Tecnica
e filosofia nel rettangolo verde
(Stefano
Paolucci) - Risaliva all’uscita del film Il Signor
Quindicipalle, di Francesco Nuti, il mio ultimo incontro con Bruno
Muratore. Sedeva nella fila di poltrone dietro la mia, in compagnia di un
amico. Nel buio della sala non faticai a riconoscere la sua voce, mentre
commentava una scena del film in cui aveva partecipato come comparsa
durante un torneo di pool all’aperto. Ma se nella finzione
cinematografica Bruno Muratore è solo un’apparizione, nella realtà
italiana del pool ricopre un ruolo da protagonista. L’ennesima conferma
arriva dalla S.S.B. “La Cattedrale” di Roma, dove il 16 e 17 novembre
2002 si è disputata la 1ª Prova del Campionato Italiano Champions League
2002/2003, specialità Palla-9, che ha visto vincitore proprio Bruno
Muratore, facendosi largo tra veterani come Angelo Millauro e Giorgio
Margola e battendo in una finale tiratissima (11-9) il Nazionale più
“internazionale” d’Italia: Fabio Petroni. A Roma e nel Lazio, alla
fine degli Anni ’80, Bruno Muratore fu tra i primi a portare una ventata
d’aria nuova nella scena asfittica del biliardo - dove biliardo
significava per lo più «8 e 15» - divulgando il “verbo” del pool.
Ma cosa ne è stato della sua passione per l’8-15? «Ho continuato a
giocarci. Non dico che è nel DNA del giocatore prototipo italiano, ma non
rinnego il gioco. Certo, rispetto al pool, 8-15 è più limitativo: non ti
permette di esprimerti, di raffinare i colpi, di creare le “uscite”
come tu vorresti. Sicuramente a pool è più facile fare la palla, per via
delle buche più larghe, ma è tutto il resto che crea la complessità del
gioco.»
Dico a Bruno di aver letto, in un libro firmato da un esperto americano
del pool,* che i campioni da lui interpellati affermano che, a parità
di livello, l’esito di una partita dipende al 90% dallo stato mentale
del giocatore. Gli chiedo se è d’accordo.
«Forse la percentuale può essere un po’ più bassa, ma solo in
relazione agli episodi fortunati che possono capitare. È vero anche che
gli episodi fortunati, nel corso della carriera di due giocatore di pari
livello, alla fine si equivalgono. Più vai avanti, maggiore è la
possibilità che il tiro fortunato, se accade, può cambiare le sorti di
un incontro.» Viene da pensare al break, cioè la “spaccata”,
il tiro incontrollabile per antonomasia. «Fino a un certo punto è
incontrollabile», s’affretta a correggermi. «Dietro c’è uno studio,
la fortuna conta poco. Bisognerebbe curare il movimento, ritrovarsi le
biglie più o meno sempre nelle stesse posizioni… Sempre che tu faccia
palla su spaccata, s’intende. L’imponderabile è lì.» E cosa ha da
dire sulla “professione” di giocatore? «È solo una parola. Il
termine “professionista” implica un guadagno. A livello italiano non
c’è guadagno. Io guadagno, e anche bene, solo perché lavoro
nell’ambito del biliardo. Prima avevo una sala mia, adesso collaboro con
altre sale.» Insisto sulla figura del giocatore professionista. «L’unico
giocatore professionista che abbiamo in Italia è Fabio Petroni. Per sua
scelta, fortunatamente. Il pro non lo fa in Italia, ma prova a farlo
all’estero.» E cosa richiede l’andare all’estero per crearsi una
carriera da pro? «Innanzitutto di non avere legami. E poi un’età
compatibile. Nel mio caso, ad esempio, a 35 anni mi sembra improbabile che
possa lasciare tutto e tutti per andare all’avventura, magari in America
e fare le qualificazioni di tutti i circuiti più importanti. Bisogna
avere soldi da investire e tanto tempo a disposizione.»
È vero che il biliardo ti trasforma dentro? Ciò che sei ti segue
all’interno del rettangolo verde e quello che succede sul tavolo si
ripercuote, carambola su te stesso… «Non è che ti trasforma. Il
biliardo è uno specchio», chiarisce Bruno. «Nel bene e nel male, fa
uscire fuori il tuo carattere.» Si fa strada una sorta di poolosofia:
«Il biliardo t’insegna a controllare le emozioni. Non a reprimerle,
perché le emozioni vanno vissute. Ma se durante una partita un’emozione
forte può destabilizzarti, sicuramente cerchi di tenerla dentro, o
comunque di buttarla fuori “di lato”. Senza conoscere cosa fosse il
Training Autogeno, praticamente l’ho sempre fatto.» La calma è
fondamentale, quindi. «È un discorso soggettivo. La calma può essere
anche deleteria. Ci sono giocatori che hanno bisogno di scariche di
adrenalina per “tirare fuori” il loro livello.» Solo adrenalina, o può
esserci qualcos’altro? Il discorso doping preme. «Il controllo
anti-doping non c’è nel biliardo. Neppure nello snooker inglese,
dove i guadagni sono altissimi, i più alti in assoluto.»
Prima di una partita, Bruno mi confessa di essere sempre emozionato. «Come
fosse la prima volta.» E i suoi avversari? «Finora non ho mai incontrato
giocatori emotivamente piatti.» Ma l’emotività può giocare brutti
scherzi, specie quando l’avversario è famoso: «Uno non dovrebbe
lasciarsi condizionare dal “nome” contro cui sta giocando». Come
dicono gli americani, “Play the Game, Not the Name”? «Sì,
assolutamente.»
Di “stecche” famose Bruno Muratore ne ha incrociate parecchie sul suo
percorso. Cosa mi dice, per esempio, di Ralf Souquet, Campione del Mondo
nel 1996? «Hai nominato l’unico giocatore che mi “impiccia” la
testa», risponde, ridendo a denti stretti. «E dire che ho giocato con
persone ritenute anche più brave di lui, ma Souquet mi fa
quest’effetto. La sua, per me, è l’espressione ideale del gioco del
pool. Souquet è forse il più bravo a crearsi il gioco facile, gli angoli
giusti. E nel pool è la cosa più difficile da fare.» Tiro in ballo il
filippino Efren Reyes, Campione del Mondo nel 1999, soprannominato “Il
Mago” per la sua capacità di far sembrare tutto molto facile agli occhi
di chi non conosce i “trucchi” del mestiere. «Come talento puro, hai
nominato forse il più dotato», conferma Bruno. «La sua postura, il
brandeggio della stecca, persino il modo di fare il ponticello con la
mano… Sembra uno qualsiasi, invece è un grandissimo campione!»
M’intriga questo aspetto del “gioco facile”, e vale la pena
approfondire. «Imbucare una palla di massé è bellissimo, come
fare un goal in rovesciata: pochi lo possono fare, e inoltre ti metti a
rischio della figuraccia», prosegue Bruno. «Ma se non hai un gioco
facile — ossia che ti brucia poche energie — a lungo andare sei
destinato a perdere: non riesci a rimanere lucido per cinque, dieci,
quindici ore di gioco. È una fatica fisica vera e propria. Un tiro
difficile richiede più concentrazione, mentre trovarsi con l’angolo
giusto, la palla solo da spingere, da dover colpire con poco effetto,
senza dover pensare troppo allo “scarto” da calcolare, alla fine si
rivela un vantaggio enorme.» Come nella vita, quindi, anche nel biliardo
“Meno” è “Più”?
«Sì», risponde Bruno senza tentenni. L’annuncio del Direttore di
Gara risuona nella sala, richiamando i giocatori al loro dovere. La pausa
è finita. Bruno Muratore s’avvia verso l’arena di gioco, dove lo
aspetta il compito più difficile: quello di passare dalle parole ai
fatti. E i fatti, anche stavolta, hanno parlato chiaro.
Philip B. Capelle, A Mind for
Pool: How to Master the Mental Game, Billiards Press, Cal., 1999. |