Il favoloso mondo di Amelie
(Nicola
D’Ugo) - Delicato e comico a un tempo, Il favoloso mondo di
Amelie del regista francese Jean-Pierre Jeunet racconta la storia di
una ventiduenne parigina nata negli anni settanta, le reazioni all’ambiente
in cui vive e le sue difficoltà. Il film si apre con un’esilarante
introduzione dell’origine familiare, della nascita e dell’infanzia di
Amélie (Audrey Tautou), da cui apprendiamo i drammi personali della
bambina: il padre (Rufus) che ha contatti fisici con la figlia solo una
volta al mese durante le preoccupate visite mediche, la madre che viene
uccisa sotto gli occhi della bambina, il pesciolino che salta fuori dell’acqua
in cucina ed altri eventi di domestica drammaticità. E già qui il dramma
si presenta come risposta soggettiva, eco interiore dell’oggetto
esterno, per cui l’elencazione descrittiva ritmicamente serrata di
eventi indifferenziati per drammaticità pone sullo stesso piano quello
che un contesto d’ordine porrebbe, nel genere drammatico, secondo una
gerarchia di valori. Su questo meccanismo di collocazione degli eventi
esterni su uno stesso piano di valore, cui corrisponde una accentuata
risposta emotiva dei personaggi, si fonda un aspetto dell’ironia del
film. Gli eventi che capitano alla famiglia sarebbero tragici, se non
fosse che sono tutti rappresentati con scanzonata comicità, in cui la
successione ritmica toglie peso all’immedesimazione necessaria ad
approfondire ogni dramma introdotto, che lascia subito il posto al
successivo. Ne consegue che ogni evento presenta un doppio segno opposto,
per cui maggiore è la tragedia per i personaggi, più comica appare agli
spettatori.
Ed è proprio qui che la costruzione della storia ha un pregio raro:
quello di mostrare come il punto di vista opposto fra la percezione di
Amélie e quella dello spettatore abbia una sua coerenza nell’uno, nell’altro
piano e nell’incontro fra biografia (di Amélie) e spettacolo (il
nostro). Mentre per noi passano in rassegna personaggi buffi per il loro
disagio, questi trasferiscono il proprio disagio sugli altri,
attribuendogli la causa dei propri mali. Nel caso di Amélie, questa
pratica mentale che ha avuto dapprima fortuna nel ristretto circolo
familiare, e poi in tutta la Montmartre rappresentata, è ereditata quale
modo di agire, e vi svolge un ruolo fondamentale la colpa e lo spirito di
sacrificio, la prima da imputare agli altri, il secondo da sostenere da
sé. La colpa viene quindi ad essere di segno opposto rispetto al senso di
colpa, al peccato tradizionale: il colpevole è il familiare, il
conoscente o lo sconosciuto, e la colpa degli altri è generalmente
connessa all’incidente piuttosto che alla malizia. Quando non lo è,
essa appare come attribuibile al carattere deformato e ottuso di alcuni
personaggi (un vicino di casa, un fruttivendolo), a cui basterebbe dare
una sonora lezione.
Questo meccanismo della colpa partecipato da Amélie viene superato nell’arco
del film, mettendo da parte se stessa per pensare a come spezzare il filo
delle difficoltà entro cui gli altri si sono aggrovigliati senza sentore
d’uscita. Entrando di soppiatto nelle loro esistenze, la ragazza agisce
anonimamente, dapprima in modo casuale: la polverosa scatola di un
bambino, rinvenuta in un muro domestico, riporterà un cinquantenne alla
memoria dell’infanzia e al superamento dei propri problemi familiari;
una voce fatta circolare ad arte farà innamorare due ossessionati dai
loro mali immaginari; un nano da giardino, che viaggia per il mondo e
manda al sedentario papà di Amélie le foto di sé nei luoghi visitati,
gli farà percepire la bellezza e fruibilità del mondo; la lettera falsa
di un marito fedifrago, recapitata con trent’anni di ritardo, cambierà
la storia della portiera infelice; la crema per i piedi sostituita al
dentifricio darà modo di esprimersi all’oltraggiato fratello di un
prepotente fruttivendolo ecc. Tutte monellerie, se non fosse che ora vanno
a favore dei più sfortunati. Monellerie: poiché questo modo di agire era
in Amélie, fin da bambina, come forma di vendetta agli oltraggi subiti.
Nel giorno della morte di Lady D., Amélie inizia un nuovo rapporto con la
realtà, un rapporto non più in direzione di sé (la vendetta e le
monellerie), ma dedito agli altri. Il film gioca spesso su questo piano
ulteriore, mostrando una serie di eventi famosi che entrano nelle
esistenze individuali. Ma, nei molteplici ribaltamenti del film, per
Amélie il giorno famoso è importante per il rinvenimento della scatola
sconosciuta. Nel suo intreccio minuzioso, il film rimanda in continuazione
lo scioglimento definitivo delle situazioni: questo coincide, per Amélie,
con il non venire a capo del suo rapporto con la realtà, mentre le vite
degli altri cambiano grazie a lei. Del resto, il mancato definitivo
superamento del disagio degli altri è, nel microcosmo della ragazza a
Montmartre, motivo di una dedizione infinita di sé agli altri,
finché
la propria esigenza non reclama un’anteposizione di sé a loro (indicata
finalmente nella scena in cui Amélie è disinteressata alla gioia
procurata alla portinaia). Anche l’evento famoso, mediatico, collettivo,
prende valore nell’esistenza immaginativa individuale, in una
rielaborazione dell’evento e dei segni che non ha più alcun significato
collettivo, che non è più fruibile con lo stesso significato nella
circolazione comunicativa fra i ricettori della trasmissione: per Amélie
la finestra di un seminterrato è la fossa di un suggeritore teatrale, una
partita di calcio il punto debole di un nemico; per la madre, un’interpretazione
cinematografica è l’odiosa esibizione di autisti che non guardano la
strada; per il padre, un nano da giardino è un’icona da porre sulla
tomba della moglie ecc.
Il film è ricco di spostamenti dell’ordine e del rapporto fra le cose,
al punto da produrre tutta una serie di eterotopie, di accostamenti di
oggetti mentalmente riservati a insiemi contestuali diversi (un cavallo al
galoppo e una gara di ciclismo per strada, per esempio). Questo è
fondamentale per l’avvicinamento intimo di alcuni personaggi, attraverso
un linguaggio che non è fatto di temi comuni, ma di una rielaborazione
dei dati collettivi (fotografie, dipinti, film ecc.). Jean-Pierre Jeunet
precisa meglio questo punto: non è sulla pittura o sulla fotografia che
si fondano la frequentazioni del pittore e del fruttivendolo, del
riparatore di macchine fotografiche e del collezionista. L’aspetto più
segnatamente eterotopico mette in luce, attraverso la produzione,
fruizione e invadenza dell’immagine, la loro rielaborazione in un ordine
di idee, di associazioni mentali che potremmo anche chiamare con il
termine di sensibilità nell’uso corrente. Il codice di
rielaborazione del dato è interno, non sociale né oggettivo, quale
collegamento a una memoria diversamente configurata nei personaggi. Non
appare cioè necessario che la dominante memorizzata del singolo oggetto
sia anche oggettivata, mentre altri aspetti lo sono per quel quanto basta
che basta a una sufficiente condivisione dello stato del mondo.
Nel caso dell’eterotopia, non si tratta di eccezionalità dell’evento
o dell’accostamento degli oggetti. In un film inquietante come Seven,
per esempio, l’ordine delle cose non ha nulla di eteropico, al punto che
il simbolismo che accompagna la violenza e l’orrore trova come pronta
risposta degli investigatori la ricerca del codice d’accesso alla
sequenza dei delitti: l’ordine del mondo è rispettato, lo spettatore ha
già preventivamente la possibilità di attribuire a un oggetto, a un
segno, a una situazione un valore di negatività, perfidia, pericolo,
poiché la differenziazione fra i buoni e il cattivo (i poliziotti e l’assassino)
rientra in un ordine di idee già culturalmente formato nello spettatore,
mentre, sul piano narrativo, il codice d’accesso del serial killer è
dato come esistente nello stato del mondo della fabula e
rispondente a una gerarchia di valori del codice che gli investigatori
cercano di individuare. Esso va solo ricostruito. Ma cos’è fuori posto
nelle foto del nano da giardino: il nano o il monumento alle sue spalle? L’immagine
così fornita, senza una gerarchia del codice, non offre un ordine in cui
interpretarla. Per farlo, occorrerebbe un sottocodice interpretativo,
conosciuto da Amélie, ma non da suo padre.
La favola racconta il primo passo verso gli altri, l’affacciarsi sul
mondo degli altri che, ammessa l’esistenza loro e delle relazioni
reciproche al di là della propria vita, permetterà alla protagonista di
guardare meglio la vita in genere e, successivamente, entrarci lei stessa.
E anche di trovare l’anima gemella, ma gemella in compensazione: lei che
agisce sulle storie altrui senza parteciparvi, e il collezionista Nino (Mathieu
Kassovitz), che registra i segni degli altri senza partecipare alle loro
storie (impronte, fotografie ecc.). Lei, continuando il proprio anonimo
atteggiamento esterno, da fuori della storia di una vita, ma abbassando
sempre più il gradiente d’anonimia, lascerà impronte di sé, icone
fotografiche, veri e propri messaggi, affinché lui venga stimolato a
conoscere chi è dietro l’immagine di lei piuttosto che a costruire
storie di persone inconsce della propria produzione segnica: affinché non
sia lo sguardo a intrecciarsi con una storia, ma, forse, la propria storia
ad intrecciarsi con quella di un altro. Gioco inequivocabilmente erotico
per i due, e gioco perverso, se non fosse che è il percorso del loro
avvicinamento, l’uscita da un isolamento ereditato dall’infanzia, che
non viene mai reso tragicamente nel film, ma viene anzi caratterizzato da
differenti registri (anzitutto comico, ma poi anche giallo, drammatico e
sentimentale) tutti stemperati in una delicata ironia. In fin dei conti,
ciò che Amélie trova in Nino non è che un testimone, nel mondo, della
sua individualità, colui con cui possa comunicare senza fraintendimento,
che la faccia sentire compresa, ossia normale nel suo modo di percepire
sé e il mondo. La seconda conseguenza, quella del piacere, viene dalla
prima.
Notevole
è l’uso dei mezzi di comunicazione strettamente legati alla storia.
Attraverso la televisione si ingigantisce la colpa della bambina Amélie
accusata da un signore di aver causato un incidente stradale abbagliando
il conducente con una macchina fotografica (lei si vendicherà
sabotandogli il televisore durante un imperdibile incontro di calcio).
Nella caratterizzazione dei personaggi scorrono le immagini di classici
del cinema, Amélie sogna ad occhi aperti di vedere il proprio funerale
alla televisione come una filantropa compianta da una folla infinita (di
quei giorni furono i funerali in mondovisione di Lady D. e di Madre Teresa
di Calcutta), l’immagine di se stessa come Zorro ricorre spesso ecc.
Televisore, macchina fotografica, videocamera (a cui si aggiunga il
servizio postale e gli aerei) non sono solo oggetti funzionali, servizi
tecnologici: entrano a pieno titolo nelle avventure immaginative dei
personaggi. Non è un caso che due personaggi essenziali nello snodo dell’intreccio
siano un pittore, per il quale vita e realtà si incontrano (nella sua
solitudine, egli fa copie annuali di un dipinto dell’impressionista
Renoir ed è colui che riconosce i moventi interiori di Amélie), e un
misterioso personaggio che lascia ripetutamente le proprie fototessere
nelle relative cabine: uno che vuole affermare la propria esistenza
fotografandosi spesso? sarà un morto? o uno che ha paura di invecchiare,
e controlla periodicamente il suo aspetto fisico? Certo qui la fantasia di
Amélie subirà un primo contraccolpo, e il sentore di giallo si
tramuterà in un sorprendente sbocciare dell’ilarità (per lei prima,
come per noi più tardi). A dimostrazione che la stupidità può talvolta
risultare utile, con la realtà che si colora di tinte meno oscure della
fantasia, sorprendendola.
Letteraria nella sua esposizione (subito dichiaratasi attraverso il
narratore fuoricampo), la tessitura del film (intreccio, ritmica e
registri) è in linea con certa narrativa ottocentesca. Fatte le debite
distinzioni circa la poetica generale e limitandoci solo ad alcuni
caratteri di somiglianza (a livello di tassonomia piuttosto che di
sistema), molti elementi del film sono riscontrabili nelle ottocentesche Novelle
del defunto Ivan Petroviè Belkin di Aleksandr Puškin: rapido
passaggio da un registro emotivo all’altro, dicotomia di realtà e sogno
tenute insieme da una delicata ironia, divergenza e convergenza di
emozione fra i personaggi e il lettore, un destino che porta all’eccezionalità
degli eventi oltre le previsioni dei protagonisti, e ogni piccola cosa,
ogni dettaglio, a sostenere una realtà improbabile, ma mai impossibile.
Ne Il favoloso mondo di Amelie, il cui titolo originale è,
tradotto, Il favoloso destino di Amélie Poulain, si gioca tutto su un
verosimile portato al limite, che ha un sentore di favola, al punto che la
realtà materiale, così essenziale all’economia narrativa del film, si
intreccia con il sogno ad occhi aperti, in un volo a piedi per aria tipico
dei nostri pensieri meno canonizzati. Per trovare risposte a sé in un
contatto con gli altri, Amélie mette da parte il proprio mondo inventato
dalla realtà dell’esperienza di bambina, in un’epoché d’azione
da cui prima o poi finisce per uscire lei stessa, facendosi coinvolgere in
prima persona. Le battute e le situazioni del film non sono mai delle
trovate, messe lì per colpire lo spettatore, senza nesso stretto con la
storia. Ognuna tiene l’altra, e tutte servono a raccontarla.
L’attribuzione delle proprie difficoltà fuori di sé (ad altri o altro)
da parte dei personaggi rappresentati è una caratteristica ricorrente del
film, quasi a voler sottolineare un elemento culturale (che la storia
cerca a suo modo di superare) insito nel loro modo di agire, trasferibile
come trasmissione semantica e come strumento di reazione dall’uno all’altro
personaggio. Da un lato questo abito mentale causa la loro insofferenza,
dall’altro indica un modo di vivere fuori di sé anziché all’interno
di sé: a parte il caso eclatante di Amélie, abbiamo una rassegna di casi
analoghi nell’avventore geloso, nella tabaccaia allergica, nello
scrittore incompreso, nel fruttivendolo infastidito, nella moglie tradita,
nella proprietaria zoppa ecc. Si tratta di personaggi disagiati o malati,
comunque insofferenti, e forse, proprio nell’incontro della narrazione
fittizia con una topografia reale, nel voler ambientare a Montmartre la
storia, si crea un incastro poco adatto alla favola e più adeguato alla
satira, poiché proprio nella costruzione della favola ciò che dovrebbe
mancare è un’ambientazione reale troppo particolareggiata, nella misura
in cui si rappresenta una collettività specifica e non tanto alcuni
personaggi oscuri che intrecciano le loro anonime relazioni nelle grandi
città moderne: i quest’ultimo caso, i personaggi salgono sulla ribalta
di una storia come dalla massa che non sa nulla di loro, e si avverte con
più nitore la distinzione fra esempio e caso specifico (tutti i
personaggi sono così vs. solo questi personaggi sono così). Nel
suo modo di procedere, Jeunet finisce per descrivere una collettività
precisa, che, letteralmente presa, finirebbe per avere le caratteristiche
dei personaggi tipo di Montmartre: cosa di cui non c’è necessità se si
vuole disporre del potere suggestivo e allusivo della favola, altrimenti
sarebbe stato necessario descrivere, anche solo di passaggio, i personaggi
di Montmartre quali essi sono nei nostri soggiorni a Parigi. Questo,
naturalmente, se l’intenzione è quella di applicarsi alla favola senza
ricostruirne, ridefinirne o distruggerne genere.
A prescindere da questo aspetto e cercando di rimanere sul testo
cinematografico, la famiglia è descritta da Jeunet come un insieme di
componenti che si limitano nel rapporto con gli altri, attribuendo le
proprie limitazioni al resto dei familiari: lo si nota nella madre del
fruttivendolo che sostiene di dover pensare a tutto lei, o nel padre di
Amélie che dichiara di non aver viaggiato con la moglie a causa della
fittizia cardiopatia della figlia. Il ribaltamento di segno delle
monellerie di Amélie (dalla vendetta all’aiuto agli altri) acquista un
sapore d’uscita dal torpore collettivo, in una dimensione in cui
interviene la novità eccezionale, costruita a bella posta, che finalmente
coinvolge personaggi inebetiti dall’evento esterno, dal dovere, dall’obbligo
mentale che si sono imposti secondo regole sociali. Sotto il velo della
comicità c’è la palese motivata difficoltà dei personaggi, che non
sanno uscire dal meccanismo perverso del loro microcosmo, in cui la
scatola di un bambino sembra giungere finalmente da un altro mondo, così
come la falsa lettera e le cartoline inviate dall’estero da una hostess.
Non è un caso che il pesciolino rosso cercasse sempre di scappare dalla
vasca.
L’assenza di orpelli e tempi morti fa di questo film una deliziosa
commedia, in cui non si demanda la nostra partecipazione all’azione
concitata, al gesto clamoroso e al suspense prolungato, ma a un gustoso
intreccio che ci stupisce. E che, ribaltando di segno gli eventi,
trasporta la tragedia nel comico, fino a risolvere il comico nel bacio
finale, in cui il lieto fine delle favole coincide con la vita reale, in
una sequenza particolarmente lunga, poiché ora l’evento non è il segno
di una cosa, ma se stesso così come è vissuto (può essere un bacio
affettuoso o appassionato,
non un bacio sentimentale). È questo il punto d’incontro della storia e
dello spettacolo che ci aveva fatto ridere. Su questo piano, i drammi dei
personaggi non sarebbero più ilari, perché il registro è cambiato e si
è persa l’ironia. Si potrebbe dire che già da questa scena, anche la
favola viene meno e immaginare che, a questo punto, la filantropia di
Amélie non abbia più ragione di essere. La filantropia, nella storia, è
una mera illusione, che la ragazza abbandona nella cocenza del suo essere
chiamata a intrecciare la propria storia con quella di Nino, in prima
persona. Anche la filantropia quindi assume un aspetto personalizzato, si
fa strumento per Amélie, anziché essere un alto valore in cui credere.
La bravura di Jeunet sta nell’aver costruito attentamente un microcosmo
fittizio, in cui la marginalità dell’esistenza è all’interno della
società stessa, non solo nelle sue frange estreme, nelle figure sporche,
nei ribelli stereotipati, nei disadattati che recano con sé i segni
esteriori del dolore e del disagio, tutto quello che risalta all’occhio
con più facilità e che è, sì, degno di rappresentazione e attenzione
da parte nostra, ma che è anche più facilmente suscettibile di una
retorica del sociale, spesso trendy e rituale piuttosto che
meditata. Nel buffo procedere del dramma fiabesco, la società
contemporanea è descritta attraverso continui spostamenti del punto di
vista, da un personaggio all’altro allo spettatore, che il registro
comico, pur estetizzando nel riso, non stigmatizza. Ma evita di ricorrere
al luogo comune, all’ordine prestabilito, alle coordinate di un mondo
disagiato che finge di non essere di gran lunga perfettibile, o crede di
esserlo solo attraverso una collettività che non ha affatto alcuna
consapevolezza di sé e dei propri membri.
Bravi tutti gli interpreti, specialmente la buffa e graziosa Audrey Tautou,
e particolarmente felice la regia di Jean-Pierre Jeunet (già regista di Delicatessen),
nell’aver dosato sapientemente la miscela interpretativa di personaggi
spesso strampalati, nell’aver saputo tenere uniti i diversi movimenti
emotivi del film in registri che non indulgono mai alle facili soluzioni
stereotipate dei temi (emblematica la tenuta dell’atmosfera
fiabesco-quotidiana e comico-seria nel sex shop), nell’aver impiegato
con pertinente equilibrio gli effetti visivi e nell’aver fatto ricorso a
un montaggio dal ritmo serrato, senza tempi morti.
Il film, rifiutato a Cannes, ha vinto quattro Cesar e ha ottenuto cinque
candidature agli Oscar 2002: miglior film straniero, sceneggiatura
originale (Guillaume Laurant), scenografia (Aline Bonetto), fotografia
(Bruno Delbonnel) e suono (Vincent Arnardi e Guillaume Leriche). |