La Corte Penale
Internazionale
Il faticoso cammino per la sua
istituzione, le garanzie che potrà offrire, i limiti della sua azione,
gli ostacoli alla sua piena entrata in vigore
(Gianluca
Polverari) - Il sistema di tutela ed attuazione dei diritti umani
fondamentali si basa su di una complessa rete di strumenti normativi a
carattere internazionale, alcuni operanti nel solco istituzionale delle
Nazioni Unite, altri aventi carattere regionale. In dottrina è stato
affermato il carattere cogente, ossia inderogabile dei diritti umani
universalmente affermati, ma nel diritto internazionale ogni elemento
considerato giuridicamente vincolante trova un limite invalicabile nella
sovranità dei singoli Stati, ovvero nella necessità della piena
approvazione da parte della legislazioni nazionali.
L’idea di istituire una corte penale
internazionale permanente nasce proprio dalla volontà di completare il
sistema internazionale di difesa e di garanzia dei diritti umani
universalmente riconosciuti attraverso uno strumento di giustizia
complementare alle magistrature nazionali, in grado di esercitare un
proprio potere giurisdizionale sulle sole persone fisiche per crimini
gravi di portata internazionale come il genocidio, i crimini contro l’umanità
e di guerra, fattispecie penali di cui in questo modo si ribadisce la
valenza internazionale. Uno strumento, dunque che, pur non sottraendosi
alla debolezza oggettiva del diritto internazionale giacché per operare
richiede l’approvazione esplicita dei singoli ordinamenti statuali,
tuttavia apre una breccia fondamentale nelle rigide impalcature giuridiche
nazionali, innovandone in profondità le dinamiche relazionali,
confermando la supremazia dei principi universalistici alla base delle
Nazioni Unite e dando corso al principio della responsabilità planetaria
e della perseguibilità dei crimini più orrendi.
L’idea di istituire una corte penale
internazionale deve essere fatta risalire al secolo scorso, ma fu solo la
seconda guerra mondiale, con il suo carico di orrore e di morte, a rendere
possibile l’istituzione di due tribunali internazionali speciali, a
Norimberga (1945) ed a Tokyo (1946), che con la loro attività, al di là
delle perplessità giuridiche suscitate, consentirono una più adeguata
formulazione delle fattispecie dei crimina iuris gentium, dei
crimini appunto di guerra, contro l’umanità e del genocidio, e posero
in concreto il principio della perseguibilità, al di là della rete di
protezione rappresentata da qualsivoglia giurisdizione nazionale, di
questi aberranti reati.
La formulazione, nel secondo
dopoguerra, di una normativa a carattere internazionale di tutela dei
diritti umani fondamentali, che ebbe nella Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo del 1948 il suo primo documento non vincolante,
indusse le Nazioni Unite a rilanciare di nuovo il progetto di un tribunale
internazionale. Ma la contrapposizione planetaria tra Stati Uniti ed
Unione Sovietica ed il clima di "guerra fredda" imposto alle
relazioni internazionali per più di quarant’anni, impedirono qualsiasi
passo in questa direzione, fino agli inizi degli anni Novanta, quando la
fine dell’equilibrio bipolare e la ripresa dei conflitti interetnici e
dei genocidi di massa, ne hanno drammaticamente rilanciato l’urgenza.
Fu poi l’istituzione, da parte del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, del Tribunale internazionale
per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia (risoluzione 808
del 22.2.1993) e del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda
(risoluzione 955 dell’8.11.1994), che ha risposto in primo luogo all’ansia
di giustizia e di verità dell’opinione pubblica internazionale di
fronte al perpetrarsi di nuove, orrende carneficine, a rilanciarne l’idea.
I dubbi e le polemiche di natura giuridica espressi in merito alla
istituzione dei due tribunali ad hoc, non hanno infatti impedito
proprio a queste esperienze di esercitare un forte impulso per la
creazione di una Corte penale internazionale permanente, pattiziamente
fondata e dotata di competenza generale in materia di genocidio, crimini
di guerra e contro l’umanità; la consegna al Tribunale dell’Aja di un
ex capo di Stato come Slobodan Milosevic, maturata indubbiamente in
circostanze eccezionali ed ancora oggi ritenuta "illegale ed
incostituzionale" dal presidente jugoslavo Vojislav Kostunica,
nonché le sua recenti imputazioni per crimini contro l’umanità, di
guerra e per genocidio in relazione ai conflitti con la Croazia, in
Bosnia-Erzegovina ed in Kosovo, rappresentano la riprova che questi
strumenti giuridici sono ben lungi dall’essere un mero, astratto
esercizio di legislazione penale internazionale, ma un precedente
fondamentale verso la faticosa costruzione di un sistema di regole
universalmente accettato e garantito, in grado di porsi come strumento di
deterrenza e di sanzione dei peggiori atti contro l’umanità e capace di
combattere l’impunità anche ai più alti livelli.
Il cammino per la istituzione della
Corte Penale Internazionale, avviato nel 1994, è proseguito a Roma il 17
luglio 1998 con l’approvazione dello Statuto della Corte Penale
Internazionale (ICC) da parte di un’apposita e laboriosissima conferenza
diplomatica delle Nazioni Unite, cui hanno partecipato delegazioni in
rappresentanza di 160 paesi, per poi concludersi con la definitiva entrata
in vigore del trattato istitutivo lo scorso 11 aprile al momento del
raggiungimento della soglia prestabilita delle sessanta ratifiche.
Lo Statuto, che si compone di 128
articoli, è lo strumento normativo primario volto a disciplinare le
finalità, la struttura ed il funzionamento della Corte, ed individua i
principi base per l’esercizio dell’attività giurisdizionale, l’indipendenza
dei giudici, la cooperazione della Corte con gli Stati, i presupposti
normativi della nuova funzione giudiziaria internazionale, e l’automaticità
della giurisdizione stessa.
La Corte, una volta entrato in vigore
ufficialmente il Trattato istitutivo (il prossimo 1 luglio), avrà sede a
l’Aja, in Olanda, e sarà formata da 18 giudici, eletti per nove anni e
scelti fra i candidati di diversi Paesi secondo un criterio di equa
rappresentanza dei vari sistemi giuridici, dei sessi e delle differenti
aree geografiche. Avrà competenza inizialmente sui cosiddetti core-crimes:
il genocidio, che contempla omicidi, causazione di gravi danni fisici o
mentali, imposizioni di limitazioni delle nascite, trasferimento forzato
di bambini, atti commessi con l’intento di distruggere anche solo
parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; i crimini
contro l’umanità, ovvero azioni criminali estese e sistematiche a danno
di intere popolazioni civili, quali assassinii, sterminio, riduzione in
schiavitù, deportazioni o trasferimenti coatti, tortura, sparizioni
forzate, segregazioni razziali, stupri, schiavitù sessuali, costrizione
alla prostituzione o alla sterilizzazione, gravidanze forzate; crimini di
guerra, già individuati dalla Convezione di Ginevra del 1949 e dalle
regole ed usi dei conflitti armati ed estesi anche ai conflitti interni ai
singoli Paesi, quali gli attacchi volontari contro civili, personale
umanitario, ospedali, edifici storici, religiosi, artistici, l’arruolamento
di minori sotto i 15 anni, la presa di ostaggi, le mutilazioni o gli
esperimenti clinici sui prigionieri, l’uso di veleni e di sostanze
asfissianti. Fondamentale importanza riveste il principio della sua
giurisdizione universale del Tribunale, accettato con qualche riserva.
I limiti del nuovo istituto - che hanno
indotto alcune organizzazioni non governative di difesa dei diritti umani
a manifestare una certa insoddisfazione per il profilo dello Statuto così
come approvato dalla Conferenza di Roma - devono, ancora una volta, essere
rintracciati nella complementarità della sua azione penale rispetto a
quella delle giurisdizioni dei singoli Stati, nella non perseguibilità
per i cittadini di uno Stato che non abbia aderito al trattato istitutivo
e per quei casi in cui non vi sia l’espresso consenso da parte dello
Stato sul cui territorio sia stato commesso il crimine, e dalla contestata
clausola opt-out che consente ad uno Stato, al momento della
ratifica, di escludere per un periodo di sette anni la giurisdizione della
Corte su reati commessi sul suo territorio o da un suo cittadino.
Ma al di là dei reali limiti di
operatività che la Corte incontrerà nel suo cammino, frutto del faticoso
compromesso raggiunto nella conferenza di Roma ed attribuibili alla
ritrosia degli Stati nazionali ad accettare una ulteriore limitazione
della propria sovranità, la portata storica della sua fondazione è
innegabile; con essa viene reso "giustiziabile" il diritto
internazionale dei diritti umani ed affermata la preminenza del diritto
sulla pura logica di potenza anche nel complesso ambito delle relazioni
internazionali. La speranza è che la sua istituzione possa poi costituire
un deterrente alla commissione di nuovi, ulteriori crimini contro l’umanità,
scongiurando il rischio che novelli Pinochet, Pol Pot, Bokassa, Karadzic o
Mobutu – solo per citarne alcuni - restino impuniti o non vengano almeno
chiamati a rispondere delle loro azioni al cospetto di giudici
indipendenti e nel corso di processi equi ed imparziali.
Lo Statuto ha stabilito la soglia di 60
ratifiche per la sua definitiva entrata in vigore, cosa che è avvenuta lo
scorso 11 aprile con il deposito delle firme di Irlanda, Grecia, Romania e
Bosnia-Erzegovina. Al momento 139 Paesi hanno già sottoscritto il
trattato istitutivo del nuovo organo di giustizia internazionale, e tra
essi, dopo una iniziale diffidenza, anche gli Stati Uniti, la Russia ed
Israele. L’auspicio è che l’adesione a questo straordinario strumento
di diritto internazionale possa essere esteso in tempi brevi anche quegli
Stati che finora non lo hanno siglato, tra cui l’Afghanistan, la Cina,
il Pakistan, l’India, anche alla luce della disastrosa crisi
internazionale che il pianeta sta attualmente vivendo, contribuendo in
questo modo a consolidare la cultura del diritto e del rispetto della
dignità umana nei rapporti fra le Nazioni.
Il nodo dolente è rappresentato,
ancora una volta, dalla scarsa volontà politica dei Paesi più influenti
di rendere pienamente operativo il Tribunale penale internazionale e di
riconoscerne l’autorità; l’attuale amministrazione statunitense ha,
per esempio, proprio nei mesi scorsi reso nota la sua intenzione di non
dare corso alla ratifica del trattato istitutivo, sottoscritto dal
precedente esecutivo nel dicembre del 2000, mentre la Repubblica Popolare
Cinese, da parte sua, non ha ancora compiuto passi significativi per la
sua sottoscrizione. Eppure i segnali politici in questa direzione non sono
del tutto univoci e non devono necessariamente indurre al pessimismo: dopo
gli attentati terroristici dell’11 settembre, attente riflessioni sulla
necessità di dotare la comunità internazionale di strumenti più idonei
a fronteggiare le nuove sfide del pianeta hanno individuato proprio in una
corte indipendente e sovranazionale un tassello indispensabile per
garantire maggiori condizioni di pace, equità e giustizia nelle relazioni
internazionali; da allora ben 28 Paesi hanno portato a termine il processo
di ratifica dello Statuto, e tra essi il Regno Unito che pure aveva
manifestato dubbi e resistenze.
Il percorso per la piena e riconosciuta
operatività della appena istituita Corte Penale Internazionale
Permanente, è dunque ancora lontano dall’essersi concluso, ma il
portato giuridico e la sfida culturale e politica che questo strumento
rappresenta sono un patrimonio ed una conquista ormai davvero
irrinunciabili, per quell’umanità sofferente ancora oggi troppo spesso
vittima indifesa delle violenze e delle sopraffazioni, ed in nome di quell’ideale
di equità e di giustizia che anima le coscienze di chi crede nella vita e
nella dignità di ogni essere umano. |