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Sommario anno X numero 9 - settembre 2001

 ARTE - pag. 07


Gli esordi di Dalì

di Luca Ceccarelli

1927 - Salvador Dalì: Apparecchio e manoLa rivista si è occupata, nei numeri precedenti, di alcuni pittori spagnoli dei secoli andati, con speciale riferimento a mostre che si sono tenute nei mesi passati a Roma. Una è stata quella di Velazquez, il grande pittore seicentesco, e l’altra quella di Goya, una mostra piccola, quest’ultima, incentrata non sui quadri dell’artista spagnolo ma sui suoi caprichos. Tra i caprichos ve n’è uno in particolare che è celeberrimo, il cui titolo ha carattere di sentenza: si tratta del numero 43, El sueño de la razon produce monstruos, in cui sueño, come faceva notare in un recente articolo su La Repubblica Umberto Galimberti (riprendendo un errore in cui anche chi scrive è caduto) deve tradursi non come sonno ma come sogno. Non è una differenza da poco, evidentemente, nel primo caso infatti la frase che se ne evince esprime un razionalismo totalizzante, nel secondo caso, invece, è proprio quest’ultimo che viene paventato, e infatti Goya, subito dopo, approfondisce questa sentenza con un richiamo alla fantasia: "la fantasia abbandonata dalla ragione produce mostri impossibili: con essa è madre delle arti ed origine delle sue meraviglie".
Un artista in cui fantasia, sogno e ragione produssero, insieme, una quantità impressionante di meraviglie è un altro spagnolo, Salvador Dalì, che ebbe tra i suoi punti di riferimento Goya, e fu anche un grande ammiratore di Diego Velazquez, ma verso quest’ultimo non provava il massimo entusiasmo: gli mancavano, secondo Dalì, un po’ di allucinazione ed un po’ di mistero. Troppo razionale, il suo realismo post-caravaggesco, per le tendenze e le aspirazioni di Dalì.
La giovinezza di Salvador Dalì si era formata con gli studi all’Accademia di Belle Arti di Madrid, che nonostante il temperamento ribelle portò avanti con una certa applicazione. In Apparecchio e mano, del 1927, si avvertono i segni dell’influenza della pittura cubista e dell’arte astratta, unita tuttavia ad una forte memoria classica. La "mano" di cui nel titolo è un coacervo di arterie, da cui qualcosa sembra emanare, i volatili corpi di donne e del cavallo, e le figure fantasmatiche, fanno da contorno al misterioso "apparecchio" da cui spunta la mano, come malcapitate sopravvivenze. Nei confronti del cubismo (come del surrealismo, del resto) Dalì aveva un attitudine piuttosto scettica: a suo avviso, se non fosse stato per Picasso, il Cubismo si sarebbe potuto tranquillamente liquidare. "Può darsi che Picasso non sia un grande pittore, ma è senz’altro il più grande genio distruttore dell’età moderna", disse di lui, e questo ci indica il rapporto di rispetto, anche se di distanza che egli aveva nei confronti del suo compatriota.
Dopo i primi dipinti di maniera, una piena fioritura Dalì la raggiunge con Il gioco lugubre, del 1929. L’impronta è, qui, per la prima volta, surreale. Gli elementi sono molteplici, cerchiamo di indicare i più salienti. Dinnanzi ad una statua collocata su un piedistallo che si copre gli occhi per non vedere, una testa femminile implode sparando all’esterno altre due teste (allusione, forse, alla volontà e alle pretese altrui che vengono imposte all’individuo). La figura umana del passante che guarda, come anche il corpo femminile da cui proviene la testa che implode, hanno un dettaglio scatologico (in altre parole, se la sono fatta addosso), ulteriore elemento di implosione. Questo dettaglio suscitò parecchia perplessità in André Bretòn, ideologo del surrealismo, perché, come comprese Dalì, i surrealisti tendevano a "creare gerarchie dove non ce n’era bisogno". Un pezzo di cristallo di rocca e un escremento "venivano prodotti dalla comune natura dell’inconscio", cosa che per quanto riguarda il sogno è inconfutabile. Tuttavia, il quadro non mancò di suscitare preoccupazioni intorno alla persona dell’artista, anche perché quest’ultimo, in quel periodo, era soggetto ad una situazione di permanente sovraeccitazione nervosa, con continui attacchi di riso. Giunsero a Cadaques, un paese sulle coste del Mediterraneo dove Dalì soggiornava il regista Luis Buñuel, René Magritte con la moglie Georgette e Paul Eluard con la moglie Gala, una russa di grande fascino. Salvador Dalì: I primi giorni di primavera Eluard propose a Gala di parlare con Dalì riguardo al quadro, e quest’ultimo le assicurò di non essere assolutamente affetto da coprofagia (gli amici temevano addirittura questo!) né da squilibri mentali di sorta (ha scritto in seguito: "L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo!"). Fu a partire da questo quadro che Dalì si innamoro di Galà, che divenne successivamente sua moglie, sua modella e sua musa ispiratrice per molti anni. Ne I primi giorni di primavera il tono sembra più disteso, come se dopo l’esplosione che ha caratterizzato Il gioco lugubre tutto tornasse ad un quadro di maggiore serenità.
Certo è che le opere degli anni immediatamente successivi al 1929 avranno un segno diverso: ne Il vero quadro dell’"Isola dei morti" di Arnold Böcklin all’ora dell’Angelus (1932) rielabora un tema del pittore svizzero di fine Ottocento, dipingendola solitaria e abbandonata, e ne La persistenza della memoria (1931) fornisce il primo dei suoi numerosi paesaggi con orologi molli, gravidi di molteplici spunti riflessivi riguardo al tempo, alla storia, alla materia.


Sommario anno X numero 9 - settembre 2001