L’afasia di Charlot
(Renato Calvanese) - Nel 1926 la rivoluzione del sonoro
scosse il mondo del cinema. A Hollywood gli studi furono immediatamente
costretti a investire somme ingenti nelle apparecchiature per il sonoro e
anche i divi vacillarono se, come accade sovente, la voce e la dizione non
corrispondono all’aspetto fisico. Per Chaplin che ha elevato la
pantomima a linguaggio universale capace di affascinare il mondo intero,
il problema si pose in termini decisivi.
Egli sin dall’inizio si dichiarò
nemico del film parlato. Nessuna obiezione muoveva ai suoni e ai rumori;
anzi li volle immediatamente usare (Luci della città, 1931) e più
tardi non si preoccupò più del fatto che gli altri personaggi
parlassero. L’essenziale era che lui non parlasse. Sino a Tempi
moderni (1936) il mutismo di Chaplin fu un enigma. Solo allora egli
venne meno al suo impegno, ruppe il silenzio e cantò, e solo allora si
comprese perché egli non aveva mai voluto parlare. Come doveva parlare
Charlot? Come deve parlare una caricatura? Chaplin doveva tacere perché
era chiuso nella sua maschera comica.
"Dopo le Luci della città
di tanto in tanto riflettevo sulla possibilità di realizzare un film
sonoro, ma la prospettiva mi faceva star male, perché mi rendevo conto
che avrei dovuto rinunciare completamente al personaggio del vagabondo.
Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La
cosa era inconcepibile, perché la prima parola che avesse pronunciato lo
avrebbe trasformato in un’altra persona". (Ch. Chaplin) Il
meccanismo tramite il quale Charlot si compone è quello, usuale all’epoca,
del gag che Chaplin però umanizza, annodandolo per la prima volta
con i fili di un discorso psicologico-emotivo. Charlot non è un
personaggio, ma una maschera, un codice iconico che potrebbe appartenere
al mito, allo schema della tragedia in cui però il sociale prende il
posto del divino. "È paradossale –dice Chaplin- che nell’elaborazione
di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il
ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in
faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le
forze della natura (della società)*, se non vogliamo impazzire[…]
Attraverso la comicità vediamo l’irrazionale in ciò che sembra
razionale, il folle in ciò che sembra sensato, l’insignificante in ciò
che sembra pieno d’importanza. Essa ci aiuta a sopravvivere preservando
il nostro equilibrio mentale.[...] L’umorismo attiva il nostro senso
delle proporzioni e ci insegna che in un eccesso di serietà si annida
sempre l’assurdo". È proprio la comicità di Charlot che lo
condanna al suo destino di vagabondo. Egli non può abitare il mondo
perché non riesce a capire e ad accettare le leggi che ne producono il
senso (vd la polizia che lo rincorre continuamente), mondo al quale tenta
continuamente, proprio attraverso la meccanica del comico, di imporre il
suo contro-senso che si rivela, agli occhi del mondo, ovvero a noi
spettatori, semplice non senso (vd l’uso che fa degli oggetti). Egli
calpesta i piccoli tabù della vita sociale, infrange quelli della
proprietà (rubando), e della religione (travestendosi da pastore e
officiando), il che fa di lui un uomo fuori dalle regole, fuori dalla
legge La sua innocente fanciullezza lo porta a una bontà e a una
cattiveria egualmente abnormi. Eppure Charlot desidera integrarsi, lo
crede possibile. Il suo abbigliamento e i suoi gesti-tic (sollevare la
bombetta, pulirsi, inchinarsi, roteare la canna) hanno la forma dei
condizionamenti che nascono dalla volontà di imitazione di un modello.
Chaplin descrive dunque un personaggio lacerato fra l’individuale e il
sociale; una lacerazione che non considera risolvibile. Egli si serve per
mostrare questo di racconti melodrammatici da romanzo popolare, utilizza
cioè quella struttura narrativa ottocentesca di stampo vittoriano, fatta
di buoni sentimenti e di filantropia, elaborata dalla classe dominante ma
rovesciandone completamente il senso tramite l’uso dell’ironia (vd la
funzione delle didascalie) e risolvendo il suo discorso in critica dei
modelli culturali e dunque del sociale che li produce.
Charlot è un personaggio che non si
accorge della Storia. L’operaio di Tempi moderni non è certo un
modello di sindacalizzazione, né un uomo cosciente dei propri diritti di
lavoratore. Subisce il proprio lavoro con serena rassegnazione e si
allontana dal dolore della condizione operaia rifugiandosi nel
sentimentalismo, senza neanche accorgersi dei movimenti della lotta di
classe. Un personaggio del genere quando deciderà di partecipare al farsi
della Storia, quando cioè finalmente parlerà, inevitabilmente morrà,
sapendo egli opporre alla sconfitta della ragione (Hynkel-Hitler), solo
quel fiacco sentimentalismo. Così dopo Il grande dittatore
(1940), la maschera, già deformata, di Charlot non apparirà più. La
debolezza delle icone chapliniane in effetti, risiede proprio in questo:
nel credere realistica un’astratta aspirazione umanitarista. |