Sommario anno X numero 11 - novembre 2001
LE
NOSTRE LETTURE -
pag. 12
Ritratto d’autore
L’arte raffinata della memoria
di D.R.
Anna Maria Di Massimo è una scrittrice che unisce un’innata, magnetica
eleganza ad una semplicità di stile di rara efficacia, felice
“contaminazione” tra profondità culturale, personale sensibilità e
quotidiano cimento nel difficile mestiere di docente in un istituto della
Capitale. Ma ci piace anche ricordare che l’Autrice è…”nipote”
d’arte, in quanto tale è la sua parentela con il compianto poeta
tuscolano Alfredo Michetti, al quale il nostro giornale ha sempre dedicato
affettuosa e reverente attenzione. L’opera più matura di Anna Maria Di
Massimo è un romanzo in stile autobiografico, un affresco sul filo della
memoria che abbraccia un lungo scorcio di vita personale inserito nel più
grande alveo d’una saga familiare nella Campagna Romana, tra la fine
dell’Ottocento e la seconda metà del Novecento. Il titolo è assai
significativo: “….E d’inverno c’era l’odore della legna
bruciata”. È il lungo, delicato racconto di un tempo “minore” fatto
di affetti, tradizioni e sentimenti a tutto tondo, di storie grandi e
piccole di gente comune ma - proprio per questo - spesso di statura morale
ed umana di assoluto rilievo. Un tempo fatto di
cose buone, di caminetti accesi e di ritmi biologici basati sui
cicli agricoli, rivisitato in una chiave critica modernamente gozzaniana,
ossia depurata di tutti i sospiri e gli struggimenti del crepuscolarismo.
Un tempo che – a seconda dell’ottica usata dal lettore - dista da noi
anni solari o anni-luce. Ciò che va rimarcato è che - al di là della
difficoltà di sintetizzare qui un contenuto che rifugge per definizione
dalle rigide gabbie delle recensioni - non è il “solito” libro di
memorie saccenti del laudator temporis acti, bensì un’opera viva
e vibrante che cattura l’attenzione di qualunque lettore: quelli più
giovani possono conoscere “dal di dentro” un mondo di cui forse hanno
potuto percepire solo una pallida eco, quelli meno giovani vi possono
ritrovare gli ingredienti più o meno lieti - ma comunque insostituibili -
della loro esperienza personale. Non staremo qui ad elencare i numerosi
riconoscimenti letterari tributati a quest’opera (il che non sarebbe
certo un esercizio vano) ma ci piace evidenziare in essa il sommesso uso
di un verbo che è nel contempo umilmente minimo e straordinariamente
enorme, un verbo al limite del desueto e del visionario: ricordare. Già,
ricordare: ma non è temerario usare un tal verbo? Ricordare è
un’impresa sovrumana, quasi innaturale in un’epoca come la nostra che
ha rimosso il senso stesso della memoria. L’estrazione di un ricordo dal
fondo buio della miniera in cui giace richiede energia titanica ed abilità
maieutica. Ricordare è anche una singolare e dolorosa pratica chirurgica,
perché non tocca la carne ma imprime nello spirito stimmate di fuoco. Se
il ricordo evoca un momento lieto, si rimpiange che esso durò troppo poco
e che ogni istante aggiunge ulteriori lontananze; se invece evoca un
momento triste, ci addolora che esso durò fin troppo e che non sia ancora
abbastanza lontano nel tempo. Ma la nostra esistenza si espande nel continuum
spazio-temporale come la pellicola d’un film, dove il fotogramma
presente succede a quello passato che, pur già visto, non per questo
cessa di esistere, e precede quello futuro che, ancorché inconoscibile,
tuttavia già esiste. Se saper ricordare è dunque il privilegio concesso
all’umanità per poter continuare a convivere col tempo passato in un
eterno presente, ebbene possiamo affermare che Anna Maria Di Massimo
dispensa con maestria un siffatto dono.
J. Duvernoy, La Religione dei Catari
Ediz. Merditerranee, Roma 2001
di
M.G.
Dagli studi più recenti, a detta di Francesco Zambon, docente di
Filologia Romanza a Trieste, sembra emergere “senza possibilità
d’equivoco la natura pienamente cristiana del catarismo” ;
l’acuta indagine di Jean Duvernoy dimostra che i gruppi catari - almeno
prima della persecuzione- non fossero “conventicole o sette segrete,
magari legati da trame occulte ai Templari o votate alla custodia del
Santo Graal”, bensì vivevano alla luce del sole nei grandi centri
urbani come Tolosa, Firenze e Milano, pienamente integrati nelle campagne
e nella società. Ritrovata una matrice origenista della teologica catara,
si sono poi ricondotte al monachesimo basiliano varie forme rituali ed
ascetiche. Tra i vari miti interessanti presenti nella predicazione catara
segnaliamo quello della caduta delle anime e della loro preesistenza,
quello del cavallo, del pellicano nonché la dottrina della metempsicosi.
Difatti ritroviamo una tendenza “naturalista” dei catari che spesso
riguarda anche la particolare concezione degli animali che ebbero :
astensione dai prodotti carnei e derivati (uova, latte formaggio) ad
eccezione di olio e pesce (che non ha il sangue), proibizioni quindi di
uccidere animali nei quali si ritiene possano essersi reincarnati gli
spiriti di coloro che debbono salvarsi ; condanna poi di tutto ciò
che proviene dalla generazione, ritenuta appunto “opera diabolica”.
L’astensione dei “perfetti”, dei “buoni cristiani” quindi,
contro la “ghiottoneria” dei chierici. Un cataro tolosano subì il
rogo alla metà del XIII sec. dopo aver risposto all’inquisitore di
“non vedere quale errore avesse commesso il gallo perché dovesse
ucciderlo”. Ma il rifiuto e la condanna vennero estesi al matrimonio, al
potere, alla giustizia penale e civile ; il lavoro invece fu visto
come un obbligo per il “perfetto”. Anche sui roghi le fonti dicono che
i Manichei di Orléans nel 1022 si ripromettevano di uscire dal fuoco
illesi ed i catari di Leon nel 1230 si rallegrarono nell’esser condotti
alla morte, conseguendo così col martirio la certezza della salvezza. La
donna poi, sebbene fosse ritenuta archetipo della “tunica di pelle” ed
all’origine della caduta degli spiriti celesti, sembra aver avuto
accesso alla gerarchia della chiesa catara, ma non fu mai Diacono o
Vescovo. L’indagine condotta sulla spiritualità catara, oltre ad aver
esaminato il complesso patrimonio liturgico e dottrinario, ha evidenziato
l’assenza “di qualsiasi traccia di fervore devozionale” ed anche di
eventuali “tracce esoteriche”. L’autore sostiene che “si potrebbe
“quasi scambiare il catarismo per un’opzione profana di tipo
intellettuale, se non fosse per l’interesse escatologico che a quel
tempo è fortemente sentito”. L’Archeologia ci parla del celebre
Castello di Montségur, ove sembra siano state verificate tracce di culti
solari desunti anche dall’architettura, così come dei rifugi
sotterranei e di grotte dell’Alto Ariège e di alcune interessanti stele
discoidali. Circa le origini di questa importante eresia si individuarono
come precursori Mani, Cerinto, Ebion, Marcione, Ario ed altri, ma la
soluzione più facile che prevalse fu quella di farli risalire a Mani. Fra
le numerose etimologie approfondite per spiegare i vari nomi (Bogomili,
Tessitori, Bonshommes, Ariani, Patarini, Albigesi, Bugri e molti
altri) è interessante quella che fa derivare Catari non dal greco
“puri”, bensì da Catus, poiché, si disse (Alano di Lilla),
“essi baciano il posteriore di un gatto sotto il cui aspetto compare
loro Lucifero”. Ketter-Ketzer, in tedesco, altri non sono quindi
che la gente del Gatto, i “gattisti” : nel Medioevo il gatto era
ritenuta una tipica bestia infernale e per l’autore infatti “si
cercherebbe invano nell’intero corpus dell’eresiologia occidentale
medievale un solo passo nel quale catari sia inteso come “puri”, né
un solo passo in cui essi stessi si siano dati questo nome”. Alano di
Lilla propose però anche altre due etimologie, fra cui cathari
ossia casti, in quanto tali si ritengono, e giusti. Il legalismo rigoroso
delle osservanze catare tuttavia, una concezione quasi a volte
materialistica della purezza religiosa in notevole contrasto con il suo
spiritualismo spinto, ha fatto pensare alle religioni semitiche.
Nonostante ciò, l’autore sconsiglia accostamenti troppo stretti tra
catarismo e giudaismo (Cabala) o con il sufismo ed il manicheismo
autentico, seppur è possibile scorgerne in alcuni punti delle affinità
ideali. Il presente libro costituisce quindi un’ottima sintesi
accessibile ed un’analisi scientifica di quella dottrina eretica diffusa
in Europa dall’XI sec. in poi, che il dettagliato lavoro di confronto
fra inediti dei grandi registri dell’Inquisizione con fonti slave e
bizantine ha permesso di poter circoscrivere e comprendere fin dalle sue
origini come “religione vivente e radicata nel tessuto sociale del tempo”.
Dai Volti d’Ermete alla Porta Ermetica
Dal Dio Greco al Mago
Alchemico
di M.G.
Per capire il significato storico-mitologico nonché alcune attuali
tendenze esoteriche occidentali, al lettore consigliamo la lettura di due
testi recentemente editi sulla celebre figura di Ermete Trismegisto (tre
volte grande). La Porta Ermetica, opera di Giuliano Kremmerz
(1861-1930), oggi riedita dalle Ed. Mediterranee, si presenta
arricchita con studi di neo-ermetisti continuatori del magistero del
maestro ; l’antica sapienza ermetica ha preceduto alcune delle
conclusioni cui sta difatti arrivando la scienza moderna. Un ritornare
alla “semplicità delle idee semplici” è appunto quella che venne
definita come “scienza occulta”, rimasta tale proprio per la difficoltà
incontrata da molti studiosi nel cercare di cogliere quegli elementi
sottili e profondi della natura, optima medicatrix, spesso violata.
Un’angelizzazione umana, questo il fine cui mira l’ermetista
kremmerziano, basata sulla reale efficacia delle forze invisibili emesse
dal proprio corpo, è ritenuta possibile ove si consegua però una
reintegrazione del sé nella superiore dinamica spirituale dell’io.
Nella scienza profana infatti, vien fatto notare, “l’oggetto è
esteriore e separato”, mentre in quella ermetica si fa interiore fino a
pervenire ad un’identità fra sperimentare ed agire. Si giunge così ad
una conoscenza intesa come “pratica”, libera però dalle “goffaggini
dell’empirismo magico” ; una scienza quindi che “integra e
completa quella ufficiale” senza averne la pretesa di sostituirla. Il
libro rappresenta perciò, soprattutto negli intenti dell’autore, la
volontà di mettere al servizio degli altri e non di servirsene per
prevalere in modo prevaricante, quei principi e vie antichissime che forse
proprio in Egitto ebbero luce. E per risalire alle originarie elaborazioni
dell’Ermetismo, ci è d’aiuto un altro testo dell’Ed. Atanòr:
i Volti di Ermete, opera di Antoine Faivre (docente di storia delle
correnti esoteriche moderne e contemporanee a Parigi), è difatti uno
studio dedicato alle numerose metamorfosi che dal Dio egizio Thot, e
greco-romano Hermes-Mercurio, si verificarono fino al Medioevo e al
ritorno del “Trismegisto” appunto, nel Rinascimento. Il testo,
corredato da un’ottima sequenza di tavole alchemiche d’epoca
rinascimentale e da un’esaustiva bibliografia, pone in luce il ruolo
centrale che questa figura divina possiede tuttora nell’esoterismo
occidentale, quale detentore sapienziale dei segreti e della saggezza,
nonché mediatore tra gli Dèi e l’uomo, messaggero alato di quella che
è stata definita una vera e propria “gnosi ermetica”. Due letture
fondamentali per comprendere il rilievo assunto ed il profilo
storiografico elaborato sulla singolare figura divina nella stessa Storia
delle Religioni
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anno X numero 11 - ottobre 2001 |