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Sommario anno XI numero 7 - luglio 2002

 CINEMA - pag. 14
Il favoloso mondo di Amelie
(Nicola D’Ugo) - Delicato e comico a un tempo, Il favoloso mondo di Amelie del regista francese Jean-Pierre Jeunet racconta la storia di una ventiduenne parigina nata negli anni settanta, le reazioni all’ambiente in cui vive e le sue difficoltà. Il film si apre con un’esilarante introduzione dell’origine familiare, della nascita e dell’infanzia di Amélie (Audrey Tautou), da cui apprendiamo i drammi personali della bambina: il padre (Rufus) che ha contatti fisici con la figlia solo una volta al mese durante le preoccupate visite mediche, la madre che viene uccisa sotto gli occhi della bambina, il pesciolino che salta fuori dell’acqua in cucina ed altri eventi di domestica drammaticità. E già qui il dramma si presenta come risposta soggettiva, eco interiore dell’oggetto esterno, per cui l’elencazione descrittiva ritmicamente serrata di eventi indifferenziati per drammaticità pone sullo stesso piano quello che un contesto d’ordine porrebbe, nel genere drammatico, secondo una gerarchia di valori. Su questo meccanismo di collocazione degli eventi esterni su uno stesso piano di valore, cui corrisponde una accentuata risposta emotiva dei personaggi, si fonda un aspetto dell’ironia del film. Gli eventi che capitano alla famiglia sarebbero tragici, se non fosse che sono tutti rappresentati con scanzonata comicità, in cui la successione ritmica toglie peso all’immedesimazione necessaria ad approfondire ogni dramma introdotto, che lascia subito il posto al successivo. Ne consegue che ogni evento presenta un doppio segno opposto, per cui maggiore è la tragedia per i personaggi, più comica appare agli spettatori.
Ed è proprio qui che la costruzione della storia ha un pregio raro: quello di mostrare come il punto di vista opposto fra la percezione di Amélie e quella dello spettatore abbia una sua coerenza nell’uno, nell’altro piano e nell’incontro fra biografia (di Amélie) e spettacolo (il nostro). Mentre per noi passano in rassegna personaggi buffi per il loro disagio, questi trasferiscono il proprio disagio sugli altri, attribuendogli la causa dei propri mali. Nel caso di Amélie, questa pratica mentale che ha avuto dapprima fortuna nel ristretto circolo familiare, e poi in tutta la Montmartre rappresentata, è ereditata quale modo di agire, e vi svolge un ruolo fondamentale la colpa e lo spirito di sacrificio, la prima da imputare agli altri, il secondo da sostenere da sé. La colpa viene quindi ad essere di segno opposto rispetto al senso di colpa, al peccato tradizionale: il colpevole è il familiare, il conoscente o lo sconosciuto, e la colpa degli altri è generalmente connessa all’incidente piuttosto che alla malizia. Quando non lo è, essa appare come attribuibile al carattere deformato e ottuso di alcuni personaggi (un vicino di casa, un fruttivendolo), a cui basterebbe dare una sonora lezione.
Questo meccanismo della colpa partecipato da Amélie viene superato nell’arco del film, mettendo da parte se stessa per pensare a come spezzare il filo delle difficoltà entro cui gli altri si sono aggrovigliati senza sentore d’uscita. Entrando di soppiatto nelle loro esistenze, la ragazza agisce anonimamente, dapprima in modo casuale: la polverosa scatola di un bambino, rinvenuta in un muro domestico, riporterà un cinquantenne alla memoria dell’infanzia e al superamento dei propri problemi familiari; una voce fatta circolare ad arte farà innamorare due ossessionati dai loro mali immaginari; un nano da giardino, che viaggia per il mondo e manda al sedentario papà di Amélie le foto di sé nei luoghi visitati, gli farà percepire la bellezza e fruibilità del mondo; la lettera falsa di un marito fedifrago, recapitata con trent’anni di ritardo, cambierà la storia della portiera infelice; la crema per i piedi sostituita al dentifricio darà modo di esprimersi all’oltraggiato fratello di un prepotente fruttivendolo ecc. Tutte monellerie, se non fosse che ora vanno a favore dei più sfortunati. Monellerie: poiché questo modo di agire era in Amélie, fin da bambina, come forma di vendetta agli oltraggi subiti.
Nel giorno della morte di Lady D., Amélie inizia un nuovo rapporto con la realtà, un rapporto non più in direzione di sé (la vendetta e le monellerie), ma dedito agli altri. Il film gioca spesso su questo piano ulteriore, mostrando una serie di eventi famosi che entrano nelle esistenze individuali. Ma, nei molteplici ribaltamenti del film, per Amélie il giorno famoso è importante per il rinvenimento della scatola sconosciuta. Nel suo intreccio minuzioso, il film rimanda in continuazione lo scioglimento definitivo delle situazioni: questo coincide, per Amélie, con il non venire a capo del suo rapporto con la realtà, mentre le vite degli altri cambiano grazie a lei. Del resto, il mancato definitivo superamento del disagio degli altri è, nel microcosmo della ragazza a Montmartre, motivo di una dedizione infinita di sé agli altri, finché la propria esigenza non reclama un’anteposizione di sé a loro (indicata finalmente nella scena in cui Amélie è disinteressata alla gioia procurata alla portinaia). Anche l’evento famoso, mediatico, collettivo, prende valore nell’esistenza immaginativa individuale, in una rielaborazione dell’evento e dei segni che non ha più alcun significato collettivo, che non è più fruibile con lo stesso significato nella circolazione comunicativa fra i ricettori della trasmissione: per Amélie la finestra di un seminterrato è la fossa di un suggeritore teatrale, una partita di calcio il punto debole di un nemico; per la madre, un’interpretazione cinematografica è l’odiosa esibizione di autisti che non guardano la strada; per il padre, un nano da giardino è un’icona da porre sulla tomba della moglie ecc.
Il film è ricco di spostamenti dell’ordine e del rapporto fra le cose, al punto da produrre tutta una serie di eterotopie, di accostamenti di oggetti mentalmente riservati a insiemi contestuali diversi (un cavallo al galoppo e una gara di ciclismo per strada, per esempio). Questo è fondamentale per l’avvicinamento intimo di alcuni personaggi, attraverso un linguaggio che non è fatto di temi comuni, ma di una rielaborazione dei dati collettivi (fotografie, dipinti, film ecc.). Jean-Pierre Jeunet precisa meglio questo punto: non è sulla pittura o sulla fotografia che si fondano la frequentazioni del pittore e del fruttivendolo, del riparatore di macchine fotografiche e del collezionista. L’aspetto più segnatamente eterotopico mette in luce, attraverso la produzione, fruizione e invadenza dell’immagine, la loro rielaborazione in un ordine di idee, di associazioni mentali che potremmo anche chiamare con il termine di sensibilità nell’uso corrente. Il codice di rielaborazione del dato è interno, non sociale né oggettivo, quale collegamento a una memoria diversamente configurata nei personaggi. Non appare cioè necessario che la dominante memorizzata del singolo oggetto sia anche oggettivata, mentre altri aspetti lo sono per quel quanto basta che basta a una sufficiente condivisione dello stato del mondo.
Nel caso dell’eterotopia, non si tratta di eccezionalità dell’evento o dell’accostamento degli oggetti. In un film inquietante come Seven, per esempio, l’ordine delle cose non ha nulla di eteropico, al punto che il simbolismo che accompagna la violenza e l’orrore trova come pronta risposta degli investigatori la ricerca del codice d’accesso alla sequenza dei delitti: l’ordine del mondo è rispettato, lo spettatore ha già preventivamente la possibilità di attribuire a un oggetto, a un segno, a una situazione un valore di negatività, perfidia, pericolo, poiché la differenziazione fra i buoni e il cattivo (i poliziotti e l’assassino) rientra in un ordine di idee già culturalmente formato nello spettatore, mentre, sul piano narrativo, il codice d’accesso del serial killer è dato come esistente nello stato del mondo della fabula e rispondente a una gerarchia di valori del codice che gli investigatori cercano di individuare. Esso va solo ricostruito. Ma cos’è fuori posto nelle foto del nano da giardino: il nano o il monumento alle sue spalle? L’immagine così fornita, senza una gerarchia del codice, non offre un ordine in cui interpretarla. Per farlo, occorrerebbe un sottocodice interpretativo, conosciuto da Amélie, ma non da suo padre.
La favola racconta il primo passo verso gli altri, l’affacciarsi sul mondo degli altri che, ammessa l’esistenza loro e delle relazioni reciproche al di là della propria vita, permetterà alla protagonista di guardare meglio la vita in genere e, successivamente, entrarci lei stessa. E anche di trovare l’anima gemella, ma gemella in compensazione: lei che agisce sulle storie altrui senza parteciparvi, e il collezionista Nino (Mathieu Kassovitz), che registra i segni degli altri senza partecipare alle loro storie (impronte, fotografie ecc.). Lei, continuando il proprio anonimo atteggiamento esterno, da fuori della storia di una vita, ma abbassando sempre più il gradiente d’anonimia, lascerà impronte di sé, icone fotografiche, veri e propri messaggi, affinché lui venga stimolato a conoscere chi è dietro l’immagine di lei piuttosto che a costruire storie di persone inconsce della propria produzione segnica: affinché non sia lo sguardo a intrecciarsi con una storia, ma, forse, la propria storia ad intrecciarsi con quella di un altro. Gioco inequivocabilmente erotico per i due, e gioco perverso, se non fosse che è il percorso del loro avvicinamento, l’uscita da un isolamento ereditato dall’infanzia, che non viene mai reso tragicamente nel film, ma viene anzi caratterizzato da differenti registri (anzitutto comico, ma poi anche giallo, drammatico e sentimentale) tutti stemperati in una delicata ironia. In fin dei conti, ciò che Amélie trova in Nino non è che un testimone, nel mondo, della sua individualità, colui con cui possa comunicare senza fraintendimento, che la faccia sentire compresa, ossia normale nel suo modo di percepire sé e il mondo. La seconda conseguenza, quella del piacere, viene dalla prima.
Notevole è l’uso dei mezzi di comunicazione strettamente legati alla storia. Attraverso la televisione si ingigantisce la colpa della bambina Amélie accusata da un signore di aver causato un incidente stradale abbagliando il conducente con una macchina fotografica (lei si vendicherà sabotandogli il televisore durante un imperdibile incontro di calcio). Nella caratterizzazione dei personaggi scorrono le immagini di classici del cinema, Amélie sogna ad occhi aperti di vedere il proprio funerale alla televisione come una filantropa compianta da una folla infinita (di quei giorni furono i funerali in mondovisione di Lady D. e di Madre Teresa di Calcutta), l’immagine di se stessa come Zorro ricorre spesso ecc. Televisore, macchina fotografica, videocamera (a cui si aggiunga il servizio postale e gli aerei) non sono solo oggetti funzionali, servizi tecnologici: entrano a pieno titolo nelle avventure immaginative dei personaggi. Non è un caso che due personaggi essenziali nello snodo dell’intreccio siano un pittore, per il quale vita e realtà si incontrano (nella sua solitudine, egli fa copie annuali di un dipinto dell’impressionista Renoir ed è colui che riconosce i moventi interiori di Amélie), e un misterioso personaggio che lascia ripetutamente le proprie fototessere nelle relative cabine: uno che vuole affermare la propria esistenza fotografandosi spesso? sarà un morto? o uno che ha paura di invecchiare, e controlla periodicamente il suo aspetto fisico? Certo qui la fantasia di Amélie subirà un primo contraccolpo, e il sentore di giallo si tramuterà in un sorprendente sbocciare dell’ilarità (per lei prima, come per noi più tardi). A dimostrazione che la stupidità può talvolta risultare utile, con la realtà che si colora di tinte meno oscure della fantasia, sorprendendola.
Letteraria nella sua esposizione (subito dichiaratasi attraverso il narratore fuoricampo), la tessitura del film (intreccio, ritmica e registri) è in linea con certa narrativa ottocentesca. Fatte le debite distinzioni circa la poetica generale e limitandoci solo ad alcuni caratteri di somiglianza (a livello di tassonomia piuttosto che di sistema), molti elementi del film sono riscontrabili nelle ottocentesche Novelle del defunto Ivan Petroviè Belkin di Aleksandr Puškin: rapido passaggio da un registro emotivo all’altro, dicotomia di realtà e sogno tenute insieme da una delicata ironia, divergenza e convergenza di emozione fra i personaggi e il lettore, un destino che porta all’eccezionalità degli eventi oltre le previsioni dei protagonisti, e ogni piccola cosa, ogni dettaglio, a sostenere una realtà improbabile, ma mai impossibile. Ne Il favoloso mondo di Amelie, il cui titolo originale è, tradotto, Il favoloso destino di Amélie Poulain, si gioca tutto su un verosimile portato al limite, che ha un sentore di favola, al punto che la realtà materiale, così essenziale all’economia narrativa del film, si intreccia con il sogno ad occhi aperti, in un volo a piedi per aria tipico dei nostri pensieri meno canonizzati. Per trovare risposte a sé in un contatto con gli altri, Amélie mette da parte il proprio mondo inventato dalla realtà dell’esperienza di bambina, in un’epoché d’azione da cui prima o poi finisce per uscire lei stessa, facendosi coinvolgere in prima persona. Le battute e le situazioni del film non sono mai delle trovate, messe lì per colpire lo spettatore, senza nesso stretto con la storia. Ognuna tiene l’altra, e tutte servono a raccontarla.
L’attribuzione delle proprie difficoltà fuori di sé (ad altri o altro) da parte dei personaggi rappresentati è una caratteristica ricorrente del film, quasi a voler sottolineare un elemento culturale (che la storia cerca a suo modo di superare) insito nel loro modo di agire, trasferibile come trasmissione semantica e come strumento di reazione dall’uno all’altro personaggio. Da un lato questo abito mentale causa la loro insofferenza, dall’altro indica un modo di vivere fuori di sé anziché all’interno di sé: a parte il caso eclatante di Amélie, abbiamo una rassegna di casi analoghi nell’avventore geloso, nella tabaccaia allergica, nello scrittore incompreso, nel fruttivendolo infastidito, nella moglie tradita, nella proprietaria zoppa ecc. Si tratta di personaggi disagiati o malati, comunque insofferenti, e forse, proprio nell’incontro della narrazione fittizia con una topografia reale, nel voler ambientare a Montmartre la storia, si crea un incastro poco adatto alla favola e più adeguato alla satira, poiché proprio nella costruzione della favola ciò che dovrebbe mancare è un’ambientazione reale troppo particolareggiata, nella misura in cui si rappresenta una collettività specifica e non tanto alcuni personaggi oscuri che intrecciano le loro anonime relazioni nelle grandi città moderne: i quest’ultimo caso, i personaggi salgono sulla ribalta di una storia come dalla massa che non sa nulla di loro, e si avverte con più nitore la distinzione fra esempio e caso specifico (tutti i personaggi sono così vs. solo questi personaggi sono così). Nel suo modo di procedere, Jeunet finisce per descrivere una collettività precisa, che, letteralmente presa, finirebbe per avere le caratteristiche dei personaggi tipo di Montmartre: cosa di cui non c’è necessità se si vuole disporre del potere suggestivo e allusivo della favola, altrimenti sarebbe stato necessario descrivere, anche solo di passaggio, i personaggi di Montmartre quali essi sono nei nostri soggiorni a Parigi. Questo, naturalmente, se l’intenzione è quella di applicarsi alla favola senza ricostruirne, ridefinirne o distruggerne genere.
A prescindere da questo aspetto e cercando di rimanere sul testo cinematografico, la famiglia è descritta da Jeunet come un insieme di componenti che si limitano nel rapporto con gli altri, attribuendo le proprie limitazioni al resto dei familiari: lo si nota nella madre del fruttivendolo che sostiene di dover pensare a tutto lei, o nel padre di Amélie che dichiara di non aver viaggiato con la moglie a causa della fittizia cardiopatia della figlia. Il ribaltamento di segno delle monellerie di Amélie (dalla vendetta all’aiuto agli altri) acquista un sapore d’uscita dal torpore collettivo, in una dimensione in cui interviene la novità eccezionale, costruita a bella posta, che finalmente coinvolge personaggi inebetiti dall’evento esterno, dal dovere, dall’obbligo mentale che si sono imposti secondo regole sociali. Sotto il velo della comicità c’è la palese motivata difficoltà dei personaggi, che non sanno uscire dal meccanismo perverso del loro microcosmo, in cui la scatola di un bambino sembra giungere finalmente da un altro mondo, così come la falsa lettera e le cartoline inviate dall’estero da una hostess. Non è un caso che il pesciolino rosso cercasse sempre di scappare dalla vasca.
L’assenza di orpelli e tempi morti fa di questo film una deliziosa commedia, in cui non si demanda la nostra partecipazione all’azione concitata, al gesto clamoroso e al suspense prolungato, ma a un gustoso intreccio che ci stupisce. E che, ribaltando di segno gli eventi, trasporta la tragedia nel comico, fino a risolvere il comico nel bacio finale, in cui il lieto fine delle favole coincide con la vita reale, in una sequenza particolarmente lunga, poiché ora l’evento non è il segno di una cosa, ma se stesso così come è vissuto (può essere un bacio affettuoso o appassionato, non un bacio sentimentale). È questo il punto d’incontro della storia e dello spettacolo che ci aveva fatto ridere. Su questo piano, i drammi dei personaggi non sarebbero più ilari, perché il registro è cambiato e si è persa l’ironia. Si potrebbe dire che già da questa scena, anche la favola viene meno e immaginare che, a questo punto, la filantropia di Amélie non abbia più ragione di essere. La filantropia, nella storia, è una mera illusione, che la ragazza abbandona nella cocenza del suo essere chiamata a intrecciare la propria storia con quella di Nino, in prima persona. Anche la filantropia quindi assume un aspetto personalizzato, si fa strumento per Amélie, anziché essere un alto valore in cui credere.
La bravura di Jeunet sta nell’aver costruito attentamente un microcosmo fittizio, in cui la marginalità dell’esistenza è all’interno della società stessa, non solo nelle sue frange estreme, nelle figure sporche, nei ribelli stereotipati, nei disadattati che recano con sé i segni esteriori del dolore e del disagio, tutto quello che risalta all’occhio con più facilità e che è, sì, degno di rappresentazione e attenzione da parte nostra, ma che è anche più facilmente suscettibile di una retorica del sociale, spesso trendy e rituale piuttosto che meditata. Nel buffo procedere del dramma fiabesco, la società contemporanea è descritta attraverso continui spostamenti del punto di vista, da un personaggio all’altro allo spettatore, che il registro comico, pur estetizzando nel riso, non stigmatizza. Ma evita di ricorrere al luogo comune, all’ordine prestabilito, alle coordinate di un mondo disagiato che finge di non essere di gran lunga perfettibile, o crede di esserlo solo attraverso una collettività che non ha affatto alcuna consapevolezza di sé e dei propri membri.
Bravi tutti gli interpreti, specialmente la buffa e graziosa Audrey Tautou, e particolarmente felice la regia di Jean-Pierre Jeunet (già regista di Delicatessen), nell’aver dosato sapientemente la miscela interpretativa di personaggi spesso strampalati, nell’aver saputo tenere uniti i diversi movimenti emotivi del film in registri che non indulgono mai alle facili soluzioni stereotipate dei temi (emblematica la tenuta dell’atmosfera fiabesco-quotidiana e comico-seria nel sex shop), nell’aver impiegato con pertinente equilibrio gli effetti visivi e nell’aver fatto ricorso a un montaggio dal ritmo serrato, senza tempi morti.
Il film, rifiutato a Cannes, ha vinto quattro Cesar e ha ottenuto cinque candidature agli Oscar 2002: miglior film straniero, sceneggiatura originale (Guillaume Laurant), scenografia (Aline Bonetto), fotografia (Bruno Delbonnel) e suono (Vincent Arnardi e Guillaume Leriche).
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Sommario anno XI numero 7 - luglio 2002