Dio gioca a dadi?
(Luca Nicotra) - Erano molti anni che non andavo più a
trovare i miei genitori al cimitero. Di questo non mi sono mai sentito in
colpa, così come non mi sento in colpa di non andare quasi mai in chiesa,
pur essendo molto religioso. Sono sempre stato un panteista, e sento più
Dio nella contemplazione estasiata e commossa del perenne spettacolo della
Natura, che non all’interno delle nostre chiese, che quasi sempre sono
un monumento alla grandiosità architettonica, all’ingegno dell’uomo e
al lusso più ostentato, quando non sono un palese retaggio di antichi
edifici romani, spesso adibiti ad usi ben diversi dal culto religioso. Per
ricordare e onorare i miei cari, non è, per me, necessario trovarmi di
fronte a una fredda lastra di marmo, al di là della quale sono soltanto
le cellule dei loro tessuti ossei, rimasti immuni dal processo di
decomposizione della materia organica.
La memoria dei
miei genitori è viva in me ogni giorno, nel segreto del mio cuore.
Preferisco ricordarli vivi, con tutti i loro pregi e difetti, e, nel mio
immaginario, rivolgermi a loro come se tali fossero ancora, piuttosto che
parlare a scheletri privi di espressione e di anima. Tuttavia, alcuni
giorni fa mi è capitato di trovarmi nelle vicinanze di Prima Porta, e
improvvisamente ho sentito il desiderio di visitare ciò che rimaneva
della corporeità dei miei genitori e così mi sono diretto al Cimitero
Flaminio, dove riposano. Trovai subito la cappella dove si trova mio
padre, pur non ricordandone i riferimenti precisi, perché situata in un
edificio facilmente riconoscibile. Quella di mia madre, invece, non
riuscivo a trovarla, perché, al contrario, non ricordavo i riferimenti
topologici della sua ubicazione e non c’erano nelle sue vicinanze
elementi architettonici o paesaggistici particolari che potessero farmi da
guida. Ricordavo vagamente l’edificio dove era stata tumulata la sua
tomba; così mi avventurai nella sua ricerca. In realtà scoprii che
esistevano, sempre nella stessa zona, ben quattro edifici uguali a quello
che ricordavo. Tuttavia, non mi scoraggiai e decisi, con la pazienza che
soltanto il desiderio di ritrovarla mi dava, di perlustrare i due piani di
ciascuno dei quattro edifici, sicuro che prima o poi l’avrei trovata.
Poiché non ricordavo nemmeno la fila del loculo, entrato in ciascuna
cappella, non mi restava che guardare ogni singola lapide, nella speranza
di leggervi al più presto il nome di mia madre. Ma nonostante la mia
scrupolosa e attenta ricerca, non riuscivo a trovarla. Stetti ben due ore
a peregrinare all’interno di quei tristi edifici, in un orario, quello
del pranzo, in cui ero rimasto quasi l’unico visitatore.
Dapprima davo una
rapida occhiata alle lapidi, giusto il tempo di assicurarmi che non
v’era scritto il nome di mia madre. Ma, dopo non molto tempo, caddi
vittima della mia curiosità e finii con interessarmi sempre più a quei
defunti per me sconosciuti, soffermandomi a guardarne le fotografie, a
leggerne gli epitaffi, spesso grondanti di straziante dolore, scritti su
lucide lastre marmoree appoggiate alle mensole delle loro tombe. Mi
ritrovai così, ben presto, immerso in una foresta di fiori variopinti, di
lucette tombali, di piccoli carillon, occhieggiato e chiamato dai mille
sguardi delle fotografie dei defunti. Quasi dimenticai mia madre e il mio
dolore personale, schiacciato dal dolore universale di tutta
quell’inerte popolazione di persone che fino a qualche tempo prima erano
state vive, come me, con la loro personalità, i loro sentimenti, le loro
famiglie, la loro cultura, le loro gioie e dolori, le loro speranze, i
loro progetti, i loro amori, i loro sforzi, i loro problemi grandi e
piccoli. Alcuni di loro, forse, erano state persone importanti nella
società umana, altri meno o per nulla, ma tutti avevano avuto una loro
storia e un’esistenza interiore, oltre che fisica. Alcune fotografie,
degli anonimi e silenziosi abitanti di quella lunga teoria di angusti e
gelidi spazi allineati con geometrica precisione, parlavano di donne belle
e giovani, di bambini strappati tragicamente e prematuramente al calore
della vita. Era un grido di dolore che sentivo levarsi a destra, a
sinistra, in alto e in basso, ovunque volgessi lo sguardo. Era il pianto
della disperazione, dello sgomento, dell’annebbiamento della ragione di
fronte all’eterno baratro che divide con spietata risolutezza la vita
dalla morte, la memoria dall’oblio, il movimento dalla stasi, il caldo
dal freddo, la presenza dall’assenza, la certezza dal dubbio. Ho sentito
ancora una volta quanto debole e insicura sia la nostra fede di cristiani.
Se veramente forte fosse la nostra fede, dovremmo gioire della morte,
perché essa coincide con l’inizio della vera vita. E invece anche i più
credenti vacillano di fronte al dubbio del nulla. Mi sentivo tirato di qua
e di là da quegl’invisibili ospiti. Era come se ognuno reclamasse la
sua parte di attenzione. Allora mi sono venute in mente le parole dette
una volta da un nostro illustre fisico, Edoardo Amaldi, in sostegno al
punto di vista probabilistico piuttosto che deterministico nella scienza
contemporanea: “Dio gioca a dadi”. Ma, in quel luogo, accerchiato da
tutte quelle vite umane, ora spente, ma un tempo vissute con tanta
complessità e affettività, mi
chiedevo se veramente era accettabile, dal punto di vista umano e
filosofico, l’idea che tutto il creato e la vita di ognuno di noi siano
il risultato di una combinazione casuale di elementi di varia natura. E
tutta la complessità armoniosamente e meravigliosamente organizzata della
materia vivente, la presenza nell’uomo di un’intelligenza creativa o
inventiva, lo sviluppo, nella storia universale dell’umanità e
individuale dei singoli, di una spiritualità che ha spesso raggiunto
vette altissime, i mille affanni dell’uomo che rendono possibile la sua
crescita fisica e spirituale, tutto è frutto, felice, ma pur sempre
casuale del caso? Una simile risposta era per me inaccettabile in quel
luogo, alla presenza di quei defunti, le cui steli funerarie reclamavano
una precisa e non casuale identità personale per i loro tristi ospiti.
Dio gioca a dadi?
È come pensare
che sia possibile comporre correttamente un puzzle formato da miliardi e
miliardi di piccolissime tessere lanciandole in aria! Perché il creato e
la vita umana sono proprio come puzzle composti di una miriade
inimmaginabile di microscopiche tessere.
Erano le tre del
pomeriggio, e ancora non avevo trovato la tomba di mia madre. Ma per me
non aveva più tanta importanza. Quasi mi vergognavo del mio egoistico
dolore personale dinanzi al dolore di tutta quell’infelice popolazione
che mi circondava. Nel congedarmi da essa, mi vennero in mente i versi dei
Sepolcri di Ugo Foscolo:
“All’ombra
dei cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro?
Unico spirto a mia
vita raminga,
Qual fia ristoro
a’ dì perduti un sasso
Che distingua le
mie dalle infinite
Ossa che in terra
e in mar semina morte?
Vero è ben,
Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge
i sepolcri; e involve
Tutte cose l’obblio
nella sua notte;
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne dei forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta.”
e ho capito che
non è sufficiente la memoria individuale dei nostri defunti, quella dei
miei immaginari incontri con i miei genitori. Il monito foscoliano
dell’importanza dei sepolcri, di tutti i sepolcri, e non solo
dell’urne dei forti, vale a dire dei grandi uomini, è sempre valido, se
non altro per ricordarci che il nostro dolore è lo stesso di tutti gli
altri. |