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Sommario anno XII numero 8 - agosto 2003

 SCIENZA

Le ipotesi non euclidee   (2a puntata)
(Luca Nicotra ) - Prima parte Struttura logica della geometria

5.Le grandezze incommensurabili e la crisi della monade pitagorica.
Figura 6 – G.F. Bernhard RiemannIntorno al 410 a.C. , in seno alla Scuola Pitagorica, accadde un evento scientifico di portata dirompente nei confronti del pensiero geometrico e scientifico in generale: la scoperta delle grandezze incommensurabili. Esso gettò nello scompiglio la mentalità greca di quei tempi, che era fondata sulla concezione della misura (ratio in latino) e dell’armonia delle misure delle figure geometriche. In particolare, è ben noto che la Scuola Pitagorica aveva elaborato una concezione “cosmologica” del numero come inizio e costituente di tutte le cose, proprio in quanto era associato ad un concetto di punto materiale esteso, la monade pitagorica, di cui ogni cosa materiale era formata. La scoperta dell’esistenza di grandezze incommensurabili ebbe due grandi ripercussioni: da una parte, in aritmetica, la consapevolezza, però mai accettata dai greci, dell’esistenza di numeri non razionali, detti dai greci  αλογος (alogos) = non esprimibili, vale a dire non esprimibili come rapporti fra grandezze geometriche e quindi, come vedremo, la comparsa in matematica del concetto d’infinito; dall’altra parte, in geometria, l’abbandono della concezione materialistica degli enti geometrici e il passaggio all’idea astratta di punto, retta, piano e di tutte le altre figure geometriche.
Vediamo, in dettaglio, come si arrivò a questa mirabile scoperta, anche perché questo è un esempio eclatante di come il caso giochi spesso un ruolo di primo piano nella storia di molte grandi scoperte scientifiche.
Premettiamo e ricordiamo ai lettori una semplice, ma fondamentale, nozione appresa nel corso dei loro studi scolastici di matematica: la misura di una grandezza è il rapporto fra questa e un’altra grandezza della stessa specie, che, per la funzione svolta, è detta unità di misura. Così, dire che una lunghezza misura 12 metri significa dire che il rapporto fra essa e la lunghezza campione “metro” è 12, ovvero che essa contiene 12 volte la lunghezza metro. Figura 7 – Janos BolyaiL’espressione (A/B) = p, dunque, equivale ad affermare che la misura di A rispetto a B è il numero p, ovvero che A contiene p volte B come si evince dall’espressione da essa derivata A = p B . I termini misura e rapporto sono dunque sinonimi.
Due grandezze A e B si dicono commensurabili se ammettono un sottomultiplo comune, detto anche “comune misura” (da cui il termine commensurabile), vale a dire una grandezza che possa essere utilizzata come unità di misura sia per A sia per B. Si tenga presente che, in particolare, il sottomultiplo comune può essere una delle due grandezze, in quanto ciascuna grandezza è sottomultipla di se stessa secondo l’unità.
Cominciamo da quest’ultimo caso particolare, che è senz’altro il più fortunato. Il sottomultiplo comune ad A e B sia una delle due grandezze stesse, per esempio B, contenuta una volta in se stessa e n volte in A. Possiamo allora scrivere:

(1) A = n B
relazione che esprime che A contiene n volte B.
Nel caso più generale, e più sfortunato, invece, nessuna delle due grandezze A e B è contenuta un numero intero di volte nell’altra e quindi non può considerarsi un sottomultiplo comune; però esiste sicuramente, avendo supposto le grandezze commensurabili, una terza grandezza C che è sottomultipla comune di A e B, essendo, per esempio, contenuta n volte in A e m volte in B. In tal caso si può scrivere:

(2) A = n C, B = m C
da cui dividendo membro a membro si ottiene:

(3) A / B = n/m
ovvero

(3’) A = (n/m) B = n (B/m).
È chiaro che le (2) esprimono in formule la commensurabilità fra A e B, poiché da esse risulta che queste ammettono come sottomultiplo comune la grandezza C, che quindi può essere assunta come unità di misura sia per A sia per B.
È interessante notare che in matematica accade abbastanza frequentemente che formule equivalenti (cioè deducibili l’una dall’altra), ma formalmente diverse, pongano in evidenza aspetti differenti della stessa proprietà; pertanto la diversità formale è proficua, perché produce significati diversi della stessa realtà matematica.
Figura 8 – Bertrand RussellNel nostro caso, le (3) e (3’), che sono equivalenti alle (2) perché da esse derivate e ad esse riconducibili, esprimono anch’esse la commensurabilità fra A e B, ma mettono in evidenza aspetti non palesi nelle (2).
Infatti la (3) contiene un risultato molto importante: se due grandezze A e B sono commensurabili, allora la misura dell’una rispetto all’altra (cioè il rapporto A/B) è un numero intero (se m = 1) o frazionario (se n = m). Quest’affermazione, con una dimostrazione che omettiamo per ovvie ragioni, è invertibile: un numero intero o frazionario può sempre interpretarsi come misura fra grandezze commensurabili. Proprio perché possono esprimere misure, cioè rapporti fra grandezze commensurabili, i numeri interi e frazionari costituiscono il campo dei numeri razionali (dal latino ratio = rapporto).
La prima forma delle (3’) ci autorizza anche a dire che se due grandezze sono commensurabili, allora è possibile esprimere una delle due come prodotto dell’altra per un numero razionale n/m, e inoltre la seconda forma delle (3’) mostra che se A e B sono commensurabili, allora la grandezza A contiene n volte la m_esima parte di B, riducendosi come caso particolare alla (1) quando è m = 1. Si può dimostrare che anche queste asserzioni sono invertibili: se è possibile esprimere una di due grandezze come prodotto dell’altra per un numero razionale, allora le due grandezze sono commensurabili; se la m_esima parte di B è contenuta n volte in A , allora A e B sono commensurabili.
In matematica, quando una proposizione è invertibile, cioè si possono scambiare l’antecedente con il conseguente, in altri termini l’ipotesi con la tesi, si dice che essa costituisce una proprietà “caratteristica”, proprio nel senso comune di “esclusiva”, oppure che è una condizione necessaria e sufficiente.
Dunque le (3) e (3’) esprimono, in formule, la proprietà caratteristica della commensurabilità fra A e B.
Come vanno le cose, invece, per le grandezze incommensurabili? Esattamente all’opposto che per quelle commensurabili:
·due grandezze A e B si dicono incommensurabili se non ammettono nessun sottomultiplo comune, vale a dire se non esiste una grandezza che possa essere utilizzata come unità di misura sia per A sia per B;
·il rapporto fra due grandezze incommensurabili non è un numero razionale (intero o frazionario) e viceversa un numero non razionale è il rapporto fra due grandezze incommensurabili;
·se due grandezze sono incommensurabili, allora non è possibile esprimere una delle due come prodotto dell’altra per un numero razionale e, viceversa, se non è possibile esprimere una di due grandezze come prodotto dell’altra per un numero razionale, allora le due grandezze sono incommensurabili.
Non è inutile sottolineare che i concetti di commensurabilità e incommensurabilità sono “relativi”, vale a dire coinvolgono sempre reciprocamente due grandezze. In altri termini, non ha senso affermare che una grandezza è commensurabile o incommensurabile senza riferirla ad un’altra grandezza.
Figura 9 – Benjamin PeirceI matematici greci erano essenzialmente geometri puri, vale a dire affrontavano i problemi geometrici con metodi esclusivamente geometrici (geometria sintetica), a differenza dei matematici moderni che, usualmente, applicano il calcolo alla geometria (geometria analitica). Dal punto di vista del calcolo, per loro esistevano soltanto i rapporti fra le grandezze geometriche, i numeri interi positivi e le frazioni positive. I matematici greci, pur essendo costretti a riconoscere l’esistenza di grandezze fra loro incommensurabili (per esempio lato e diagonale del quadrato, ipotenusa e cateto di un triangolo rettangolo isoscele, lato e diagonale di un cubo, circonferenza e diametro, lato e diagonale di un pentagono regolare, eccetera), si limitavano a considerare i rapporti fra tali grandezze e si rifiutavano di interpretare tali rapporti come numeri.
I matematici italiani del Rinascimento, invece, capirono che, per ottenere una misura anche nel caso di grandezze incommensurabili, era necessario estendere “formalmente” il concetto di numero, in modo da poter associare un numero, di una nuova specie, anche al rapporto fra grandezze incommensurabili. Alla stessa necessità si arrivava considerando, anziché il problema geometrico di rendere sempre possibile la misura delle grandezze geometriche, alcuni problemi di puro calcolo dove comparivano radici quadrate di numeri non quadrati o radici cubiche di numeri non cubi o, più in generale, espressioni del tipo nv a essendo il numero “a” tale da non esistere nessun numero intero che innalzato all’esponente “n” dia come risultato “a”. A questi nuovi numeri, che esprimono soltanto formalmente il rapporto fra grandezze incommensurabili, dettero il nome di numeri irrazionali2, perché esprimono in realtà “non rapporti” (non ratio), vale a dire i rapporti inesistenti fra coppie di grandezze incommensurabili. Infatti, in tal caso, la misura (o rapporto) non esiste, altrimenti le grandezze sarebbero commensurabili! Se volessimo tentare di trovare la misura di una grandezza A rispetto ad un’altra B con essa incommensurabile, ci troveremmo di fronte ad una situazione di questo tipo: scelto un sottomultiplo di B ci accorgeremmo che esso è contenuto in A un certo numero intero di volte, con un resto, cioè lasciando “scoperta” una parte di A inferiore a quel sottomultiplo; allora ripeteremmo il tentativo scegliendo un sottomultiplo di B più piccolo del precedente, ma arriveremmo ugualmente ad un resto di A ancora inferiore rispetto a questo nuovo sottomultiplo di B. Possiamo ripetere questi tentativi quante volte vogliamo, cioè all’infinito, arrivando ogni volta a “ricoprire” sempre più la grandezza A con il nuovo sottomultiplo di B, ma lasciandone pur sempre un pezzettino non ricoperto, che diventa sempre più piccolo a mano a mano che procediamo nei nostri tentativi. Dunque, poiché questi tentativi non si esauriscono mai, non possiamo avere una misura vera o esatta di A rispetto a B, ma soltanto una misura approssimata, sia pure con il grado di precisione che vogliamo. Il numero irrazionale che noi associamo al rapporto fra le grandezze incommensurabili A e B, dunque, esprime soltanto un procedimento di calcolo iterativo della misura da eseguirsi all’infinito, con approssimazioni sempre maggiori, ma senza mai arrivare a compimento. Ciò corrisponde al fatto che un numero irrazionale non è esprimibile in termini finiti di numeri razionali. Figura 10 – Una pagina del V libro degli Elementi di Euclide (Venezia, 1482)Il concetto d’infinito non era assolutamente gradito ai matematici greci, per i quali essendo i numeri irrazionali αλογος (alogos) = non esprimibili (come rapporti fra grandezze), si rifiutavano di considerarli numeri. Tuttavia, da allora, il concetto d’infinito informerà di sé sempre più l’intera matematica, tanto che, come dice un nostro grande matematico, Gianfranco Cimmino, “l’idea d’infinito è l’essenza di cui è impregnata tutta la matematica, la quale da essa attinge quel carattere che la distingue dalle scienze che studiano la Natura. Quello che si osserva in Natura ha sempre l’impronta del finito”.
Uno dei problemi che, storicamente, potrebbero aver condotto alla scoperta delle grandezze incommensurabili è la duplicazione del quadrato, consistente nel trovare il lato del quadrato di area doppia di quella di uno dato. Platone, nel suo dialogo Il Menone, tratta questo problema. Per esigenze di spazio, riportiamo soltanto uno stralcio del dialogo platonico, dove si accenna ad esso. Fra parentesi sono state inserite alcune aggiunte esplicative che non fanno parte del testo.
SOCRATE:             Ma a noi era bisogno di uno (quadrato) doppio: non te ne rammenti?
SERVO:            Si
SOCRATE:            Or vedi coteste linee (diagonali), ch’io segno da un angolo all’altro (DB, BN, NO, OP): non ispartiscono elle per lo mezzo ciascun di questi quattro spazii (ABCD, BINC, CNLO, DCOM)?
SERVO:             Si
SOCRATE:             E non son elle quattro linee uguali che richiudono questo spazio? (Il nuovo quadrato che ha per lati le linee diagonali)
SERVO:            Sono.
SOCRATE:            Or guarda: questo spazio quanto è?
SERVO:            Non intendo.
SOCRATE:            Ciascuna di queste quattro linee (diagonali) non ha tagliato in due metà ciascuno di cotesti spazi? (I quattro quadrati) o no?
SERVO:            Si.
SOCRATE:            Or quanti ci hai qui di coteste metà? (Mostra lo spazio chiuso dalle quattro diagonali)
SERVO:            Quattro.
SOCRATE:            E quante qua? (Mostra il primo quadrato di quattro piedi)
SERVO:            Due.
SOCRATE:            E che è il quattro verso il due?
SERVO:            Doppio.
SOCRATE:            E però quanti piedi è questo spazio? (Mostra il quadrato BNOD)
SERVO:            Otto.
SOCRATE:            E di quale linea esso è nato?
SERVO:            Di questa (Mostra il segmento DB)
SOCRATE:            Cioè della linea che si distende entro per lo quadrato di quattro piedi, da un angolo all’altro? (Il quadrato ABCD)
SERVO:            Si.
SOCRATE:            Cotesta la chiaman diagonale i sapienti; sicchè egli è il nome suo; e della diagonale, come tu dici, sarebbe nato lo spazio doppio, o giovinetto di Menone?
SERVO:            Certo è, o Socrate.
Come ci racconta Platone nel Menone, la soluzione geometrica esiste ed è semplice: il quadrato di area doppia del quadrato ABCD dato è il quadrato DBNO costruito sulla diagonale DB, come risulta evidente osservando l’uguaglianza dei quattro triangoli in cui il quadrato DBNO è diviso dalle sue diagonali, ciascuno dei quali è metà del quadrato dato. Al contrario, la soluzione con il calcolo, ovvero analitica, non esiste. Infatti, se indichiamo con l e con d rispettivamente le misure, rispetto alla medesima unità di misura, del lato del quadrato dato e del lato del quadrato di area doppia, dovrebbe sussistere la seguente relazione d2 = 2l2 , cioè dovremmo trovare un numero razionale d il cui quadrato sia doppio del quadrato del numero razionale l. Ma, con un semplice ragionamento, basato sulla scomposizione in fattori primi e sull’osservazione che un numero pari non può essere uguale a uno dispari, si dimostra che non esiste nessun numero razionale che innalzato al quadrato sia uguale al doppio di un altro quadrato. Allo stesso problema, si è condotti applicando il teorema di Pitagora ad un triangolo rettangolo isoscele. Infatti, se indichiamo con d e l le misure della diagonale e di uno dei due cateti uguali, rispetto ad un’ipotetica comune unità di misura, arriviamo a scrivere la medesima relazione di prima d2 = l2 + l2 = 2l2 da cui d = l v2, o ancora d/l = 2 , dove al secondo membro compare il numero irrazionale v2 come rapporto fra ipotenusa e cateto del triangolo isoscele, che è lo stesso del rapporto fra diagonale e lato di un quadrato.
In realtà, non si hanno fonti storiche certe che consentano di individuare con esattezza né il periodo né il particolare problema che portò alla scoperta di grandezze incommensurabili. Secondo gli orientamenti più attuali degli storici della matematica (cfr. Carl B. Boyer – Storia della Matematica), la scoperta della prima coppia di grandezze incommensurabili riguardò la diagonale e il lato di un pentagono regolare fatta da Ippaso o Ipparco di Metaponto, vissuto nell’Italia Meridionale intorno al 400 a.C., e la dimostrazione non implicava l’applicazione del teorema di Pitagora, ma un procedimento “ad infinitum”. Se così fosse, il primo numero irrazionale scoperto sarebbe stato non v2, ma v5.
È interessante notare come la scoperta delle grandezze incommensurabili sia stata “casuale”, essendo essa stata perseguita non intenzionalmente, ma nel tentativo di risolvere i problemi di misura o di calcolo appena accennati. Insomma, i greci non avevano in programma, si direbbe oggi, di fare ricerche per scoprire le grandezze incommensurabili, di cui non sospettavano l’esistenza e di cui, come abbiamo già detto, non gradivano nemmeno l’esistenza. La storia della Scienza è ricca di esempi di scoperte importanti favorite dal caso. Esempi illustri sono la scoperta della radioattività naturale e artificiale e proprio le geometrie non euclidee, che sono nate dal tentativo di dare alla geometria euclidea l’imprimatur di unicità e perfezione.

Fine della seconda puntata

 1 È un fenomeno ricorrente nelle matematiche. Tutte le volte che si presentano casi d’impossibilità nell’esecuzione di operazioni matematiche con un certo tipo di numeri, si definiscono nuove specie di numeri che assieme ai precedenti rendono sempre possibili quelle operazioni. Si pensi alle varie specie di numeri che tutti noi abbiamo appreso dall’insegnamento scolastico della matematica e alle ragioni per le quali esse sono state introdotte: prima l’insieme dei numeri interi positivi, poi quello dei numeri frazionari, che contiene il precedente, quindi l’insieme dei numeri relativi introducendo i numeri negativi accanto a quelli positivi, e così via.
 2 Il significato del termine numero irrazionale come di “numero contrario alla ragione umana” può essere accettato come significato collaterale ma non primario, che è unicamente quello ricordato di “non rapporto”. Si rifletta, infatti, sulla circostanza che molto probabilmente il concetto latino di ratio, come rapporto, era secondariamente collegato a quello di ragione, intesa come ciò che è “comprensibile dalla mente umana”. Infatti, abbiamo visto che nell’antichità classica, fino al Rinascimento, era comprensibile dalla mente umana soltanto ciò che poteva essere posto sotto forma di rapporto. Ma che irrazionale, attribuito ai numeri, significhi contrario alla ragione umana risulta manifestamente falso, se si riflette che altre specie di numeri introdotti successivamente dai matematici, per esempio i numeri immaginari, i numeri complessi, i quaternioni, e così via, sono ancora meno comprensibili alla ragione umana di quelli che chiamiamo irrazionali. Insomma, se irrazionale significasse contrario all’intelletto umano, anche questi altri numeri si sarebbero dovuti chiamare “irrazionali”!
 3 I numeri irrazionali, posti sottoforma decimale, con la cosiddetta “divisione decimale”, risultano costituiti da infinite cifre decimali non periodiche. Si tenga presente che, invece, esistono frazioni che poste sottoforma decimale “generano” numeri ad infinite cifre decimali, ma periodiche, vale a dire che si ripetono all’infinito a gruppi (periodo). Dunque, i numeri decimali ad infinite cifre sono: irrazionali, perché non possono essere generati da frazioni, se sono aperiodici; razionali, perché possono essere generati da frazioni, se sono periodici.

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