salutare bagno nel fiume degli eventi, una immersione nell’esistenza.
E proprio tale dimensione «fluviale» della raccolta di Ananìa appare l’aspetto più affascinante. La lirica di Ananìa non è un fiume in piena, o un fiume dalla enorme portata, come, per intenderci, per Pablo Neruda o per il migliore Majakovskij. L’autore evita le immagini ridondanti e spegne i toni più accesi. Tuttavia la sua poesia, pur servendosi di mezzi stilistici e/o linguistici quasi sempre «modesti», non persegue fini affatto modesti. Al contrario, la poesia di Ananìa vuole esplorare la dimensione esistenziale della lirica più «alta», si pone di fronte al problema della morte e al mistero del divino, ma senza mai perdere il contatto con il mondo concreto della quotidianità.
Il cammino del poeta nel mondo appare faticoso e accidentato, così come il ritmo dei suoi versi, che talvolta si serve della rima per creare qualche punto d’appoggio all’enunciato poetico, ma che nel verso successivo abbandona subito la tentazione della rima facile, per cercare, di volta in volta, di afferrare la pulsazione irregolare della singola lirica. Del resto la dichiarata adorazione di Ananìa verso «l’ordine rigoroso del precario» appare l’impronta della sua poesia, in bilico tra il trionfo e il fallimento.
L’andamento dei versi, che pare talvolta tortuoso e che necessita di alcune attente riletture, è la conseguenza di quel «precario equilibrio» che il poeta ha assunto come suo punto di vista. La dimensione del «focolare domestico» è quella che caratterizza i migliori componimenti di questa raccolta. Le vicende evocate nelle liriche si svolgono quasi tutte all’interno delle mura di un appartamento, ma affiora in più di una occasione la memoria di un mondo rurale più antico. In «Resti», poesia dichiaratamente autobiografica, questa memoria è volontariamente evocata, mentre in altre liriche questa memoria del «mondo antico» si stempera in quella nota lievemente malinconica, che rappresenta a mio avviso una delle migliori note della raccolta.
Forse proprio oggi, dopo il tramonto delle forme metriche chiuse, in un’epoca di totale scetticismo, scrivere poesia è diventata cosa quantomai pericolosa e insana. Mancando punti di riferimento, il rischio di essere fraintesi è altissimo e ciò che è serio può facilmente apparire involontariamente comico o viceversa. Per questo e per quanto sopraddetto, va la nostra gratitudine all’autore. (Le ali di Darwin (poesie 1993-1998) di Vincenzo Ananìa è pubblicato da Loggia de’ Lanzi Editore, Firenze 1999, L. 20.000).


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