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anno IX n. 1
gennaio 2000

indice di gennaio

 LETTERATURA

Nuova poesia italica in Marcoaldi

«E la vita – vedi alle volte –
lo ripaga: "Sveglia ragazzo
andiamo. È tempo di salpare".»
Franco Marcoaldi, Celibi al limbo

di NICOLA D'UGO

In Celibi al limbo (1995), Franco Marcoaldi ci offre una poesia autoironica, talvolta amara, schivando con l’arguzia buffonesca ogni pretesa di lirismo serioso, di letteratura alta, di sperimentalismo estroso, come vorrebbe invece la più nota poesia del secondo Novecento. Ciò che mi ha colpito di questo autore è il gioco simpatico e imperfetto delle rime, come fiori o stelle che sbocciano nella testa lungo il fiume della sensazione. Una sensazione che sa tenersi, o meglio perdersi e ritornare, in un contesto riconoscibile, in un’Italia fatta di amici, illusioni, canzonature, attese e delusioni. La poesia, con Marcoaldi, sembra ritornare a questo contesto contemporaneo, di cui ci avevano già raccontato altri linguaggi, anzitutto quello cinematografico di Moretti e quello fumettistico di Pazienza. L’Italia di Marcoaldi non è un orto montaliano, in cui l’esistenza si consuma e si brucia la vita, e neppure, più tardi, quell’Italia segnalata da Pagliarani ne La Ragazza Carla, in cui depressione e immigrazione rappresentano il contesto sociale entro cui matura, nel dolore, il boom economico degli anni Sessanta. Qui ciò che si consuma sono i momenti, ciò che brucia è il desiderio, e ancor più la sua rapida consunzione. La vita non è disillusa, ma si illude e disillude per illudersi ancora. Il mito non è né la Rivoluzione né la Lotta Sociale, ma, come scrive Marcoaldi, «regina Fica». Infatti: «E gli operai che arrivano | dal Corso, a dorso di lambrette? | Che strillano, battendo sui tamburi? | Bandiere rosse e volti seri, scuri; | quegli operai di cosa vanno in cerca? | “Loro ce l’hanno col governo, | ce l’hanno con gli americani”. | I quali sono amici del mio babbo, | mentre il fratello grande dice | che non è vero niente: “Ma quali | santarelli, quelli; son caimani”.» Sono invece le frequentazioni, amicizie, amori, pervasi dal mito dell’arte e della letteratura, di quell’intellettualismo riflessivo che ha perso la connotazione d’azione propria delle sue origini francesi, quali erano quelle espresse nell’Ottocento sul giornale Aurore. Ma v’è un cenno di ritorno al commento e al giudizio sulla realtà contemporanea che, se anche non la si dovesse condividere, risulta, se non pasolinianamente grintosa, ironicamente desolata e sconsolata, comunque critica.


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