I
media
(Dario Molinari) - Quando si intraprende un discorso sui media e
sulle loro attuali programmazioni bisognerebbe sgomberare la mente da
deleteri pregiudizi e da fittizie critiche al gusto medio che non ne
determinano in assoluto un crisma.
Le nuove forme estetiche si inseriscono in un contesto sociale in cui
massa e pubblico sono entità difficilmente individuabili e arte e sua
fruizione sono solo apparentemente liberi e consapevoli. “L’irrequietezza
e la vivacità di individui geniali fa si che a loro non basti il presente
l’attuale o l’ordinario..., l’ordinario invece avendo intorno a sè
una miriade di suoi simili, figli della terra, possiede quello speciale
benessere vitale che al genio è negato”.
Shopenauer riesce a definire queste opposte dimensioni raschiando dal
fondo il senso dell’evoluzione mediatica in atto. Solo individui di
grande senso critico e di particolare sensibilità estetica riescono
infatti a tenersi fuori dal tunnel degenerativo delle odierne
programmazioni. Noi del resto, popolo e contadinanza multiforme, non più
pubblico, ci crogioliamo nel grande nulla o poco meno offertoci da
emittenti radiofoniche, televisive e carta stampata periodica alla ricerca
di ciò che in realtà vogliamo: nulla o poco meno. Al mantenimento di una
assoluta aristocraticità del gusto estetico non si è sostituito,
purtroppo, un processo di democraticizzazione e progressismo delle forme,
quindi una loro maggiore disponibilità, ma sono cambiate, ex abrupto,
proprio quest’ultime. Ecco montare allora il dilemma: meglio estraniarsi
nella ricerca della propria personale soddisfazione estetica o meglio
invece annegare il proprio senso d’angoscia con gli antidoti per il
pensiero propinatici da questi mezzi? In questo senso non esiste una terza
via compromissoria, non plus ultra dell’ipocrisia, e neppure una
soluzione, che se c’è alberga remota dentro ognuno di noi. Tolstoj si
chiedeva cosa fosse l’arte estrapolandone due concetti fondamentali: “comprensibilità
dell’opera, e identità di contenuti con il pubblico cui l’opera è
destinata. Attraverso il consenso l’arte cerca di recuperare il popolo,
cancella l’opposizione del lavoro e realizza la felicità dell’uomo”.
Ora, asserire che vi sia dell’arte in quello che passa attraverso i
nostri tubi catodici o credere che quel senso di annegamento dei pensieri
sia la felicità è abbastanza utopico, ma pensare che la realtà dei
fatti non si discosti più di tanto da questa reverie non è del
tutto campato in aria. Nell’età del capitalismo capillare, lontani
oramai dal neorealismo ante litteram dei Lumière non resta che scegliere,
ma questa libertà, perché una scelta è libertà, viene non voluta, che
costa più fatica di quanto non sembri. |