Sommario anno X numero 10 - ottobre 2001
STORIA
E LETTERATURA -
pag. 18
La Società
Introduzione dell’Autore
Ciò che segue è la seconda e ultima
parte della ricostruzione, a metà tra realtà e finzione guidata, della
prima conferenza tenuta da Henry D. Thoreau (1817-1862), scrittore,
naturalista e conferenziere americano famoso per aver scritto Walden
(1854) e La Disobbedienza Civile (1849). La conferenza si svolse a
Concord, una tranquilla cittadina non lontana da Boston, l’11 aprile
1838. Oggetto della discussione è "La Società", un tema su cui
l’autore insisterà durante tutta la sua vita. Come ogni argomento che
meritava l’interesse di Thoreau, anche quello relativo alla società è
investito da una pungente critica di partenza, condizione sine qua non
per fare emergere l’auspicata prospettiva di rinascimento individuale
basato sull’auto-riforma spirituale, senza dubbio la soluzione preferita
dai trascendentalisti americani.
Stefano Paolucci (doppiacroce@tiscalinet.it)
Illustrazione di Vito Maria Fimia
Le
leggi della Natura sono la moralità più pura.12 Le formiche e le
termiti, ma anche una pietra e una betulla, saprebbero di cosa sto
parlando. Le loro società non assomigliano neppure lontanamente alle
nostre, perché il loro non è un mero assembramento, un accalcamento,
come all’apparenza potrebbe sembrare. Ciò che le formiche e le termiti
hanno capito meglio e prima di noi è che non ci si deve semplicemente
assembrare, ma associare. "Associazione" è una parola
molto carica, che invoca a un ordine di cose di natura ben superiore alla
sciocca presunzione dell’uomo di aver fatto qualcosa di ammirevole
mettendo quattro casupole l’una appiccicata all’altra e chiamando il
risultato "società". Associarsi non significa ritrovarsi seduti
in questa sala e partecipare tutti insieme dell’evento che si sta
svolgendo. Non significa semplicemente questo. Essere associati
significa bensì colmare quei vasti golfi di vacuità che separano una
vetta dall’altra; significa eliminare i giorni di cammino che dividono
due persone, per far sì che salutandosi possano stringersi la mano;
significa essere come due querce, le cui chiome si sfiorano quanto basta,
ma le cui radici sono tra di esse indissolubilmente intrecciate;
significa, in una parola, essere amici.
Tuttavia, la realtà è un’altra. Nessuna società è stata, e c’è
ragione di credere che nemmeno in futuro sarà mai, così conformata.
Nessun popolo fu completamente unito da un’amicizia incorruttibile.
Nessun popolo visse mai nell’armonia che vige per esempio all’interno
di un formicaio o di un termitaio. Poiché la società, per quanto
riguarda noi uomini, è sempre stata l’insieme di gruppi sparuti di
estranei e non un’omogenea associazione di individui. Mentre ogni
formica conosce ciascun componente del formicaio, e addirittura fra di
loro praticano la trofallasi, cioè si scambiano da bocca a bocca il cibo
(il cosiddetto "rigurgito"), noi uomini conosciamo a malapena il
nostro vicino di casa, e se questi un giorno venisse a chiederci qualche
cosa da mangiare, e noi gli offrissimo gli avanzi del pranzo, di sicuro si
sentirebbe insultato e preferirebbe restare a stomaco vuoto; e mentre una
termite qualsiasi può accedere alla camera regale e ottenere un’udienza
dalla sua regina, noi uomini, se vogliamo incontrare il presidente del
nostro paese, fosse pure soltanto per vederlo una volta nella vita, non
riusciremmo neppure a oltrepassare il più remoto avamposto di guardia
senza una ragguardevole raccomandazione. Ora, poiché la prima esigenza
della vita sociale è la comunicazione dei bisogni della società da un
individuo all’altro, è evidente, a giudicare da come stanno le cose,
che noi esseri umani non riusciamo a far questo se non in minima parte,
per non dire che non ci riusciamo affatto. Se in quest’istante, ad
esempio, io vi esprimessi il bisogno di aggiungere una nuova ala alla mia
casa, quanti di voi si precipiterebbero a prendere chiodi e martello per
venire con me a costruirla? Un paio di voi al massimo, e scommetto che
saprei pure chi sarebbero.
Ed eccoci al punto, signore e signori. Quel paio di persone che si
alzerebbero e verrebbero con me a costruire l’ala da aggiungere alla
casa, sono certo, sarebbero due miei amici. Non sarebbero dei
semplici conoscenti, come per esempio il gestore della tale locanda o il
garzone della tal bottega di Concord. Sarebbero due persone che mi
conoscono molto bene e che si conoscono altrettanto bene: tutt’e
tre, insomma, dovremmo conoscerci a fondo. Fra di noi, a separarci,
non dev’esserci alcuna profondità di valle. Le nostre radici,
sottoterra, darebbero l’impressione che si dipartano da un unico tronco.
Solo così, forte di queste premesse, il nostro gruppo di tre potrà a
ragione chiamarsi "società", ovvero un’associazione di più
persone mosse dallo stesso fine. Da quel momento, fino al termine della
costruzione della nuova ala, noi tre saremo come un organismo,
piccolo, semplice, ma pur sempre un’unità perfettamente funzionante,
per il quale esisterà soltanto una legge: quella della Natura, da tutti e
tre rispettata giacché riconosciuta. Diversamente, non c’è
società, ma solo assembramento, calca. Diversamente, c’è solo quello
che noi viviamo tutti i giorni, vale a dire l’illusione di essere uniti
da un comune intento sociale che i più chiamano "cooperazione"
ma che io chiamerei piuttosto "sopportazione".
Questa è la dimostrazione che l’attuale società umana non è dunque
nemmeno simile a un organismo, poiché se così fosse, allora in questa
sala tutti quanti, donne comprese, dovrebbero prendere gli
attrezzi, rimboccarsi le maniche e affiancarmi nella costruzione della
nuova ala. E se la società non è come un organismo, allora come osiamo
dire che l’uomo è nato per la società? Il pesce nuota nell’acqua: è
il suo elemento. È cosa che infastidisce gli uomini che il vero sia così
semplice. Sebbene di ciò ce ne rendiamo conto, continuiamo lo stesso a
sperare che qualcuno sollevi al più presto un dubbio che rimetta in
discussione quella verità. Ma la verità non si discute. Chi prova a
farlo finisce per scavarsi la fossa con le proprie mani. Oppure finisce
per ritrovarsi in mezzo alla società, che non è altro che un’immensa
tomba a cielo aperto.
Gli uomini si ingannano su sé e sugli altri perché trattano i mezzi come
fini; e allora, nonostante ogni attività promossa, non arrivano a niente
o forse addirittura al contrario. L’esempio più eclatante ce lo dà
proprio la società, o, per meglio dire, il cosiddetto "determinismo
sociale". Cresciamo con la convinzione, o quanto meno con l’idea,
che la nostra vita inizierà veramente solo quando compiremo il primo
passo nella società, in quel misterioso eppur da sempre conosciuto mondo
che ci attende oltre la soglia domestica. Sembrerebbe quasi che la vita
individuale di ciascuno, prima del fatidico ingresso nella società, non
abbia un suo proprio valore; parrebbe sia incompleta, insignificante, per
nulla soddisfacente; sotto ogni aspetto. E la nostra vita acquisterà un
suo preciso valore, un suo significato, solo allorché compiremo
quel passo che, siamo convinti, ci porterà dritti alla realizzazione di
noi stessi. Anzi, quel passo stesso sarà la nostra realizzazione.
Ma di che tipo di realizzazione si tratti, nessuno sembra saperlo; e,
seppure qualcuno lo sa, questi non vorrà dircelo. Quasi che questo
qualcuno senta vergogna, o più probabilmente rammarico, nel
comunicarci la triste verità, e cioè che la realizzazione cui andiamo
incontro è una mera "realizzazione sociale". Perché capirete,
signore e signori, dato che ormai abbiamo visto qual è la reale natura
della società, ossia la stessa di una campana incrinata che sbatacchia ma
non suona, capirete, dico, la beffa e il colpo che si riceve allorché si
scopra l’errore madornale d’aver confuso il mezzo con il fine. Una
realizzazione sociale!
Quale realizzazione si potrà mai trovare dove ci aspettano solo i
fallibili compromessi di persone che riconoscono l’infallibilità a un
vecchio vestito di bianco con in testa un buffo cappello?13 Che
cosa si può sperare di ottenere da una moltitudine che per il proprio
comodo ha scelto di ignorare la verità? Di quale saggezza ci si può
arricchire frequentando persone che si rifiutano di riconoscere il fatto
che ciascuna di esse è una società infinitamente meglio organizzata di
quella di cui hanno scelto e sono perfino orgogliosi di far parte? E quale
fiducia può mai irradiare una persona che non ha fiducia in se stessa, al
punto tale da sembrarle più opportuno rifugiarsi in una società che
considera erroneamente superiore a sé?
Il pericolo maggiore di assegnare alla società un valore più alto di
quello di un individuo, l’azzardo di incoraggiare le persone a
identificarsi innanzitutto con un gruppo, portano inevitabilmente a far
sì che una persona trasferisca il biasimo derivatogli dai propri difetti
a quel gruppo lì. Infatti, se uno cerca nella società la propria
identità e la propria realizzazione, di sicuro reputerà la società
responsabile anche per quanto riguarda le proprie insoddisfazioni, la
propria mancanza d’identità, i propri insuccessi, la propria
alienazione. E ciò è l’apoteosi del comodo, signore e signori. È la
soluzione a tutte le frustrazioni dell’uomo: grazie alla furba
invenzione della società, dell’appartenenza ad un gruppo, l’uomo può
in ogni modo e momento scrollarsi di dosso quel carico di biasimi che
altrimenti lo farebbe sentire un fallito, una nullità.
Ma l’uomo è l’artefice della propria felicità.14 Eventi e
circostanze trovano la loro origine in noi stessi: sono i germogli di semi
che noi abbiamo piantato.15 Che dunque l’uomo sappia come
egli si lamenta della disposizione delle circostanze, perché è la
propria disposizione che egli biasima.16 Una persona saggia, che
conosce e segue senz’ambagi le infallibili leggi della Natura, si
rifiuta di biasimare gli altri, o le circostanze, o la società, per i
suoi insuccessi. L’uomo saggio sa che i propri fallimenti derivano da
lui, e da lui solamente vuole anche risolverli. Per cui, se la società
non può essere biasimata per ciò che "va male", per legge d’equilibrio
non possiamo neppure coprirla di lusinghe per ciò che "va
bene". Cosa rimane da fare, quindi? Considerare l’individuo.
Che ciascuno sia dunque la propria società, dico io. Che ciascuno sia il
capo del proprio stato. Che ciascuno sia allo stesso tempo il giudice e il
carceriere di se stesso. Che ognuno, infine, prenda le sue decisioni
secondo la maggioranza di se stesso.
Se noi uomini ci rendessimo conto, capissimo cioè in coscienza,
che ciascuno è l’artefice della propria felicità, e quindi di fatto
anche responsabile di tutto ciò che gli capita; e se inoltre, compreso
ciò, cominciassimo a lavorare su noi stessi per migliorarci, solo allora,
signore e signori, potremo sperare di migliorare anche la società in cui
viviamo. Perfino Concord potrebbe migliorare.
Stefano Paolucci (doppiacroce@tiscalinet.it)
Note:
12 Walden, Ed. Frassinelli, 1998.
13 Come già scritto nell’introduzione, l’infallibilità del
Papa non sarebbe stata sancita che nel 1870 e dunque Thoreau non poteva
pronunciare una cosa del genere. Tuttavia, mi seduceva l’idea di questa
anticipazione e, inoltre, si addiceva bene al discorso.
14 Journal, I, 25. "Man is the artificer of his own
happiness."
15 Journal, VI, 226. "Events, circumstances, etc., have
their origin in ourselves. They spring from seeds which we have sown."
16 Journal, I, 25. "Let him beware how he complains of
the disposition of circumstances, for it is his own disposition he blames."
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