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Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002

 DIRITTI UMANI - pag. 30
La Corte Penale Internazionale
Il faticoso cammino per la sua istituzione, le garanzie che potrà offrire, i limiti della sua azione, gli ostacoli alla sua piena entrata in vigore

La mappa degli Stati che hanno ratificato(Gianluca Polverari) - Il sistema di tutela ed attuazione dei diritti umani fondamentali si basa su di una complessa rete di strumenti normativi a carattere internazionale, alcuni operanti nel solco istituzionale delle Nazioni Unite, altri aventi carattere regionale. In dottrina è stato affermato il carattere cogente, ossia inderogabile dei diritti umani universalmente affermati, ma nel diritto internazionale ogni elemento considerato giuridicamente vincolante trova un limite invalicabile nella sovranità dei singoli Stati, ovvero nella necessità della piena approvazione da parte della legislazioni nazionali.
L’idea di istituire una corte penale internazionale permanente nasce proprio dalla volontà di completare il sistema internazionale di difesa e di garanzia dei diritti umani universalmente riconosciuti attraverso uno strumento di giustizia complementare alle magistrature nazionali, in grado di esercitare un proprio potere giurisdizionale sulle sole persone fisiche per crimini gravi di portata internazionale come il genocidio, i crimini contro l’umanità e di guerra, fattispecie penali di cui in questo modo si ribadisce la valenza internazionale. Uno strumento, dunque che, pur non sottraendosi alla debolezza oggettiva del diritto internazionale giacché per operare richiede l’approvazione esplicita dei singoli ordinamenti statuali, tuttavia apre una breccia fondamentale nelle rigide impalcature giuridiche nazionali, innovandone in profondità le dinamiche relazionali, confermando la supremazia dei principi universalistici alla base delle Nazioni Unite e dando corso al principio della responsabilità planetaria e della perseguibilità dei crimini più orrendi.
L’idea di istituire una corte penale internazionale deve essere fatta risalire al secolo scorso, ma fu solo la seconda guerra mondiale, con il suo carico di orrore e di morte, a rendere possibile l’istituzione di due tribunali internazionali speciali, a Norimberga (1945) ed a Tokyo (1946), che con la loro attività, al di là delle perplessità giuridiche suscitate, consentirono una più adeguata formulazione delle fattispecie dei crimina iuris gentium, dei crimini appunto di guerra, contro l’umanità e del genocidio, e posero in concreto il principio della perseguibilità, al di là della rete di protezione rappresentata da qualsivoglia giurisdizione nazionale, di questi aberranti reati.
La formulazione, nel secondo dopoguerra, di una normativa a carattere internazionale di tutela dei diritti umani fondamentali, che ebbe nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 il suo primo documento non vincolante, indusse le Nazioni Unite a rilanciare di nuovo il progetto di un tribunale internazionale. Ma la contrapposizione planetaria tra Stati Uniti ed Unione Sovietica ed il clima di "guerra fredda" imposto alle relazioni internazionali per più di quarant’anni, impedirono qualsiasi passo in questa direzione, fino agli inizi degli anni Novanta, quando la fine dell’equilibrio bipolare e la ripresa dei conflitti interetnici e dei genocidi di massa, ne hanno drammaticamente rilanciato l’urgenza.
Fu poi l’istituzione, da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, del Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia (risoluzione 808 del 22.2.1993) e del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda (risoluzione 955 dell’8.11.1994), che ha risposto in primo luogo all’ansia di giustizia e di verità dell’opinione pubblica internazionale di fronte al perpetrarsi di nuove, orrende carneficine, a rilanciarne l’idea. I dubbi e le polemiche di natura giuridica espressi in merito alla istituzione dei due tribunali ad hoc, non hanno infatti impedito proprio a queste esperienze di esercitare un forte impulso per la creazione di una Corte penale internazionale permanente, pattiziamente fondata e dotata di competenza generale in materia di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità; la consegna al Tribunale dell’Aja di un ex capo di Stato come Slobodan Milosevic, maturata indubbiamente in circostanze eccezionali ed ancora oggi ritenuta "illegale ed incostituzionale" dal presidente jugoslavo Vojislav Kostunica, nonché le sua recenti imputazioni per crimini contro l’umanità, di guerra e per genocidio in relazione ai conflitti con la Croazia, in Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, rappresentano la riprova che questi strumenti giuridici sono ben lungi dall’essere un mero, astratto esercizio di legislazione penale internazionale, ma un precedente fondamentale verso la faticosa costruzione di un sistema di regole universalmente accettato e garantito, in grado di porsi come strumento di deterrenza e di sanzione dei peggiori atti contro l’umanità e capace di combattere l’impunità anche ai più alti livelli.
Il cammino per la istituzione della Corte Penale Internazionale, avviato nel 1994, è proseguito a Roma il 17 luglio 1998 con l’approvazione dello Statuto della Corte Penale Internazionale (ICC) da parte di un’apposita e laboriosissima conferenza diplomatica delle Nazioni Unite, cui hanno partecipato delegazioni in rappresentanza di 160 paesi, per poi concludersi con la definitiva entrata in vigore del trattato istitutivo lo scorso 11 aprile al momento del raggiungimento della soglia prestabilita delle sessanta ratifiche.
Lo Statuto, che si compone di 128 articoli, è lo strumento normativo primario volto a disciplinare le finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte, ed individua i principi base per l’esercizio dell’attività giurisdizionale, l’indipendenza dei giudici, la cooperazione della Corte con gli Stati, i presupposti normativi della nuova funzione giudiziaria internazionale, e l’automaticità della giurisdizione stessa.
La Corte, una volta entrato in vigore ufficialmente il Trattato istitutivo (il prossimo 1 luglio), avrà sede a l’Aja, in Olanda, e sarà formata da 18 giudici, eletti per nove anni e scelti fra i candidati di diversi Paesi secondo un criterio di equa rappresentanza dei vari sistemi giuridici, dei sessi e delle differenti aree geografiche. Avrà competenza inizialmente sui cosiddetti core-crimes: il genocidio, che contempla omicidi, causazione di gravi danni fisici o mentali, imposizioni di limitazioni delle nascite, trasferimento forzato di bambini, atti commessi con l’intento di distruggere anche solo parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; i crimini contro l’umanità, ovvero azioni criminali estese e sistematiche a danno di intere popolazioni civili, quali assassinii, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazioni o trasferimenti coatti, tortura, sparizioni forzate, segregazioni razziali, stupri, schiavitù sessuali, costrizione alla prostituzione o alla sterilizzazione, gravidanze forzate; crimini di guerra, già individuati dalla Convezione di Ginevra del 1949 e dalle regole ed usi dei conflitti armati ed estesi anche ai conflitti interni ai singoli Paesi, quali gli attacchi volontari contro civili, personale umanitario, ospedali, edifici storici, religiosi, artistici, l’arruolamento di minori sotto i 15 anni, la presa di ostaggi, le mutilazioni o gli esperimenti clinici sui prigionieri, l’uso di veleni e di sostanze asfissianti. Fondamentale importanza riveste il principio della sua giurisdizione universale del Tribunale, accettato con qualche riserva.
I limiti del nuovo istituto - che hanno indotto alcune organizzazioni non governative di difesa dei diritti umani a manifestare una certa insoddisfazione per il profilo dello Statuto così come approvato dalla Conferenza di Roma - devono, ancora una volta, essere rintracciati nella complementarità della sua azione penale rispetto a quella delle giurisdizioni dei singoli Stati, nella non perseguibilità per i cittadini di uno Stato che non abbia aderito al trattato istitutivo e per quei casi in cui non vi sia l’espresso consenso da parte dello Stato sul cui territorio sia stato commesso il crimine, e dalla contestata clausola opt-out che consente ad uno Stato, al momento della ratifica, di escludere per un periodo di sette anni la giurisdizione della Corte su reati commessi sul suo territorio o da un suo cittadino.
Ma al di là dei reali limiti di operatività che la Corte incontrerà nel suo cammino, frutto del faticoso compromesso raggiunto nella conferenza di Roma ed attribuibili alla ritrosia degli Stati nazionali ad accettare una ulteriore limitazione della propria sovranità, la portata storica della sua fondazione è innegabile; con essa viene reso "giustiziabile" il diritto internazionale dei diritti umani ed affermata la preminenza del diritto sulla pura logica di potenza anche nel complesso ambito delle relazioni internazionali. La speranza è che la sua istituzione possa poi costituire un deterrente alla commissione di nuovi, ulteriori crimini contro l’umanità, scongiurando il rischio che novelli Pinochet, Pol Pot, Bokassa, Karadzic o Mobutu – solo per citarne alcuni - restino impuniti o non vengano almeno chiamati a rispondere delle loro azioni al cospetto di giudici indipendenti e nel corso di processi equi ed imparziali.
Lo Statuto ha stabilito la soglia di 60 ratifiche per la sua definitiva entrata in vigore, cosa che è avvenuta lo scorso 11 aprile con il deposito delle firme di Irlanda, Grecia, Romania e Bosnia-Erzegovina. Al momento 139 Paesi hanno già sottoscritto il trattato istitutivo del nuovo organo di giustizia internazionale, e tra essi, dopo una iniziale diffidenza, anche gli Stati Uniti, la Russia ed Israele. L’auspicio è che l’adesione a questo straordinario strumento di diritto internazionale possa essere esteso in tempi brevi anche quegli Stati che finora non lo hanno siglato, tra cui l’Afghanistan, la Cina, il Pakistan, l’India, anche alla luce della disastrosa crisi internazionale che il pianeta sta attualmente vivendo, contribuendo in questo modo a consolidare la cultura del diritto e del rispetto della dignità umana nei rapporti fra le Nazioni.
Il nodo dolente è rappresentato, ancora una volta, dalla scarsa volontà politica dei Paesi più influenti di rendere pienamente operativo il Tribunale penale internazionale e di riconoscerne l’autorità; l’attuale amministrazione statunitense ha, per esempio, proprio nei mesi scorsi reso nota la sua intenzione di non dare corso alla ratifica del trattato istitutivo, sottoscritto dal precedente esecutivo nel dicembre del 2000, mentre la Repubblica Popolare Cinese, da parte sua, non ha ancora compiuto passi significativi per la sua sottoscrizione. Eppure i segnali politici in questa direzione non sono del tutto univoci e non devono necessariamente indurre al pessimismo: dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre, attente riflessioni sulla necessità di dotare la comunità internazionale di strumenti più idonei a fronteggiare le nuove sfide del pianeta hanno individuato proprio in una corte indipendente e sovranazionale un tassello indispensabile per garantire maggiori condizioni di pace, equità e giustizia nelle relazioni internazionali; da allora ben 28 Paesi hanno portato a termine il processo di ratifica dello Statuto, e tra essi il Regno Unito che pure aveva manifestato dubbi e resistenze.
Il percorso per la piena e riconosciuta operatività della appena istituita Corte Penale Internazionale Permanente, è dunque ancora lontano dall’essersi concluso, ma il portato giuridico e la sfida culturale e politica che questo strumento rappresenta sono un patrimonio ed una conquista ormai davvero irrinunciabili, per quell’umanità sofferente ancora oggi troppo spesso vittima indifesa delle violenze e delle sopraffazioni, ed in nome di quell’ideale di equità e di giustizia che anima le coscienze di chi crede nella vita e nella dignità di ogni essere umano.

 DIRITTI UMANI - pag. 30

Sommario anno XI numero 6 - giugno 2002