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Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002

 CINEMA - pag. 28
L’afasia di Charlot
(Renato Calvanese) - Nel 1926 la rivoluzione del sonoro scosse il mondo del cinema. A Hollywood gli studi furono immediatamente costretti a investire somme ingenti nelle apparecchiature per il sonoro e anche i divi vacillarono se, come accade sovente, la voce e la dizione non corrispondono all’aspetto fisico. Per Chaplin che ha elevato la pantomima a linguaggio universale capace di affascinare il mondo intero, il problema si pose in termini decisivi.

Egli sin dall’inizio si dichiarò nemico del film parlato. Nessuna obiezione muoveva ai suoni e ai rumori; anzi li volle immediatamente usare (Luci della città, 1931) e più tardi non si preoccupò più del fatto che gli altri personaggi parlassero. L’essenziale era che lui non parlasse. Sino a Tempi moderni (1936) il mutismo di Chaplin fu un enigma. Solo allora egli venne meno al suo impegno, ruppe il silenzio e cantò, e solo allora si comprese perché egli non aveva mai voluto parlare. Come doveva parlare Charlot? Come deve parlare una caricatura? Chaplin doveva tacere perché era chiuso nella sua maschera comica.
"Dopo le Luci della città di tanto in tanto riflettevo sulla possibilità di realizzare un film sonoro, ma la prospettiva mi faceva star male, perché mi rendevo conto che avrei dovuto rinunciare completamente al personaggio del vagabondo. Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La cosa era inconcepibile, perché la prima parola che avesse pronunciato lo avrebbe trasformato in un’altra persona". (Ch. Chaplin) Il meccanismo tramite il quale Charlot si compone è quello, usuale all’epoca, del gag che Chaplin però umanizza, annodandolo per la prima volta con i fili di un discorso psicologico-emotivo. Charlot non è un personaggio, ma una maschera, un codice iconico che potrebbe appartenere al mito, allo schema della tragedia in cui però il sociale prende il posto del divino. "È paradossale –dice Chaplin- che nell’elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura (della società)*, se non vogliamo impazzire[…] Attraverso la comicità vediamo l’irrazionale in ciò che sembra razionale, il folle in ciò che sembra sensato, l’insignificante in ciò che sembra pieno d’importanza. Essa ci aiuta a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale.[...] L’umorismo attiva il nostro senso delle proporzioni e ci insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l’assurdo". È proprio la comicità di Charlot che lo condanna al suo destino di vagabondo. Egli non può abitare il mondo perché non riesce a capire e ad accettare le leggi che ne producono il senso (vd la polizia che lo rincorre continuamente), mondo al quale tenta continuamente, proprio attraverso la meccanica del comico, di imporre il suo contro-senso che si rivela, agli occhi del mondo, ovvero a noi spettatori, semplice non senso (vd l’uso che fa degli oggetti). Egli calpesta i piccoli tabù della vita sociale, infrange quelli della proprietà (rubando), e della religione (travestendosi da pastore e officiando), il che fa di lui un uomo fuori dalle regole, fuori dalla legge La sua innocente fanciullezza lo porta a una bontà e a una cattiveria egualmente abnormi. Eppure Charlot desidera integrarsi, lo crede possibile. Il suo abbigliamento e i suoi gesti-tic (sollevare la bombetta, pulirsi, inchinarsi, roteare la canna) hanno la forma dei condizionamenti che nascono dalla volontà di imitazione di un modello. Chaplin descrive dunque un personaggio lacerato fra l’individuale e il sociale; una lacerazione che non considera risolvibile. Egli si serve per mostrare questo di racconti melodrammatici da romanzo popolare, utilizza cioè quella struttura narrativa ottocentesca di stampo vittoriano, fatta di buoni sentimenti e di filantropia, elaborata dalla classe dominante ma rovesciandone completamente il senso tramite l’uso dell’ironia (vd la funzione delle didascalie) e risolvendo il suo discorso in critica dei modelli culturali e dunque del sociale che li produce.
Charlot è un personaggio che non si accorge della Storia. L’operaio di Tempi moderni non è certo un modello di sindacalizzazione, né un uomo cosciente dei propri diritti di lavoratore. Subisce il proprio lavoro con serena rassegnazione e si allontana dal dolore della condizione operaia rifugiandosi nel sentimentalismo, senza neanche accorgersi dei movimenti della lotta di classe. Un personaggio del genere quando deciderà di partecipare al farsi della Storia, quando cioè finalmente parlerà, inevitabilmente morrà, sapendo egli opporre alla sconfitta della ragione (Hynkel-Hitler), solo quel fiacco sentimentalismo. Così dopo Il grande dittatore (1940), la maschera, già deformata, di Charlot non apparirà più. La debolezza delle icone chapliniane in effetti, risiede proprio in questo: nel credere realistica un’astratta aspirazione umanitarista.
 CINEMA - pag. 28

Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002