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Sommario anno XII numero 4 - aprile 2003

 I NOSTRI SENTIMENTI
Dio gioca a dadi?
(Luca Nicotra) - Erano molti anni che non andavo più a trovare i miei genitori al cimitero. Di questo non mi sono mai sentito in colpa, così come non mi sento in colpa di non andare quasi mai in chiesa, pur essendo molto religioso. Sono sempre stato un panteista, e sento più Dio nella contemplazione estasiata e commossa del perenne spettacolo della Natura, che non all’interno delle nostre chiese, che quasi sempre sono un monumento alla grandiosità architettonica, all’ingegno dell’uomo e al lusso più ostentato, quando non sono un palese retaggio di antichi edifici romani, spesso adibiti ad usi ben diversi dal culto religioso. Per ricordare e onorare i miei cari, non è, per me, necessario trovarmi di fronte a una fredda lastra di marmo, al di là della quale sono soltanto le cellule dei loro tessuti ossei, rimasti immuni dal processo di decomposizione della materia organica.

La memoria dei miei genitori è viva in me ogni giorno, nel segreto del mio cuore. Preferisco ricordarli vivi, con tutti i loro pregi e difetti, e, nel mio immaginario, rivolgermi a loro come se tali fossero ancora, piuttosto che parlare a scheletri privi di espressione e di anima. Tuttavia, alcuni giorni fa mi è capitato di trovarmi nelle vicinanze di Prima Porta, e improvvisamente ho sentito il desiderio di visitare ciò che rimaneva della corporeità dei miei genitori e così mi sono diretto al Cimitero Flaminio, dove riposano. Trovai subito la cappella dove si trova mio padre, pur non ricordandone i riferimenti precisi, perché situata in un edificio facilmente riconoscibile. Quella di mia madre, invece, non riuscivo a trovarla, perché, al contrario, non ricordavo i riferimenti topologici della sua ubicazione e non c’erano nelle sue vicinanze elementi architettonici o paesaggistici particolari che potessero farmi da guida. Ricordavo vagamente l’edificio dove era stata tumulata la sua tomba; così mi avventurai nella sua ricerca. In realtà scoprii che esistevano, sempre nella stessa zona, ben quattro edifici uguali a quello che ricordavo. Tuttavia, non mi scoraggiai e decisi, con la pazienza che soltanto il desiderio di ritrovarla mi dava, di perlustrare i due piani di ciascuno dei quattro edifici, sicuro che prima o poi l’avrei trovata. Poiché non ricordavo nemmeno la fila del loculo, entrato in ciascuna cappella, non mi restava che guardare ogni singola lapide, nella speranza di leggervi al più presto il nome di mia madre. Ma nonostante la mia scrupolosa e attenta ricerca, non riuscivo a trovarla. Stetti ben due ore a peregrinare all’interno di quei tristi edifici, in un orario, quello del pranzo, in cui ero rimasto quasi l’unico visitatore.
Dapprima davo una rapida occhiata alle lapidi, giusto il tempo di assicurarmi che non v’era scritto il nome di mia madre. Ma, dopo non molto tempo, caddi vittima della mia curiosità e finii con interessarmi sempre più a quei defunti per me sconosciuti, soffermandomi a guardarne le fotografie, a leggerne gli epitaffi, spesso grondanti di straziante dolore, scritti su lucide lastre marmoree appoggiate alle mensole delle loro tombe. Mi ritrovai così, ben presto, immerso in una foresta di fiori variopinti, di lucette tombali, di piccoli carillon, occhieggiato e chiamato dai mille sguardi delle fotografie dei defunti. Quasi dimenticai mia madre e il mio dolore personale, schiacciato dal dolore universale di tutta quell’inerte popolazione di persone che fino a qualche tempo prima erano state vive, come me, con la loro personalità, i loro sentimenti, le loro famiglie, la loro cultura, le loro gioie e dolori, le loro speranze, i loro progetti, i loro amori, i loro sforzi, i loro problemi grandi e piccoli. Alcuni di loro, forse, erano state persone importanti nella società umana, altri meno o per nulla, ma tutti avevano avuto una loro storia e un’esistenza interiore, oltre che fisica. Alcune fotografie, degli anonimi e silenziosi abitanti di quella lunga teoria di angusti e gelidi spazi allineati con geometrica precisione, parlavano di donne belle e giovani, di bambini strappati tragicamente e prematuramente al calore della vita. Era un grido di dolore che sentivo levarsi a destra, a sinistra, in alto e in basso, ovunque volgessi lo sguardo. Era il pianto della disperazione, dello sgomento, dell’annebbiamento della ragione di fronte all’eterno baratro che divide con spietata risolutezza la vita dalla morte, la memoria dall’oblio, il movimento dalla stasi, il caldo dal freddo, la presenza dall’assenza, la certezza dal dubbio. Ho sentito ancora una volta quanto debole e insicura sia la nostra fede di cristiani. Se veramente forte fosse la nostra fede, dovremmo gioire della morte, perché essa coincide con l’inizio della vera vita. E invece anche i più credenti vacillano di fronte al dubbio del nulla. Mi sentivo tirato di qua e di là da quegl’invisibili ospiti. Era come se ognuno reclamasse la sua parte di attenzione. Allora mi sono venute in mente le parole dette una volta da un nostro illustre fisico, Edoardo Amaldi, in sostegno al punto di vista probabilistico piuttosto che deterministico nella scienza contemporanea: “Dio gioca a dadi”. Ma, in quel luogo, accerchiato da tutte quelle vite umane, ora spente, ma un tempo vissute con tanta complessità e affettività,  mi chiedevo se veramente era accettabile, dal punto di vista umano e filosofico, l’idea che tutto il creato e la vita di ognuno di noi siano il risultato di una combinazione casuale di elementi di varia natura. E tutta la complessità armoniosamente e meravigliosamente organizzata della materia vivente, la presenza nell’uomo di un’intelligenza creativa o inventiva, lo sviluppo, nella storia universale dell’umanità e individuale dei singoli, di una spiritualità che ha spesso raggiunto vette altissime, i mille affanni dell’uomo che rendono possibile la sua crescita fisica e spirituale, tutto è frutto, felice, ma pur sempre casuale del caso? Una simile risposta era per me inaccettabile in quel luogo, alla presenza di quei defunti, le cui steli funerarie reclamavano una precisa e non casuale identità personale per i loro tristi ospiti. Dio gioca a dadi?
È come pensare che sia possibile comporre correttamente un puzzle formato da miliardi e miliardi di piccolissime tessere lanciandole in aria! Perché il creato e la vita umana sono proprio come puzzle composti di una miriade inimmaginabile di microscopiche tessere.
Erano le tre del pomeriggio, e ancora non avevo trovato la tomba di mia madre. Ma per me non aveva più tanta importanza. Quasi mi vergognavo del mio egoistico dolore personale dinanzi al dolore di tutta quell’infelice popolazione che mi circondava. Nel congedarmi da essa, mi vennero in mente i versi dei Sepolcri di Ugo Foscolo:

            “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne
            Confortate di pianto è forse il sonno
            Della morte men duro?

Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l’obblio nella sua notte;

            A egregie cose il forte animo accendono
            L’urne dei forti, o Pindemonte; e bella
            E santa fanno al peregrin la terra
            Che le ricetta.”


e ho capito che non è sufficiente la memoria individuale dei nostri defunti, quella dei miei immaginari incontri con i miei genitori. Il monito foscoliano dell’importanza dei sepolcri, di tutti i sepolcri, e non solo dell’urne dei forti, vale a dire dei grandi uomini, è sempre valido, se non altro per ricordarci che il nostro dolore è lo stesso di tutti gli altri.
 I NOSTRI SENTIMENTI

Sommario anno XII numero 4 - aprile 2003