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Sommario anno X numero 11 - novembre 2001

 ARTE - pag. 09

Rinascimento e dintorni

di Luca Ceccarelli

Se si dovesse giudicare una mostra in base al titolo (Rinascimento), quella allestita alle Scuderie Papali dirimpetto al Quirinale (aperta fino al 6 gennaio prossimo) si presenterebbe certamente lacunosa. Di propriamente rinascimentale, l’esposizione offre a ben vedere pochissimo: quando si giunge nella sala dedicata a Leonardo, Raffaello e Michelangelo ci si imbatte in tre disegni soltanto del primo, in un marmo di Michelangelo (Bruto) e in un ritratto del cardinale Bibbiena di Raffaello. Un po’ meglio le cose vanno per quanto riguarda il Rinascimento veneto: tre di Tiziano, tra cui il ritratto di Pietro Aretino, Flora, prototipo di bellezza “tizianesca” e la Maddalena penitente, e due tele di Giorgione, il suo maestro. Per il resto, al piano superiore la prevalenza è di tele d’impronta manierista, di scuola sia toscana sia settentrionale: Beccafumi, Andrea del Sarto, Pontormo, alcuni lavori minori di Correggio, Tintoretto, Veronese, alcune statue del Giambologna e di Bartolomeo Ammannati.
Di ben altro rilievo è la parte al piano inferiore, quella pre-rinascimentale, che inizia con il Quattrocento fiorentino, a cui è prevalentemente dedicata, prosegue con una sala dedicata ai maestri settentrionali, influenzati dal gotico internazionale, e termina con una sala dedicata alla scoperta della prospettiva, per opera di Piero della Francesca e ed altri pittori. Ed è su questa prima parte che vorrei svolgere alcune riflessioni.
L’esposizione propone all’inizio un marmo (Angelo annunziante, o profetino) di Donatello e un modello in olmo e noce della lanterna della cupola del duomo di Firenze del Brunelleschi: i due antesignani del Rinascimento, nella scultura il primo, nell’architettura il secondo. Merito di Donatello non è stata, essenzialmente, la riscoperta della scultura classica, che già era in atto da molto tempo (basti pensare alla tradizione dei Pisano), ma la sua scelta di unire l’imitazione dell’antico in scultura con l’osservazione della realtà, degli uomini che gli stavano intorno, aprendo la strada alla grande scultura dei Cinquecento dei Michelangelo, dei Giambologna, degli Ammannati e dei Cellini (quest’ultimo, purtroppo, assente nell’esposizione). Filippo Brunelleschi invece rivoluziona completamente il modo di costruire una cattedrale. Anche qui, non si tratta di una semplice riscoperta dell’antico (egli non ricalcherà i modelli delle cupole dell’architettura romana). Qui si tratta in primo luogo di un modo diverso di collocare l’edificio sacro nello spazio naturale: non più tendente verso l’alto con mille guglie e pinnacoli ma con una sola cupola terminante con la sua lanterna, in secondo luogo di un modo diverso di concepire la realizzazione della cattedrale, non più affidata all’esperienza delle maestranze, depositarie di un mestiere che era anche arte in senso pieno, ma racchiusa nel solo progetto dell’architetto, che le maestranze devono soltanto eseguire. La cupola del duomo di Firenze, realizzata terminata nel 1434 (la lanterna però sarà ultimata dal Verrocchio nel 1468) segnerà da allora il modo di costruire le chiese: senza la cupola di Santa Maria del Fiore, difficilmente potrebbe esservi stata, più tardi, la cupola di San Pietro di Michelangelo.
Nella stessa sala, viene proposta una tavola, la Madonna del solletico, di un discepolo di Brunelleschi e di Donatello, che a sua volta segnerà la pittura in profondità, nonostante la vita brevissima: Tommaso di Ser Giovanni, detto Masaccio. Allievo di Brunelleschi e di Donatello, abbiamo scritto, nonostante il carattere pittorico della sua produzione. Egli infatti dona alle sue figure una plasticità che risente indiscutibilmente della lezione di Donatello, in uno spazio pensato secondo una concezione umanistica tipica del Brunelleschi (si pensi, a titolo esemplificativo, all’affresco della Trinità, il suo capolavoro in Santa Maria Novella). Vi è una profonda differenza con l’opera di un artista contemporaneo come Lorenzo Monaco, pittore camaldolese di cui qui sono presenti due tavole, che resta ancora legato alla tradizione della pittura fiorentino-senese del Trecento di Simone Martini e di Pietro e Ambrogio Lorenzetti, ma anche con l’opera del Beato Angelico, di cui abbiamo qui una tavola con lo Sposalizio della Vergine. L’Angelico è ben consapevole delle nuove tendenze dell’arte, e del loro carattere di irreversibilità, quello che egli teme è la possibilità di una completa secolarizzazione dell’arte stessa. Ecco perché nei suoi dipinti, che hanno un aperto intento catechetico, trionfa la luce, e viene evitato qualsiasi scivolamento nel realismo, come dimostrano anche i ben noti affreschi nel convento di San Marco.
Molte sarebbero ancora le opere di artisti notevoli del Quattrocento fiorentino: Ercole e l’Idra di Antonio del Pollaiolo, la Scoperta del corpo di Oloferne di Sandro Botticelli, una Madonna in trono fra angeli e santi di Filippo Lippi, diverse terracotte invetriate di Andrea Della Robbia, tra cui vale la pena di citare almeno il fregio con il Carro del Sole e l’Aurora dell’Anima, sui quali, a conclusione dell’articolo, ricordiamo qui le parole del poeta Rainer Maria Rilke nel Diario Fiorentino del 1898: “Possedevano un numero di temi limitato, una materia povera, ma scesero profondamente in entrambi, ottenendo dalle figure la più tenera spiritualità e dall’argilla gli effetti più raffinati”


Sommario anno X numero 11 - ottobre 2001