L’infinito alfabeto
della fotografia
(Silvia Cutuli) - Franco Lefevre, esperto di immagine, ha
tenuto una lezione all’Accademia di Costume e di Moda di Roma. Lefevre
ci trasmette l’arte del fotografare, in un momento in cui in Italia la
fotografia vive “assonnata”. Sa crederci ancora e ne parla come fosse
una fede, con convinzione nel suo potenziale.
La storia di
questa invenzione ci insegna l’importanza della foto come testimonianza
del tempo. Il Conte Primori, nobile romano, documenta la vita di fine
ottocento a Roma, come Gabriele D’Annunzio fa nelle cronache mondane.
Immagini lontane da noi, che fanno rivivere lo spirito di quei tempi:
nasce la fotografia sociale, il fotografo è nel tempo. Primori è
antesignano di quel “giornalismo fotografico” che documenta l’attimo
di contatto con la realtà, diventa testimone del tempo con immediatezza.
Soltanto il fotografo dispone tra i molti scatti, dell’immagine che fa
la differenza e cambierà l’esperienza di tutti.
Giornalismo non è
più raccontare ma vedere, la macchina fotografica parla.
Cosa ci dice una
fotografia?
È qui che Lefevre,
con il suo vivere avvinghiato alla fotografia, apre un nuovo orizzonte per
i nostri occhi, abituati a guardare il proprio ritratto, interrogandosi
poco, stupendosi ancor meno. Si guarda all’immagine, alla bellezza
apparente, non riuscendo a cogliere l’oltre. L’”oltre” il tempo e
lo spazio che resta imprigionato nello scatto, in quel senso di
meraviglia, che suscita in noi la visione di una fotografia; c’è un
“oltre” che vive nell’estemporaneità.
Il fotografo nello
scatto, vive come una mimesi estesa con il soggetto da ritrarre, ne coglie
tutti gli aspetti espressivi, scava nella personalità.
Può partire con
un senso già idealizzato di ciò che vuole ritrarre, proiettando nella
situazione ciò che cerca. Lo trova, riesce ad imprimerlo sulla pellicola.
In tal caso noi
non vedremmo solo i contorni di un volto, ma un abile gioco, un riuscito
tentativo di aggrapparsi ad un’idea e tradurla in un’espressione
visiva. Sarà confermata la sua interpretazione del momento.
La mia chiave di
lettura dell’incontro con Lefevre, è racchiusa nella definizione di
fotografia come: “superchimica dell’elemento umano”. Cosa succede se
si cambia la formula? Accade che il fotografo, come il chimico di
laboratorio, sperimenta.
La fotografia
trasforma la realtà in un mondo a sé: può scoprire un volto nuovo che
il soggetto non conosceva. Coglie gli stati d’animo e li rende in un
colore, in un gioco d’ombra e di luce, nei contorni mossi che mancano di
un riferimento immediato.
Rende le
sensazioni, come l’estemporaneo che non si può categorizzare.
La fotografia di
cui ci ha parlato Lefevre, è fatta di un alfabeto infinito, in cui non è
dato di conoscere una fantomatica lettera “z”, perché ogni qualvolta
ci si avvicina la fotografia fugge e si situa nell’irrazionale.
Le sensazioni, per
il fatto di essere tali, non sono soggette a definizione assoluta ma in
continuo movimento verso altre forme: la fotografia è ricerca, un appunto
visivo che si rigenera, che può avventurarsi in molteplici direzioni.
Cronache mondane
di Gabriele D’Annunzio
(Silvia Cutuli) - Nel dicembre del 1884 Gabriele
D’Annunzio, ventunenne, è a Roma dove si è da poco unito in matrimonio
alla contessina Maria Hardouin Gallese.
Le nozze, avversate dalla famiglia di lei, fecero notevole scandalo
nella Roma “bene”. Sarà
la famiglia Hardouin, in seguito, a procurare un incarico a D’Annunzio
presso il quotidiano “La Tribuna”. D’Annunzio inizia la sua
collaborazione al giornale nel dicembre 1884; pubblicando diversi articoli
a sua firma inerenti argomenti di tono elevato, utilizzando invece
numerosi pseudonimi per le pubblicazioni nelle rubriche.
D’Annunzio si
interessò soprattutto alla cronaca mondana contenuta nelle rubriche
“Giornate romane”, “Cronache romane”, “La vita a Roma”.
I suoi critici lo
dipingevano come “l’unico scrittore contemporaneo in grado di
consigliare una dama nell’acquisto di damaschi e broccati”, ma
D’Annunzio non se ne curava molto e, deciso com’era a far risaltare la
bellezza di una donna, prese a descriverne le vesti.
Con lo pseudonimo
Vere de Vere, nel 1884 mise a confronto la bellezza bionda e l’eleganza
della regina Margherita con quella della sua dama d’onore Duchessa
Cesarini Sforza, apparse nel palco reale del Teatro Apollo di Roma:
“Un vero
trionfo di bellezza l’ebbe, iersera, S.M. la Regina. Aveva un abito di
broccato candido, chiuso intorno al collo, semplice molto; e sui capelli
alcune rose thee. In quella semplicità le regali grazie luminavano più
vive. Accanto alla Regina bionda e chiara, sedeva la duchessa Sforza
Cesarini, vestita d’un abito nero tutto tempestato di rabeschi, di
brillanti, nobilissima nell’atto in cui teneva contro la luce un
ventaglio di madreperla iridescente”.
Sulla
“Tribuna” dell’11 dicembre 1884 D’Annunzio pubblicò, nella
rubrica “Giornate romane”, l’articolo “La cronachetta delle
pellicce”, un ritratto di nobili signore che sono solite passare per la
via del Corso nelle loro carrozze, tra le quattro e le cinque del
pomeriggio. D’Annunzio le descrive “pallide, per lo più nascoste
da un velo denso, sprofondate nella mollezza delle pellicce. Salutano
lentamente; sorridono debolmente; lasciano che la testa dondoli al moto
delle ruote; talvolta paiono assopite, e paiono non avere più forme,
sotto l’amplitudine dei mantelli”. D’Annunzio è catturato dai
mantelli di lontra ornati di castoro biondo, indossati dalle nobili
signore, che lasciano scoprire una particolare bellezza della donna: “Nulla
è più signorilmente voluttuoso che una pelliccia di lontra già da
qualche tempo usata. Allora le pelli consentono a tutte le pieghevolezze
del corpo femminile; ma non con la leggera aderenza della seta e del raso,
si bene con una certa gravità non priva di grazie e di quelle dolci
grazie che li animali forniti di ricco pelame hanno nei loro movimenti
furtivi. Sempre una specie di lampo, una specie di lucidità repentina
precede od accompagna il movimento, e da al movimento una strana
bellezza”.
Divieto di
lusso: le leggi suntuarie
(Silvia Cutuli) - Si dicono “leggi suntuarie”, le
disposizioni contrarie al lusso, che arrivano a sanzionare la scomunica di
chi non ne rispetta il contenuto.
Le origini di tali
disposizioni sono antichissime; i divieti originari previsti, partono da
un concetto di uguaglianza e riguardano le manifestazioni del lusso quali:
gioielli, stoffe, lunghezza degli strascichi. Già nel primo documento
legislativo romano di cui si abbia notizia, le XII Tavole, si ha una
limitazione per le vesti di lutto. Ricordiamo Cesare che emanò una legge
che vietava l’uso di manti di porpora, di perle ad eccezione di certe età
e di rango, ma non per agli uomini. In Italia nel duecento compaiono le
prime leggi suntuarie, ad esempio in Sicilia la prima è opera di Carlo
D’Angiò del 1272.
All’inizio del
1300 è contemplato il lusso delle vesti e degli ornamenti femminili, ad
eccezione di pettorali, monili e fregi che però non eccedano dieci libre
di denari. Successive riforme della metà del 1330, si rivolgono tanto
agli uomini che alle donne, con divieti che non riguardano solo il lusso
di ori, argenti, perle e pietre preziose (del quale il limite è portato a
una cifra pari a più del doppio della precedente), ma degli strascichi di
vesti e mantelli e delle vesti a diversi colori.
C’è da
considerare però, che gli estensori delle leggi suntuarie fanno parte
delle classi privilegiate e, con il passare del tempo, finiranno per
imporre divieti alla popolazione, riservando il lusso a sé stessi. Sono
inoltre uomini e per questo in rari casi i divieti li interesseranno.
Nel 1506 a Perugia
si stabilisce una sorta di stratificazione sociale sulla base degli sfoggi
permessi o limitati o proibiti, lasciando libertà di lusso per “li
gentilhomini legitimi et naturali che hanno dominio de doi castelli o più”,
le donne “dé Cavalieri e dé Judici e dè Medici fisici”
possono portare bottoni dorati (per le altre vale la limitazione ai
bottoni argentati e che non superano i 40 soldi di valore).
Altre usanze
vengono comprese nel lusso per gli sprechi che causavano, così si impone
l’uso di un solo panno per cappelli e vesti, l’uso di un particolare
tessuto di seta, lo sciamito.
Fino al settecento
si trovano leggi che vietano il lusso, l’ultima disposizione apparsa è
del 1824 sotto forma di editto sul vestire a Roma.
Per i
disubbidienti le multe imposte erano a volte assai salate; in alcuni casi
invece era garantita una certa permissività. Esempio è la città di
Venezia che per fini politico economici, permette il lusso senza
limitazione a dogi, alla dogaressa e alle persone della famiglia nonché
al patriziato, in occasione di visite di sovrani stranieri, che si
vogliono abbagliare con lo sfoggio di ricchezza di una delle città più
importanti d’Italia.
Curiosa, e forse
unica disposizione suntuaria che ha riscosso nel corso del tempo successo,
è quella che impone che le gondole della città di Venezia siano di
colore nero, “senza ornamenti né pittura alcuna”. |