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Sommario anno XI numero 4 - aprile 2002

 CURIOSITÀ DI IERI E DI OGGI - pag. 15

La forza delle pietre preziose

Mostra in corso a Roma su Diamanti: arte, storia, scienza

(Luca Ceccarelli) - La mostra, presso le Scuderie del Quirinale (aperta fino al 30 giugno), ha un interesse che va ben oltre la semplice passione per la gioielleria. Si tratta infatti non solo di un’occasione per ammirare alcune tra le pietre più belle del mondo (alcune delle quali lavorate diversi secoli orsono) ma anche per riflettere sul profondo significato simbolico del diamante.
Tanto la civiltà indiana che gli antichi romani attribuivano al diamante una valenza  decisamente magica, cosa che nei pannelli della mostra non è forse messa in evidenza quanto si dovrebbe, perché se è vero, come vediamo nel percorso espositivo, che gli indù inserivano pietre preziose nelle statue delle loro divinità, certamente non lo facevano per capriccio. Gli antichi greci e romani ritenevano infatti che i diamanti fossero lacrime divine cadute in terra e consolidatesi. Cosa che, se rapportata a quanto assicura la moderna scienza naturale, secondo cui una stella ormai morta, più antica del sole, in un ultimo momento di fulgore e di incandescenza avrebbe disseminato una brinata di diamanti nello spazio, presenti in molti meteoriti, non sembra poi così peregrina: anche l’antica mitologia parla infatti di un lungo passaggio dal Caos primordiale all’ordine cosmico, in cui vi furono contese omicide tra le divinità primève, senza risparmio di lacrime. Il primo a scrivere estesamente delle lapides e delle gemmae, delle loro capacità di neutralizzare i veleni e delle loro virtù curative contro le turbe della mente fu Plinio il Vecchio, che nel primo secolo d. C. dedicò ai diamanti e alle loro potenzialità i libri XXXI e XXXII della sua Naturalis Historia. E nella mostra troviamo esposto un esemplare di quest’opera, con magnifiche miniature, nella traduzione del grande umanista del Quattrocento Cristoforo Landino. La dottrina di Plinio sulle pietre preziose venne trasfusa nei lapidari, e ne troviamo traccia nel Trésor, una specie di enciclopedia medievale dell’erudito Brunetto Latini, maestro di Dante, di cui troviamo un esemplare miniato proveniente dalla Biblioteca Medicea Laurenziana, e più ancora nel De Rerum Naturis di Rabano Mauro, che dedica un intero capitolo del suo trattato alle proprietà curative delle gemme e delle pietre, cominciando dal diamante. Ma trattati sulle gemme sono stati composti anche da eruditi orientali, e ne è un esempio il Fior di pensieri sulle pietre preziose dell’arabo Ahmed Teifascite, vissuto nel XV secolo, di cui sono esposti nella mostra due esemplari: uno scritto in arabo, del 1482, conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana, un altro (sempre della Biblioteca Laurenziana) del 1818, tradotto in italiano. In quest’opera Teifascite, oltre a spiegare l’origine e le caratteristiche delle varie pietre e le relative proprietà curative, afferma che i diamanti sarebbero tutti conservati in una valle dell’India accessibile solo alle aquile. Che in quell’epoca le pietre preziose venissero tutte dall’Asia Sudorientale è vero, ma è anche vero che l’associazione con l’aquila, il re degli uccelli, è più che naturale: a quell’epoca infatti, e per lungo tempo ancora, come ci viene mostrato da alcune miniature e dipinti del Botticelli e di Tiziano, il diamante era associato alla dimensione del divino, e in particolare all’aspetto più propriamente regale di esso, e agli aristocratici dell’epoca si riconosceva ancora un valore  sacrale.
Le cose cambieranno progressivamente a partire dal Cinquecento avanzato, non in meglio, tutto sommato: la scoperta delle vene diamantifere del Brasile da un lato, e dall’altro l’affermarsi di una classe mercantile avida di lusso, toglieranno al diamante la caratteristica di prerogativa regale e di origine divina, come è esemplificato in modo lampante dal quadro di Rubens (pur sempre bello) che ritrae Isabella Brant, sua sposa, tutta ingioiellata. La volgarizzazione si accentuerà sempre di più con l’affermarsi del benessere su scala generale, e la scoperta, nell’Ottocento, delle vene diamantifere dell’Africa (che sono all’origine di molte tragedie anche recenti).
Uno slogan pubblicitario recita: “Un diamante è per sempre”. La frase, se da una parte sembra voler alludere al fatto che un diamante regalato susciterà una gratitudine imperitura, dall’altra mette in evidenza, più prosaicamente, che una pietra preziosa rappresenta un bene immobile mai destinato a perdere valore (al contrario!). E infatti lo slogan fu coniato nel XIX dalla compagnia per l’estrazione e la lavorazione dei diamanti De Beers, in un momento in cui i diamanti, sia per le trasformazioni in seno alla società, sia per il costante intensificarsi dell’estrazione delle pietre preziose in Africa,  diventavano un bene di diffusione relativamente larga, come viene spiegato da un pannello della mostra.
Oggi, se le produzioni in serie, pur belle, di case celebri come Bulgari o Cartier, non sembrano offrire niente al di là della grazia e della raffinatezza, le applicazioni nelle terapie naturali di gemme e cristalli stanno portando con sé una nuova riscoperta delle potenzialità e delle autonome virtù delle pietre preziose.


Un singolare rito matrimoniale

Gli strani connubi di San Giovanni a Porta Latina

Montaigne(Luca Ceccarelli) - Secondo una tradizione dell’agiografia risalente ad un racconto di Tertulliano, San Giovanni Evangelista, “il Discepolo che Gesù amava” che, stando al racconto evangelico, dopo la crocifissione di quest’ultimo, avrebbe preso a vivere con sé Maria, a Roma, durante una persecuzione avvenuta sotto Domiziano sarebbe stato gettato in una caldaia d’olio bollente da cui però sarebbe uscito indenne. Scampato al martirio, sarebbe approdato successivamente nell’isola di Patmo, dove, prima di morire in età molto avanzata scrisse l’Apocalisse, ed è alla vicenda di cui abbiamo detto che si riferirebbero le parole di Apocalisse I 9, in cui l’apostolo parla di “tribolazione” e spiega che si trova nell’isola “a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”.
La basilica di San Giovanni a Porta Latina, nei pressi della Via Appia Antica, fu costruita in quel punto proprio in virtù del fatto che qui sarebbe avvenuto il tentato martirio di San Giovanni. La prima costruzione risale al V secolo, durante il pontificato di Gelasio. Alla fine dell’VIII secolo venne restaurata per volontà del papa Adriano I, e di nuovo nel XII secolo, assumendo il tipico aspetto di basilica romanica che conserva ancora oggi.
Ma qui ad interessarci non sono tanto le caratteristiche architettoniche, peraltro pregevoli della basilica, in parte perdutesi durante un restauro effettuato tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, e recuperate con il restauro promosso dai padri rosminiani, che dal 1938 San Giovanni a Porta Latinaoccupano la chiesa e l’edificio adiacente, dove è stata posta la sede del «Collegio Missionario Antonio Rosmini», quanto piuttosto un singolare rito matrimoniale che, secondo l’autorevole testimonianza del filosofo francese Michel de Montagne, vi aveva luogo ancora nel Cinquecento. In una lettera del marzo 1581 Montaigne rivela infatti, con un certo ironico disappunto dovuto evidentemente al contrasto con la sua etica austera, che nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina si celebravano matrimoni in cui entrambi i coniugi erano uomini, con uno dei due in abito bianco, con tanto di velo verginale, con parole che in italiano suonano così: «Si sposavan tra maschi alla messa, con le stesse cerimonie che noi usiamo per il nostro matrimonio, facevano la comunione insieme, leggevano lo stesso nostro vangelo nuziale e poi dormivano e abitavano insieme. Poiché il matrimonio rende legittima l’unione tra maschi e femmine, a quegli astuti personaggi era parso che anche la loro unione sarebbe divenuta legittima se consacrata dalle cerimonie e dai riti della Chiesa». Artefici di questi matrimoni omosessuali erano dei portoghesi riuniti in comunità a Roma, che incorsero però nella condanna dell’autorità ecclesiastica, tanto che, sempre secondo la testimonianza di Montagne, otto o nove di loro furono mandati al rogo.
Quale che sia l’opinione che si può avere su una questione controversa quale quella delle nozze tra due persone del medesimo sesso (per la quale in Piemonte, proprio in questi giorni, il sacerdote don Franco Barbero, animatore della comunità «Viottoli» starebbe per essere scomunicato dal suo vescovo, secondo quanto riportato tra l’altro da La Stampa del 13 febbraio scorso) l’episodio raccontato da Montagne mostra come si tratti di un problema antico, e di una pratica forse non così isolata. Vale la pena sottolineare, al riguardo, che da quanto si capisce si trattava di matrimoni celebrati a tutti gli effetti, non di semplici drammatizzazioni. Una pratica perseguita severamente in anni (quelli dell’ultimo scorcio del Cinquecento, quando scrive Montagne) in cui la riforma cattolica uscita dal Concilio Tridentino, se da una parte restituiva al clero una nuova integrità morale, dall’altra rappresentava un giro di vite per la tolleranza nel costume sociale, e conduceva l’autorità ecclesiastica ad una visione sempre più restrittiva del matrimonio. Vale la pena ricordare tra l’altro la bolla Cum frequenter, emanata da Sisto V nel giugno del 1587, con cui si faceva divieto di sposarsi agli eunuchi e ai castrati (spadones), perché impossibilitati alla procreazione.


Laurea
Il 22 marzo, Giacomo Manzo si è laureato in Giurisprudenza con 110 e lode discutendo la tesi: “Uso delle cellule staminali e statuto dell’embrione umano”. Relatore, il prof. Francesco D’Agostino.
Giungano a Giacomo le congratulazioni della Redazione e di quanti lo amano.


Sommario anno XI numero 4 - aprile 2002