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Sommario anno XII numero 2 - febbraio 2003

 COSTUME E VIAGGI
Tecnica e filosofia nel rettangolo verde
(Stefano Paolucci) - Risaliva all’uscita del film Il Signor Quindicipalle, di Francesco Nuti, il mio ultimo incontro con Bruno Muratore. Sedeva nella fila di poltrone dietro la mia, in compagnia di un amico. Nel buio della sala non faticai a riconoscere la sua voce, mentre commentava una scena del film in cui aveva partecipato come comparsa durante un torneo di pool all’aperto. Ma se nella finzione cinematografica Bruno Muratore è solo un’apparizione, nella realtà italiana del pool ricopre un ruolo da protagonista. L’ennesima conferma arriva dalla S.S.B. “La Cattedrale” di Roma, dove il 16 e 17 novembre 2002 si è disputata la 1ª Prova del Campionato Italiano Champions League 2002/2003, specialità Palla-9, che ha visto vincitore proprio Bruno Muratore, facendosi largo tra veterani come Angelo Millauro e Giorgio Margola e battendo in una finale tiratissima (11-9) il Nazionale più “internazionale” d’Italia: Fabio Petroni. A Roma e nel Lazio, alla fine degli Anni ’80, Bruno Muratore fu tra i primi a portare una ventata d’aria nuova nella scena asfittica del biliardo - dove biliardo significava per lo più «8 e 15» - divulgando il “verbo” del pool. Ma cosa ne è stato della sua passione per l’8-15? «Ho continuato a giocarci. Non dico che è nel DNA del giocatore prototipo italiano, ma non rinnego il gioco. Certo, rispetto al pool, 8-15 è più limitativo: non ti permette di esprimerti, di raffinare i colpi, di creare le “uscite” come tu vorresti. Sicuramente a pool è più facile fare la palla, per via delle buche più larghe, ma è tutto il resto che crea la complessità del gioco.»

Dico a Bruno di aver letto, in un libro firmato da un esperto americano del pool,*  che i campioni da lui interpellati affermano che, a parità di livello, l’esito di una partita dipende al 90% dallo stato mentale del giocatore. Gli chiedo se è d’accordo.
«Forse la percentuale può essere un po’ più bassa, ma solo in relazione agli episodi fortunati che possono capitare. È vero anche che gli episodi fortunati, nel corso della carriera di due giocatore di pari livello, alla fine si equivalgono. Più vai avanti, maggiore è la possibilità che il tiro fortunato, se accade, può cambiare le sorti di un incontro.» Viene da pensare al break, cioè la “spaccata”, il tiro incontrollabile per antonomasia. «Fino a un certo punto è incontrollabile», s’affretta a correggermi. «Dietro c’è uno studio, la fortuna conta poco. Bisognerebbe curare il movimento, ritrovarsi le biglie più o meno sempre nelle stesse posizioni… Sempre che tu faccia palla su spaccata, s’intende. L’imponderabile è lì.» E cosa ha da dire sulla “professione” di giocatore? «È solo una parola. Il termine “professionista” implica un guadagno. A livello italiano non c’è guadagno. Io guadagno, e anche bene, solo perché lavoro nell’ambito del biliardo. Prima avevo una sala mia, adesso collaboro con altre sale.» Insisto sulla figura del giocatore professionista. «L’unico giocatore professionista che abbiamo in Italia è Fabio Petroni. Per sua scelta, fortunatamente. Il pro non lo fa in Italia, ma prova a farlo all’estero.» E cosa richiede l’andare all’estero per crearsi una carriera da pro? «Innanzitutto di non avere legami. E poi un’età compatibile. Nel mio caso, ad esempio, a 35 anni mi sembra improbabile che possa lasciare tutto e tutti per andare all’avventura, magari in America e fare le qualificazioni di tutti i circuiti più importanti. Bisogna avere soldi da investire e tanto tempo a disposizione.»
È vero che il biliardo ti trasforma dentro? Ciò che sei ti segue all’interno del rettangolo verde e quello che succede sul tavolo si ripercuote, carambola su te stesso… «Non è che ti trasforma. Il biliardo è uno specchio», chiarisce Bruno. «Nel bene e nel male, fa uscire fuori il tuo carattere.» Si fa strada una sorta di poolosofia: «Il biliardo t’insegna a controllare le emozioni. Non a reprimerle, perché le emozioni vanno vissute. Ma se durante una partita un’emozione forte può destabilizzarti, sicuramente cerchi di tenerla dentro, o comunque di buttarla fuori “di lato”. Senza conoscere cosa fosse il Training Autogeno, praticamente l’ho sempre fatto.» La calma è fondamentale, quindi. «È un discorso soggettivo. La calma può essere anche deleteria. Ci sono giocatori che hanno bisogno di scariche di adrenalina per “tirare fuori” il loro livello.» Solo adrenalina, o può esserci qualcos’altro? Il discorso doping preme. «Il controllo anti-doping non c’è nel biliardo. Neppure nello snooker inglese, dove i guadagni sono altissimi, i più alti in assoluto.»
Prima di una partita, Bruno mi confessa di essere sempre emozionato. «Come fosse la prima volta.» E i suoi avversari? «Finora non ho mai incontrato giocatori emotivamente piatti.» Ma l’emotività può giocare brutti scherzi, specie quando l’avversario è famoso: «Uno non dovrebbe lasciarsi condizionare dal “nome” contro cui sta giocando». Come dicono gli americani, “Play the Game, Not the Name”? «Sì, assolutamente.»
Di “stecche” famose Bruno Muratore ne ha incrociate parecchie sul suo percorso. Cosa mi dice, per esempio, di Ralf Souquet, Campione del Mondo nel 1996? «Hai nominato l’unico giocatore che mi “impiccia” la testa», risponde, ridendo a denti stretti. «E dire che ho giocato con persone ritenute anche più brave di lui, ma Souquet mi fa quest’effetto. La sua, per me, è l’espressione ideale del gioco del pool. Souquet è forse il più bravo a crearsi il gioco facile, gli angoli giusti. E nel pool è la cosa più difficile da fare.» Tiro in ballo il filippino Efren Reyes, Campione del Mondo nel 1999, soprannominato “Il Mago” per la sua capacità di far sembrare tutto molto facile agli occhi di chi non conosce i “trucchi” del mestiere. «Come talento puro, hai nominato forse il più dotato», conferma Bruno. «La sua postura, il brandeggio della stecca, persino il modo di fare il ponticello con la mano… Sembra uno qualsiasi, invece è un grandissimo campione!» M’intriga questo aspetto del “gioco facile”, e vale la pena approfondire. «Imbucare una palla di massé è bellissimo, come fare un goal in rovesciata: pochi lo possono fare, e inoltre ti metti a rischio della figuraccia», prosegue Bruno. «Ma se non hai un gioco facile — ossia che ti brucia poche energie — a lungo andare sei destinato a perdere: non riesci a rimanere lucido per cinque, dieci, quindici ore di gioco. È una fatica fisica vera e propria. Un tiro difficile richiede più concentrazione, mentre trovarsi con l’angolo giusto, la palla solo da spingere, da dover colpire con poco effetto, senza dover pensare troppo allo “scarto” da calcolare, alla fine si rivela un vantaggio enorme.» Come nella vita, quindi, anche nel biliardo “Meno” è “Più”?
«Sì», risponde Bruno senza tentenni. L’annuncio del Direttore di Gara risuona nella sala, richiamando i giocatori al loro dovere. La pausa è finita. Bruno Muratore s’avvia verso l’arena di gioco, dove lo aspetta il compito più difficile: quello di passare dalle parole ai fatti. E i fatti, anche stavolta, hanno parlato chiaro.
Philip B. Capelle, A Mind for Pool: How to Master the Mental Game, Billiards Press, Cal., 1999.
 COSTUME E VIAGGI

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