Il
falco dagli occhi lucidi
(Vincenzo Andraous)
(Carcere di Pavia e Tutor-educatore
Comunità “Casa del Giovane”di Pavia)
Il Presidente della Camera Luciano Violante ha sottolineato in
televisione che circa un milione di ragazzini rischiano nel prossimo
futuro di andare incontro a sanzioni penali. A questa affermazione, ho
riportato lo sguardo sul foglio di carta bianco che ho sotto il naso, ma,
ostinata, la penna è rimasta a mezz’aria.
Sto scrivendo a Marco, il mio nuovo amichetto, conosciuto nell’oratorio
di un mio amico prete dove qualche volta mi reco in permesso.
Un giorno il Don mi chiede se voglio parlare e confrontarmi con altri
amici, ma questa volta mi avverte che si tratta di adolescenti delle medie
inferiori. Ho accettato con entusiasmo. Da allora tra me e quei ragazzi si
è instaurato un rapporto di conoscenza capace di sfociare in amicizia e
aiuto reciproco.
Non è stato facile, in particolare con Marco, un ometto di tredici anni
con gli occhi rapaci. Marco, con la sua storia per molti versi già
scritta in tanti ieri che non esistono. Marco, che a scuola non ci va e le
poche volte che è presente ha in tasca il coltello. Marco, che frequenta
i più grandi e pesta giù duro per essere riconosciuto. Marco che...mi
ricorda qualcuno.
Stavamo seduti uno di fronte all’altro, lui sapeva che ero un detenuto
e mi guardava dritto sparato negli occhi, senza mostrare il più piccolo
cedimento.
“Com’è il carcere? Ti picchiano lì dentro?”. Chiedeva, quasi a
voler esorcizzare la paura che lo invadeva. “Io non ho paura della
prigione”, mi ha detto. E io gli ho chiesto: “Perché non hai
paura?”. “Perché non possono arrestarmi alla mia età, e poi non mi
prenderanno mai, sono troppo furbo io”.
“Eppure, è sempre il più furbo che alla fine della corsa pagherà per
tutti; guarda me: sebbene per qualche giorno sia qui con te, sono
invecchiato dentro come il pezzo di carcere che mi ha sepolto”.
“Mi piace fare casino e stare in giro per Milano fino a tardi, ogni
tanto dare un calcio a qualche rompi e a scuola fare impazzire i miei
compagni e i professori. Che male c’è a prendere un cappellino o un
giubbotto a chi ha più soldi di me?”.
Mi guarda e cerca di soppesare le mie reazioni, vuole la mia
approvazione, il mio rispetto: non me lo chiede, quasi me lo impone.
Incredibile, ho innanzi un piccolo duro che non intende fare sconti,
neppure a me.
Marco, il disadattato, ha trovato nel rischio e nella provocazione la
risposta più immediata alla propria sofferenza. Marco che teme il domani.
“Voglio essere amico tuo, Vince. Mi piace quando mi racconti le tue
cadute e sono contento che ora sei cambiato, ma io non posso cambiare,
perché sono fatto così, e poi cosa ho combinato di tanto grave?”.
Penso a sua madre oltre oceano, a suo padre troppo impegnato nel lavoro
per ritrovarlo la sera in casa, e inciampo in quel suo linguaggio secco e
sgangherato da sembrare ordinato.
“Quanti anni hai Vince? Vuoi venire a casa mia? Dai andiamo a fare un
giro in centro”.
“Ci andiamo più tardi”, gli dico, e, in silenzio, lo osservo mentre
gesticola e narra le sue avventure, mi ostino a percepire il suo vero
intento. Si accorge della mia trappola e tenta più volte di aggirare
l’ostacolo, d’improvviso avvicina le sue mani alle mie, ci tocchiamo
più volte le nocche: è il rito che si consuma nel linguaggio del corpo,
dell’immagine che effonde potenti ruggiti... O sono vagiti?
Ho l’impressione di avere fermato il tempo e, illudendomi, mi travesto
per un attimo da adolescente per farmi accettare da quella tigre
addormentata.
Non lo dice, ma glielo leggo negli occhi: è stanco di tante persone
pronte a dargli consigli.
I grandi, gli adulti sempre pronti a insegnargli dove sta il bianco e
dove il nero, senza mai consentirgli di approfondire il grigio.
“Ho ragione io”, grida, apostrofando malamente un ragazzo di
vent’anni che cerca di indurlo a più miti comportamenti.
Mi accorgo che è diventato nuovamente lo strumento di studio della
nostra coscienza, infatti il ragazzo che prima interloquiva con affabile
cortesia, ora rivendica il proprio ruolo di maestro maturo e responsabile,
ma non in forza dei valori che tenta di trasmettergli, bensì perché non
si ritiene rispettato abbastanza da quel pulcino agguerrito.
Parliamo e ci agitiamo tutti, mentre lui rimane attore fedele al suo
copione, fermo come un fusto di quercia ci osserva e sorride sornione alle
nostre scaramucce intellettuali.
Marco e il suo branco al momento lontano, rifugio dei miti e dei suoi
pari, oasi rassicurante dove tutto è condiviso, spazio vitale per le sue
trasgressioni. Una consuetudine alla trasgressione che si rinnova e si
rigenera all’ombra dell’indifferenza, in uno spazio costretto dove
tutto può esser condiviso.
Don Giorgio mi guarda, poi sposta lo sguardo su di lui, e ancora su di
me, forse stiamo pensando entrambi che questo incontro ci consente di
indagare in noi stessi, nelle parole spese male, e la conclusione che ci
arriva direttamente sul muso, è che i tanti Marco di questa periferia
esistenziale non debbono poi tanto meravigliare né sbalordire per la loro
durezza, alla luce della nostra inadeguatezza ad ascoltare, noi così ben
protetti dalle nostre imperturbabili aspettative.
Lui sorride beffardo, per niente stanco o sfibrato, mentre noi esausti e
sconsolati non vediamo l’ora di ritornare alle nostre tranquillizzanti
attività.
“Avevo tredici anni e già cominciavo a intuire cosa voleva dire vivere
in povertà e solitudine, senza stupore giunse il primo arresto, mi
portarono in un carcere per minorenni...”.
Riaffiorano pensieri di un mio testo teatrale che non eviteranno a
nessuno di andare ripetutamente a sbattere in un vicolo cieco, ma, chissà,
potrebbero indurre alla necessità di una tutela dell’attenzione
comprensiva, sensibile.
Il giorno del mio rientro in Istituto, al termine del permesso, lui era lì
ad aspettarmi: ‘’Quando ritorni Vince?”
“Presto”, gli ho risposto, presto.
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