Una
sera a teatro: “Animula vagula blandula”
(Roberto
Esposti) - Tredici anni dopo la prima si rinnova la magia della
rappresentazione di “Memorie di Adriano” a Villa Adriana. Così come
nell’89 è Giorgio Albertazzi, ora direttore del Teatro di Roma, ad
impersonare l’imperatore protagonista del libro di Margherite Yourcenar
(edito da Einaudi) in quella che fu la residenza di campagna di Adriano a
Tivoli.
L’idea di questa rappresentazione era in nuce già molti anni fa, quando
la Yourcenar in visita a Roma rimase folgorata dalla bellezza di Villa
Adriana: quelle costruzioni così grandi e perfette tradivano
l’aspirazione di un mortale verso il divino e l’ideale ellenistico, il
tentativo di un esteta deluso dal potere e dagli uomini di riposare
lontano dal mondo; quest’uomo era Adriano e di lui la scrittrice belga
volle ricostruire in un monologo gli ultimi pensieri prima della morte.
Naturale quindi che a Giorgio Albertazzi sia venuta l’idea di
rappresentare nel canopo della villa una riduzione di quel libro,
adattamento che porta il nome dell’inizio dell’epitaffio che chiude il
libro.
In una fresca sera di fine estate, gli spettatori attraversano la villa
accompagnati dai volti dei protagonisti antichi di questa storia
proiettati sulle rovine: Adriano, Antinoo e Plotina tornano eterei ad
abitare quei luoghi che li videro nella pienezza dei loro corpi.
Lo
spettacolo inizia con qualche minuto di ritardo a causa di problemi
tecnici (davvero una fortuna per lei Ministro Gasparri…) e dalle tenebre
del canopo emerge come dall’acqua Adriano/Albertazzi che inizia le sue
meste ed orgogliose memorie, rivolte al giovane Marco Aurelio. Il monologo
parla di un’infanzia trascorsa tra Roma e la Spagna, di studi
appassionati, di amore per il teatro, di vittoriose campagne militari, di
amori carnali, di passioni intellettuali. Si arriva fino alla
proclamazione a cesare, successore designato di suo cugino, Traiano, nella
Mesopotamia appena conquistata.
Il monologo è talvolta interrotto e talvolta intrecciato, quasi in
trasparenza, dalle apparizioni delle persone importanti della vita di
Adriano: il precettore greco, Adriano stesso giovanetto (Fabrizio Raggi),
Plotina la moglie di Traiano (Fiorella Rubino), l’amato Antinoo (Fabio
Correnti), emblema della bellezza assoluta che per non soccombere alla
corruzione del tempo si ucciderà, causando al cesare un cupo dolore.
Ed è proprio con la riflessione sulla morte di Antinoo che si avvia alla
fine la rappresentazione, conclusa con il lucido e poetico epitaffio:
“Piccola anima graziosa e soave… cerchiamo di entrare nella morte ad
occhi aperti.”.
L’adattamento del testo fatto dallo stesso Albertazzi è magistrale,
come la regia di Maurizio Scaparro: entrambi perfetti nel cogliere gli
spiriti, i tempi e le immagini evocate nel libro. L’interpretazione di
Giorgio Albertazzi è magnetica, la sua voce dilata il tempo e trasla
spazi lontani. Molto bravi anche gli altri attori, in particolare il
giovane ballerino Fabio Correnti.
Un
ricordo del Mazzamurello
(Luca
Ceccarelli) - L’origine del nome di Vicolo Mazzamurelli a
Trastevere è incerta. Di sicuro non è un cognome di persona. C’è chi
ha sostenuto che si trattava di un gioco d’azzardo che vi si praticava,
ma anche questa spiegazione non è quella giusta.
In realtà, la parola Mazzamurello ha il significato di spiritello,
e si può definire come il corrispettivo laziale di quello che a Napoli si
chiama Mazzamauriello, o Munaciello. Oggi è una figura
praticamente dimenticata, ma ha avuto grande parte nella fantasia
popolare. Nessuno lo ha mai visto, ma secondo la tradizione è un nanetto
vestito da chierico, che gira per le strade recitando le preghiere e
bussando alle porte per dispetto. Ma il Mazzamurello è capace anche di
trasformarsi nei modi più vari, in serpente o in un bel giovanotto o in
un vecchio con la parrucca. Segno distintivo del Mazzamurello è inoltre
una risata dispettosa, segno più inconfondibile della sua presenza. Solo
nelle notti di luna piena diventa triste e non ride. Chi incontra per
strada un Mazzamurello gli deve togliere il cappello, al che lo spiritello
gli regalerà per riaverlo una manciata di monete d’oro. Guai però se
il Mazzamurello si indispone e comincia a fare dispetti: ruba qualsiasi
cosa, spegne i fornelli e fa sentire in modo inquietante la sua presenza
con rumori e scricchiolii vari.
Secondo una tradizione locale, a Castro dei Volsci, nel cuore della
Ciociaria, un avvocato abitava in un palazzo dove si era insediato un
Mazzamurello, che cominciò a nascondergli tutti gli incartamenti relativi
ai processi. Finché, esasperato, l’avvocato decise di cambiare casa.
Tutto era pronto e sistemato su un camion: mobili, centinaia di libri,
mucchi di fascicoli e documenti vari. Improvvisamente, in cima a tutto il
carico, apparve il Mazzamurello che rideva e batteva le mani gridando:
“Che bello, si cambia casa!”.
La domanda che si può porre è perché la strada sia intitolata proprio a
questi spiritelli. Per rispondere bisogna tenere presente che qualche
secolo fa l’assetto viario della zona era diverso (lo stesso Viale
Trastevere venne costruito negli anni successivi alla proclamazione di
Roma capitale): più indietro, davanti alla basilica di San Crisogono era
un “chiassuolo”, buio, stretto e maleodorante dove, secondo la
leggenda, viveva un uomo che, oltre ad essere implicato in affari loschi,
si spacciava pubblicamente per mago e dichiarava di avere delle visioni.
La sua casa, anche dopo la sua morte, era considerata mèta privilegiata
dei Mazzamurelli, ed era circondata da una paura superstiziosa. In seguito
alla costruzione del viale il chiassuolo è scomparso, insieme a tutte le
case che lo circondavano, ma si è voluta ugualmente intitolare ai
Mazzamurelli la strada che partendo da Viale Trastevere termina di fronte
alla facciata settecentesca della chiesa di San Gallicano, incastonata
nell’edificio dell’ospedale omonimo, a ricordo di una figura
importante della tradizione popolare romana e laziale.
Dammi la mano, di Paolo Mosca
(Silvia Cutuli) - “Mentre le due torri crollavano nella
polvere, noi cambiavamo pelle, cuore, spirito. Morivamo con quelle
migliaia di creature innocenti: e mentre loro soffocavano sotto le
macerie, noi rinascevamo come miracolati, più consapevoli che la nostra
esistenza è un soffio di vento”. I fatti dell’11 settembre
rappresentano per l’autore Paolo Mosca il momento di riscoprire il
dialogo, la comunicazione, l’altro: nella solitudine “non
sopporteremmo l’angoscia dell’incertezza del nuovo domani”.
Paolo Mosca intrattiene nel romanzo un incontro con un immaginario amico:
abbandonato il frenetico ritmo di vita, senza andare al lavoro, i due si
danno semplicemente la mano, provando a scambiarsi energie, pensieri,
sogni, speranze. Il lettore viene coinvolto in un tuffo “senza tempo”,
in cui i simboli della normalità sono annientati dalla rivincita
dell’anima. I due protagonisti tolgono l’orologio “piccolo immenso
trucco per darci appuntamenti, per dare un senso logico ai nostri capelli
che sbiadiscono (…)”, non aprono il giornale “forse vorremmo qualche
parola di speranza. Ma queste non arrivano dalla carta stampata. Bisogna
andarle a cercare nel giornale che è dentro di noi, nel giornale che
scriviamo e leggiamo noi, in un’unica copia dal prezzo altissimo”,
ascoltano suonare lo strumento che è in loro.
Sulle pagine di Mosca si compie un viaggio da fermi, che porta ad
esplorare l’io e poi ad avvertire, nella stretta di mano di un altro, la
speranza di un domani migliore. “L’ottimismo ci arriverà da un uomo
che, per età e per condizione, dovrebbe essere stanco di sorridere al
domani. E invece ci prova. E se lui sorride, noi siamo cinici e
presuntuosi a non credere che al di là delle montagne ci aspetta
l’immenso prato della pace”. Mosca avverte l’avvento del terzo millennio che spazzerà
via ogni individualismo e, attraverso i mezzi di comunicazione di massa,
porterà a collettivizzare idee e sensazioni. Da ciò matura la riscoperta
della comunicazione: dando spazio alle parole mute, alle confidenze, siamo
stimolati a trovare il perché per andare avanti.
“E adesso noi due per mano, dobbiamo sforzarci di credere ancora in
questo folle mondo che fa di tutto per distruggersi”. Il forte messaggio
di Paolo Mosca è che dobbiamo ancora vivere, se non per noi per gli
altri.
Crudeltà gratuita
(Claudia Spagnuolo -
claudia_1938.it@libero.it) -
In un giornale della Marsica, in merito alla “Sagra del toro” che si
svolge ogni anno a Celano, si legge:
«C’è fanatismo eccessivo da parte degli animalisti»: è la risposta
della curia di Avezzano alle proteste giunte da ogni parte d’Italia
contro l’”offerta del toro” alla Madonna del Giubileo. «Tutto
questo sdegno», dicono dalla diocesi, «per l’uccisione di un toro
nell’ambito di una festa sembra davvero eccessivo. Certamente, non è
bello legare questo tipo di sagra a ricorrenze religiose, ma comunque
sarebbe bene rivolgere tutta questa attenzione a cose ben più gravi che
accadono agli uomini e non solo agli animali». L’intervento del
vescovado, insomma, vuol riportare una sorta di equilibrio nella vicenda e
spegnere i toni eccessivi usati da alcune associazioni animaliste nei
confronti di una semplice sagra paesana. Anche i celanesi e i tanti
marsicani che hanno preso parte alla festa celebrata il 3 agosto, non ci
stanno a tali accuse. Per tutti si è trattato di un evento folkloristico
che non aveva nulla di oltraggioso e in cui si è mangiato il toro allo
spiedo così come in tante sagre si mangiano altri animali.
Ci risiamo con questa indifferenza della chiesa cattolica per ciò che
accade agli animali e con la solita contrapposizione tra animali e persone
o bambini (cosa già accaduta quando si parlava dei beagles della ditta
Morini o della festa della Palombella di Orvieto e per molti altri casi),
cosa questa ultima che costituisce un alibi per chi in fondo in fondo non
fa niente per nessuno dei due. La Chiesa sostiene di attenersi al Credo
del Signore mentre invece dimentica che gli animali sia nella Bibbia che
nel Vangelo erano rispettati ed amati e non uccisi barbaramente e
dimentica che dovrebbe essere Lei per prima a difenderli da pratiche
crudeli messe in atto solo per divertire i cittadini creando per questi
ultimi dei passatempi più costruttivi e più edificanti e utili e per
educare quelli più ostili al rispetto degli animali. Come si fa a pensare
di offrire un toro ucciso barbaramente alla Madonna! È una cosa
inammissibile e una scusa del tutto penosa per giustificare un bisogno di
crudeltà gratuita che la Madonna sicuramente condannerebbe. Le feste e in
particolare quelle religiose dovrebbero essere un inno alla vita e
all’amore riferiti indifferentemente agli uomini e agli animali e non il
divertimento dell’uno sulla pelle dell’altro, perché così ricordano
molto da vicino le feste pagane con sacrifici di esseri viventi o le feste
dei satanisti che operano nello stesso modo. Se volete informarvi sul
rapporto tra la religione e gli animali leggete le pagine della Bibbia e
forse imparerete a predicare l’amore universale e non uno pseudo-amore
basato solo sulle parole. |