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Sommario anno XII numero 4 - aprile 2003

 COSTUME E SOCIETÀ
L’infinito alfabeto della fotografia
(Silvia Cutuli) - Franco Lefevre, esperto di immagine, ha tenuto una lezione all’Accademia di Costume e di Moda di Roma. Lefevre ci trasmette l’arte del fotografare, in un momento in cui in Italia la fotografia vive “assonnata”. Sa crederci ancora e ne parla come fosse una fede, con convinzione nel suo potenziale.

La storia di questa invenzione ci insegna l’importanza della foto come testimonianza del tempo. Il Conte Primori, nobile romano, documenta la vita di fine ottocento a Roma, come Gabriele D’Annunzio fa nelle cronache mondane. Immagini lontane da noi, che fanno rivivere lo spirito di quei tempi: nasce la fotografia sociale, il fotografo è nel tempo. Primori è antesignano di quel “giornalismo fotografico” che documenta l’attimo di contatto con la realtà, diventa testimone del tempo con immediatezza. Soltanto il fotografo dispone tra i molti scatti, dell’immagine che fa la differenza e cambierà l’esperienza di tutti.
Giornalismo non è più raccontare ma vedere, la macchina fotografica parla.
Cosa ci dice una fotografia?
È qui che Lefevre, con il suo vivere avvinghiato alla fotografia, apre un nuovo orizzonte per i nostri occhi, abituati a guardare il proprio ritratto, interrogandosi poco, stupendosi ancor meno. Si guarda all’immagine, alla bellezza apparente, non riuscendo a cogliere l’oltre. L’”oltre” il tempo e lo spazio che resta imprigionato nello scatto, in quel senso di meraviglia, che suscita in noi la visione di una fotografia; c’è un “oltre” che vive nell’estemporaneità.
Il fotografo nello scatto, vive come una mimesi estesa con il soggetto da ritrarre, ne coglie tutti gli aspetti espressivi, scava nella personalità.
Può partire con un senso già idealizzato di ciò che vuole ritrarre, proiettando nella situazione ciò che cerca. Lo trova, riesce ad imprimerlo sulla pellicola.
In tal caso noi non vedremmo solo i contorni di un volto, ma un abile gioco, un riuscito tentativo di aggrapparsi ad un’idea e tradurla in un’espressione visiva. Sarà confermata la sua interpretazione del momento.
La mia chiave di lettura dell’incontro con Lefevre, è racchiusa nella definizione di fotografia come: “superchimica dell’elemento umano”. Cosa succede se si cambia la formula? Accade che il fotografo, come il chimico di laboratorio, sperimenta. 
La fotografia trasforma la realtà in un mondo a sé: può scoprire un volto nuovo che il soggetto non conosceva. Coglie gli stati d’animo e li rende in un colore, in un gioco d’ombra e di luce, nei contorni mossi che mancano di un riferimento immediato.
Rende le sensazioni, come l’estemporaneo che non si può categorizzare.
La fotografia di cui ci ha parlato Lefevre, è fatta di un alfabeto infinito, in cui non è dato di conoscere una fantomatica lettera “z”, perché ogni qualvolta ci si avvicina la fotografia fugge e si situa nell’irrazionale.
Le sensazioni, per il fatto di essere tali, non sono soggette a definizione assoluta ma in continuo movimento verso altre forme: la fotografia è ricerca, un appunto visivo che si rigenera, che può avventurarsi in molteplici direzioni.

Cronache mondane di Gabriele D’Annunzio
(Silvia Cutuli) - Nel dicembre del 1884 Gabriele D’Annunzio, ventunenne, è a Roma dove si è da poco unito in matrimonio alla contessina Maria Hardouin Gallese.  Le nozze, avversate dalla famiglia di lei, fecero notevole scandalo nella Roma “bene”.  Sarà la famiglia Hardouin, in seguito, a procurare un incarico a D’Annunzio presso il quotidiano “La Tribuna”. D’Annunzio inizia la sua collaborazione al giornale nel dicembre 1884; pubblicando diversi articoli a sua firma inerenti argomenti di tono elevato, utilizzando invece numerosi pseudonimi per le pubblicazioni nelle rubriche.

D’Annunzio si interessò soprattutto alla cronaca mondana contenuta nelle rubriche “Giornate romane”, “Cronache romane”, “La vita a Roma”.
I suoi critici lo dipingevano come “l’unico scrittore contemporaneo in grado di consigliare una dama nell’acquisto di damaschi e broccati”, ma D’Annunzio non se ne curava molto e, deciso com’era a far risaltare la bellezza di una donna, prese a descriverne le vesti.
Con lo pseudonimo Vere de Vere, nel 1884 mise a confronto la bellezza bionda e l’eleganza della regina Margherita con quella della sua dama d’onore Duchessa Cesarini Sforza, apparse nel palco reale del Teatro Apollo di Roma:
“Un vero trionfo di bellezza l’ebbe, iersera, S.M. la Regina. Aveva un abito di broccato candido, chiuso intorno al collo, semplice molto; e sui capelli alcune rose thee. In quella semplicità le regali grazie luminavano più vive. Accanto alla Regina bionda e chiara, sedeva la duchessa Sforza Cesarini, vestita d’un abito nero tutto tempestato di rabeschi, di brillanti, nobilissima nell’atto in cui teneva contro la luce un ventaglio di madreperla iridescente”.
Sulla “Tribuna” dell’11 dicembre 1884 D’Annunzio pubblicò, nella rubrica “Giornate romane”, l’articolo “La cronachetta delle pellicce”, un ritratto di nobili signore che sono solite passare per la via del Corso nelle loro carrozze, tra le quattro e le cinque del pomeriggio. D’Annunzio le descrive “pallide, per lo più nascoste da un velo denso, sprofondate nella mollezza delle pellicce. Salutano lentamente; sorridono debolmente; lasciano che la testa dondoli al moto delle ruote; talvolta paiono assopite, e paiono non avere più forme, sotto l’amplitudine dei mantelli”. D’Annunzio è catturato dai mantelli di lontra ornati di castoro biondo, indossati dalle nobili signore, che lasciano scoprire una particolare bellezza della donna: “Nulla è più signorilmente voluttuoso che una pelliccia di lontra già da qualche tempo usata. Allora le pelli consentono a tutte le pieghevolezze del corpo femminile; ma non con la leggera aderenza della seta e del raso, si bene con una certa gravità non priva di grazie e di quelle dolci grazie che li animali forniti di ricco pelame hanno nei loro movimenti furtivi. Sempre una specie di lampo, una specie di lucidità repentina precede od accompagna il movimento, e da al movimento una strana bellezza”.

Divieto di lusso: le leggi suntuarie
(Silvia Cutuli) - Si dicono “leggi suntuarie”, le disposizioni contrarie al lusso, che arrivano a sanzionare la scomunica di chi non ne rispetta il contenuto.

Le origini di tali disposizioni sono antichissime; i divieti originari previsti, partono da un concetto di uguaglianza e riguardano le manifestazioni del lusso quali: gioielli, stoffe, lunghezza degli strascichi. Già nel primo documento legislativo romano di cui si abbia notizia, le XII Tavole, si ha una limitazione per le vesti di lutto. Ricordiamo Cesare che emanò una legge che vietava l’uso di manti di porpora, di perle ad eccezione di certe età e di rango, ma non per agli uomini. In Italia nel duecento compaiono le prime leggi suntuarie, ad esempio in Sicilia la prima è opera di Carlo D’Angiò del 1272.
All’inizio del 1300 è contemplato il lusso delle vesti e degli ornamenti femminili, ad eccezione di pettorali, monili e fregi che però non eccedano dieci libre di denari. Successive riforme della metà del 1330, si rivolgono tanto agli uomini che alle donne, con divieti che non riguardano solo il lusso di ori, argenti, perle e pietre preziose (del quale il limite è portato a una cifra pari a più del doppio della precedente), ma degli strascichi di vesti e mantelli e delle vesti a diversi colori.
C’è da considerare però, che gli estensori delle leggi suntuarie fanno parte delle classi privilegiate e, con il passare del tempo, finiranno per imporre divieti alla popolazione, riservando il lusso a sé stessi. Sono inoltre uomini e per questo in rari casi i divieti li interesseranno.
Nel 1506 a Perugia si stabilisce una sorta di stratificazione sociale sulla base degli sfoggi permessi o limitati o proibiti, lasciando libertà di lusso per “li gentilhomini legitimi et naturali che hanno dominio de doi castelli o più”, le donne “dé Cavalieri e dé Judici e dè Medici fisici” possono portare bottoni dorati (per le altre vale la limitazione ai bottoni argentati e che non superano i 40 soldi di valore).
Altre usanze vengono comprese nel lusso per gli sprechi che causavano, così si impone l’uso di un solo panno per cappelli e vesti, l’uso di un particolare tessuto di seta, lo sciamito.
Fino al settecento si trovano leggi che vietano il lusso, l’ultima disposizione apparsa è del 1824 sotto forma di editto sul vestire a Roma.
Per i disubbidienti le multe imposte erano a volte assai salate; in alcuni casi invece era garantita una certa permissività. Esempio è la città di Venezia che per fini politico economici, permette il lusso senza limitazione a dogi, alla dogaressa e alle persone della famiglia nonché al patriziato, in occasione di visite di sovrani stranieri, che si vogliono abbagliare con lo sfoggio di ricchezza di una delle città più importanti d’Italia.
Curiosa, e forse unica disposizione suntuaria che ha riscosso nel corso del tempo successo, è quella che impone che le gondole della città di Venezia siano di colore nero, “senza ornamenti né pittura alcuna”.
 COSTUME E SOCIETÀ

Sommario anno XII numero 4 - aprile 2003