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Sommario anno X numero 10 - ottobre 2001

 ARCHEOLOGIA - pag. 21

"MAMMONTAKOVAST"

Miti, antefatti ed iconografie nella divulgazione sul Mammuthus primigenius

di Mario Giannitrapani


Nel mese di Ottobre Roma ospiterà un convegno sugli Elefanti di risonanza mondiale: cogliamo l’occasione per preparare il lettore agli studi svolti sul più misterioso pachiderma di tutti i tempi.
Riferendosi agli antefatti dello studio scientifico del mammut, dopo un
excursus sulle origini del termine, ci soffermiamo sui primi episodi storici relativi alla scoperta ed alla diffusione dell’iconografia. Vengono poi rese in sintesi alcune delle nozioni anatomico-paleontologiche più note in letteratura, sulle differenze fra alcuni proboscidati che spesso, nel corso di una corretta divulgazione museale, non si è avuta l’occasione di riscontrare in varie fasce di utenza museale. Difatti per certi aspetti permane l’assenza di un’adeguata e corretta divulgazione scientifica atta ad eludere appunto, le improprie associazioni che ancor oggi frequentemente si possono riscontrare fra i non specialisti, che portano ad associare facilmente mammut, dinosauri, Australopiteci e savane africane in un improbabile e perduto calderone "preistorico".


A La Description de la Tartarie di Witsen (1692), risale la prima menzione letteraria del mammut. Infatti i resti di ossa e denti giganti trovati sui bordi dei fiumi siberiani erano allora chiamati mamontekost (in russo, ossa di mamont o di mamout). Alcuni autori, circa l’etimologia di mammut, riferirono poi anche di una presunta confusione con il nome di San Mamas, venerato dai russi. Il naturalista Pallas mise in relazione la doppia radice ugro-finnica con ma o mama (in tartaro, la terra) e mut o muit (in estone, la talpa). Questa etimologia sembra ben accordarsi con il significato mitico attribuito al mammut dai vari popoli siberiani; si crede infatti che questi animali siano vissuti sottoterra, quasi fossero stati dei "ratti giganti" che morirono lungo i fiumi perché lì videro appunto la luce del Sole. Alcuni racconti degli Yakouti parlano difatti del mammut come di uno spirito-madre delle acque, una specie di "animale acquatico"; altri popoli invece lo hanno rappresentato in forma di un uccello gigantesco, e fu identificato anche con le anime degli esseri sotterranei sulle quali gli sciamani esercitano il proprio potere. Difatti molti pendenti scolpiti in forma di mammut venivano appesi ai costumi di particolari sciamani e varie silhouette di mammut (ritrovate in Siberia, Cina, Manciuria, da Behring all’Alaska, ed in terra di Baffin) sembrano individuarsi inoltre in molte raffigurazioni di sagome animali reali e fantastiche (unicorno, grifoni, sirene, fenice). Vi è poi la tradizione dell’origine ebraica che prende spunto dal nome della chimerica bestia mostruosa del Béhémoth, (Giobbe 40, 15-19, descritto e interpretato poi come ippoptoamo) - ricordata dal Padre gesuita Avril nel 1685; proprio questa è l’etimologia che giunse in Siberia tramite i mercanti arabi del X-XI secolo. Questa tradizione, segnalata dagli esploratori russi degli inizi del XVIII secolo, metteva in evidenza la forte connessione fra storia naturale e teologia; tra le varie interpretazioni può essere citata, a titolo di esempio, quella dell’ingegnere russo Tatischev (1686-1750) che interpretava i resti di questi particolari elefanti ipotizzando che i loro cadaveri fossero stati trasportati dalle regioni calde fino alle terre fredde siberiane dalle acque del Diluvio, rimanendo poi lì sepolti per l’effetto di antichi terremoti. I resti di questo misterioso pachiderma, ancora ignoto a Linneo che non lo incluse infatti nei suoi ordini (Elephas, 1758), vennero poi notati, probabilmente per la "prima volta", dagli uomini dell’esercito di re Carlo XII di Svezia, che combatterono contro i russi di Pietro il Grande. Nel 1722 era arrivato dalla Siberia il barone Kagg, capitano di cavalleria, che portava con sé il disegno dell’animale eseguito da Tabbert von Strahlenberg, suo commilitone. Proprio da quest’ultimo, il mercante d’avorio Boltunow comprò le zanne dell’enigmatico animale e ne inviò un disegno a Pietroburgo, disegno poi a sua volta fu inviato al Blumenbach (Mammuthus = Elephas primigenius, 1799) e pervenuto infine al Cuvier (Elephas, Mammuthus, Loxodonta, 1825: le tre specie oggi sono divenute tre generi distinti). Dovrebbe quindi essere stata questa la "prima vera e propria" notizia di una documentazione, cui poi seguirono le scoperte di Messerschmidt (fiume Indirgika, 1724) e di Schumachow (fiume Lena, 1799, il primo scheletro completo ricostruito) nonché le conclusioni del Breynius (1728) e di Sloane (1727) relative, come disse il Messerschmidt, all’appartenenza dello scheletro ad un elefante e "non al chimerico Béhémoth dei rabbini". L’astruso termine siberiano mammontakovast venne così ufficialmente modificato in mammut. Ma solamente nel maggio del 1864, Lartet ebbe l’incofutabile prova che "l’uomo di Périgord" aveva convissuto con il mammut: nel giacimento della grotta La Madeleine, si ritrovò la celebre placca eburnea di mammut con l’incisione del pachiderma più misterioso di tutti i tempi.
Venne pertanto così scoperta l’iconografia del Mammuthus primigenius, l’elefante dal lungo ed ispido pelo lanoso di color bruno rossastro del Pleistocene superiore, la cui altezza, fino ai 3 m, risultò essere inferiore ai 5 m di Elephas antiquuus. Da quest’ultimo si differenzia - come noto - per il cranio alto, il corpo piuttosto corto, le orecchie piccole e le zanne fortemente arcuate, lunghe (fino ed anche oltre) i 3 m, nonché per la frequenza laminare elevata dei molari a smalto sottile, adatti a triturare erbe e cespugli bassi. Tipico di tundra e steppe siberiane, nonché di prateria, nelle fasi più fredde della glaciazione wurmiana, il Mammuthus primigienius occupò i territori a sud della calotta glaciale artica, diffondendosi anche nell’Europa occidentale; questo animale quindi rappresentò un periodo estremamente recente della storia umana (Paleolitico medio-superiore), convivendo anche con Homo (le ultime forme di Erectus, Sapiens arcaicus, Neanderthal e Sapiens Sapiens). Ma come fece notare la Cohen, il mito, falsato da molti romanzi, e tenace nell’immaginario collettivo di questo "mostro ambivalente della preistoria", è duro a sparire; ancor oggi infatti, molti ragazzi, e non solo i bambini delle elementari, non sanno che il mammut c’entra poco con la storia dei dinosauri. Recenti analisi cladistiche e biochimiche (albumina, collagene, ADN) hanno poi confermato la grande prossimità filogenetica del Mammuthus primigenius con l’elefante indiano, già presupposta dall’anatomia-morfologia paleontologica tradizionale. Diversamente, in base alla letteratura più nota, alle origini dell’elefante africano, anche per la diversa struttura dei molari, furono invece gli elefanti del genere Palaeoloxodon, di ambiente più forestale e climi più temperati, con zanne appena ricurve. Ma c’è poi una particolare "ecologia" del mammut che probabilmente, anche per la geografia delle scoperte, ha qui da noi consentito solo in parte un’adeguata ed esaustiva divulgazione sulle straordinarie risorse del misterioso pachiderma: si tratta infatti sia delle prime architetture domestiche umane finora note, eseguite appunto con ossa di mammut, sia di alcune delle più antiche melodie probabilmente ricavate da una scapola ed altre ossa di mammut ("l’orchestra" di Mezin), forse una sorta di xylofono, nonché delle celebri testimonianze d’arte ricavate dall’avorio e di varie sepolture (Kostienki 15, Dolni Vestonice, Pavlov, Predmost) in cui scapole e zanne del pachiderma divennero il corredo funebre. Crani, mandibole, scapole, vertebre, pelvi, costole, zanne ed arti, furono, come noto, le fondamenta di quelle costruzioni a capanna con pianta rotonda ed ovale del paleolitico superiore europeo (tra cui Kostienki in Russia, Dolni Vestonice e Predmost in Moravia, Mamutovo in Polonia), ed ucraino in particolare (Mezhirich, Mezin, Judinovo, Dobranicevka, Gontsij), ove un sapiente e straordinario stile di progettazione mise in evidenza elementi di ripetizione, ritmi e simmetrie, frutto forse, di una vera e propria pratica architettonica ritualizzata. Queste ossa, recuperate spesso da mammut morti da tempo, dimostrarono tra l’altro come questi mammiferi potrebbero essere stati una fonte di cibo meno significativa di quanto potrebbe suggerire lo stesso numero dei vari tipi di esemplari rinvenuti. Difatti sembra che nessun sito ucraino abbia rivelato chiaramente se i mammut venissero uccisi proprio lì ove furono ritrovati. Come fece notare il Klein, sono rimaste invece prove del contrario, poiché le analisi chimiche hanno dimostrato che questi animali vissero e morirono in millenni diversi. McGowan richiamò infatti un rinvenimento di resti di cuccioli di mammut in quella che sembra esser stata una tana di smilodonti, che rende probabile, per alcuni, l’ipotesi che fossero stati spesso proprio questi felidi ad attaccare i giovani mammut. Incisioni, sculture e pitture del paleolitico superiore occidentale ed orientale, hanno poi trasmesso fino a noi quella particolare iconografia zoomorfa del pachiderma che, come fece notare il Graziosi, si può osservare nelle stesse stalagmiti di Pech-Merle (Lot), somiglianti appunto a corpi di mammut, cui forse curiosamente si ispirarono gli "artisti" della grotta. Non posso quindi che convenire con l’Abramova sul fatto che "mis à part son role économique dans la vie quotidienne, les données témoignent de l’importance considérable du mammouth dans la vie spirituelle des hommes préhistoriques".

Bibliografia
Abramova Z.A.1995, L’art paléolithique d’Europe orientale et de Sibérie, Grenoble, pp39-42
Anderson E. 1989, Who’s who in the Pleistocene : a Mammalian Bestiary, in Quaternary Extinctions a Prehistoric Revolution, (P. S. Martin, R. G. Klein, Eds), pp. 40-89.
Cohen C. 1994, Le destin du Mammouth, Paris, pp. 27-44, 87-109, 175-195, ed ivi bibl.
Gladkih M. I., Kornietz N. L., & Soffer O. 1986, Abitazioni di ossa di mammut nella pianura russa, in Il Paleolitico, a cura di F. Fedele, Le Scienze quaderni, 30, pp. 35-43.
Graziosi P. 1956, L’Arte dell’Antica Età della Pietra, Firenze, Tavv. 272, 273 a-b.
McGowan C. 1999, Predatori e Prede, Varese, pp. 54-55.
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