marino
Un
insolito progetto
(Piercarlo D’Angeli) - Facciata o portale? Nessuno
dei due termini
interpreta pienamente il senso della
proposta avanzata dal Sardi
nel
1712 all’esterno della Chiesa della Madonna del Ss. Rosario a Marino.
In un edificio religioso
la facciata solitamente definiva una struttura parietale scissa dall’organizzazione interna ed in grado di raffrontarsi e dialogare direttamente con lo
spazio urbano. A Marino invece la struttura esterna della cappella,
inserita a posteriori nel complesso
monastico, non è stata pensata come un organismo autonomo ma
come l’elemento di mediazione tra lo spazio urbano ed il convento
.
Se di una facciata non
si tratta, tantomeno si può
pensare ad un portale,
dal momento che il Sardi non si è limitato al proporzionamento del vano come era consuetudine; ha
prospettato invece, mediante l’originalità di alcune forme e
l’accentuazione decorativa, una soluzione che è andata ben oltre
l’accezione del termine.
Paolo Portoghesi ha
scritto in proposito: “l’organismo…si presenta come qualcosa di
intermedio tra una facciata vera e propria e un portale innestato sulla
facciata”. Una
sorta di facciata-portale
che
evoca un’immagine architettonica non ben definita e denota,
comunque, la difficoltà oggettiva di trovare
un’espressione alternativa
più aderente alla realtà, come può essere, ad esempio, la facciata-edicola.
Anche in questo caso però la
definizione, riferita ad un modello classico rielaborato nel XVI secolo da
Sebastiano Serlio, non riflette a pieno le intenzionalità
dell’architetto che nella stesura del progetto non ha trascurato le
implicazioni di natura urbanistica ed ha puntato con decisione al
superamento dei limiti imposti dalla tradizione introducendo
motivi morfologico-iconologici.
Credo, comunque, che l’idea di una struttura
incentrata sul motivo “della porta e della finestra in
edicola” sia da
attribuire innanzi tutto al
desiderio del Sardi di tessere in uno spazio ristretto le lodi della
committenza e di alludere al
tema della castità, indispensabile riferimento per introdurre ai cicli
simbolici raffigurati nella chiesa. D’altra parte la piccola cappella,
sebbene fosse destinata ad un gruppo di
monache di clausura dedite alla contemplazione (contemplata aliis tradere è
il motto domenicano), e non dovesse rispondere quindi a particolari
esigenze propagandistiche e di
rappresentanza, non avrebbe comunque potuto sottrarsi all’obbligo di
denunciare all’esterno con tratti essenziali la sua presenza e
l’identità dell’edificio nel quale era stata inserita.
Ad una lettura a distanza l’organismo
si presenta come una struttura unitaria che per effetto della
luminosità emerge dalla superficie di fondo per il candore della veste;
mentre ad un esame ravvicinato svela una sorprendente complessità e una
frammentazione compositiva derivante dalla sovrapposizione
di strutture autonome aventi la stessa
matrice .
Al livello della strada
il trattamento dell’ordine architettonico propone un disegno che
richiama da vicino lo schema della facciata
di un tempio. Lesene e pilastri disposti in diagonale, ed accostati per colmare il distacco tra la parete di fondo ed il corpo
sporgente proteso verso lo spazio libero, si raccordano ad un architrave
con due spioventi a doppia flessione.
Il motivo dell’edicola
è introdotto per celebrare il compimento dell’opera e per
sacralizzare lo spazio riservato alla contemplazione e alla preghiera.
Nella parte tradizionalmente assegnata all’immagine sacra, infatti, la
porta diviene il simbolo
dell’epifania divina poiché si identifica con la Vergine, definita
nelle Litanie come la Porta dell’Oriente e la Porta del Cielo; essa
segnala il limite tra il mondo profano e quello sacro e l’inizio di un
cammino privilegiato verso la
preghiera e la santità.
Al livello superiore lo
zoccolo frammentato è la base
di appoggio per l’edicola scenica. La parete arretra rispetto al
filo sottostante e si organizza con un andamento a doppia curvatura che
apre alle ali e presenta al centro la massima convessità. Ai lati due
volute, vitalizzate dagli steli dei gigli che traggono forza dal nastro
continuo avvolto a spirale, imprimono una spinta che genera un accumulo di
energie che si risolvono in alto nella sinuosa curva della cuspide
del timpano.
L’inserimento di elementi floreali propri
della scultura naturalistica denota nel
capomastro, al suo esordio come architetto, l’ansia
giovanile di trasferire nel linguaggio
compositivo i valori dinamici e simbolici derivati dalla scultura
barocca.
All’interno
dell’impaginato la rappresentazione emblematica non è una semplice
sovrastruttura decorativa ma una vera e propria tecnica della
comunicazione per immagini che genera l’ispirazione architettonica e ne
diviene al tempo stesso parte integrante. Sulla parete convessa, infatti,
la finestra è l’icona che
simboleggia l’apertura sull’aria e la luce, lo sbocco naturale del
flusso luminoso che evoca in modo illusorio l’immagine di una finestra
aperta fra il cielo e la terra, fra il mondo sensoriale e
quello spirituale. Per il Sardi questo è il punto di partenza ed il
pretesto per inscenare una rappresentazione fatta di immagini concorrenti
in una unica interpretazione riassuntiva che si alimenta di associazioni
visive e di simboliche allusioni. Le figurazioni si accordano tra loro e
compongono una sorta di litania che attraverso il linguaggio emblematico
tesse le lodi dell’ordine domenicano e inneggia alla castità femminile.
Alla base della finestra il cane sdraiato, emblema dell’ordine
monastico, è il diretto
discendente del cane mitico ed eroico civilizzatore della mitologia greca
che ha ereditato la conoscenza dell’aldilà, e che più tardi Isidoro
nelle“Etimologie” definisce come il più sagace e perspicace fra gli
animali. I Domenicani sono infatti i cani del Signore (Domini-canes) poiché
proteggono dalle insidie dell’eresia la sua Casa, come i cani proteggono
dai pericoli la casa dell’uomo. Il tizzone ardente è il simbolo
dell’azione fecondante della predicazione, illuminatrice e
purificatrice; mentre il globo crociato poggiato sul dorso
sottolinea il ruolo primario assunto dall’ordine nella difesa della
dottrina cristiana nel mondo . Sopra la finestra la frattura della corposa
cornice apre ad un “lumen universale” che risalta in modo preminente
sull’impaginato architettonico. La sequenza visiva termina infatti con
l’ovale, sorretto dalle ali e dal capo di un cherubino, nel quale è
incastonata l’immagine di San Domenico, il santo fondatore che
stringe tra le mani un giglio, simbolo dell’abbandono mistico
alla grazia divina. Nella tradizione biblica il giglio è anche il simbolo
della scelta, dell’essere amato, privilegio della Vergine Maria fra le
donne di Israele, e rappresenta, quindi, il cedere alla volontà di Dio e
alla Provvidenza. È inoltre sinonimo di candore, di purezza e di verginità
e per questo il suo inserimento sta a significare il passaggio tra quanto
enunciato pubblicamente all’esterno e quanto dedicato esclusivamente
alle claustrali all’interno della cappella. Sulla volta del vestibolo,
infatti, le parole - Adducentur Regi Virgines Post Eam -, tratte
dal salmo che celebra le nozze mistiche dell’anima fedele con Cristo,
risuonano come una esortazione a favorire le
vocazioni di giovani vergini
che verranno dopo di Lei.
nemi
Perdonaci,
Bruno
(Bruna Macioci) - Non siamo eterni, purtroppo. L’evidenza
di questo fatto ci colpisce all’improvviso, lancinante, quando perdiamo
qualcuno;
quando tutti i pensieri ci portano su un irrimediabile ‘troppo
tardi!’. L’uomo non può, non deve pensare che è mortale: se si
lascia prendere da una troppo costante coscienza del fatto che un giorno
morirà, si lascia scivolare sulla china pericolosa della depressione, del
senso di inutilità dell’esistenza, dell’agire, del realizzare
qualcosa. L’idea della morte non deve essere troppo presente alla nostra
mente, bisogna - come dire? - riporla nel più lontano cassetto e
lasciarla chiusa lì dentro; fingere di ignorare che ci sia. Ma quando ti
muore qualcuno... Ci voleva più tempo, ci si dice. Bisognava avere più
tempo, si sarebbe potuto ancora fare quel che volevamo fare. Ma tempo non
ce n’è più.
Bruno Previtali, il
maestro Previtali, se n’è andato. E non c’è ormai più tempo per
fare tutto quello che si doveva, che si voleva ancora fare. Nemi e Genzano
sono in lutto, perché hanno perso un artista e perché non hanno potuto
fare in tempo a dargli tutti i riconoscimenti e le soddisfazioni che si
meritava. Aveva da poco, dopo quasi dieci anni di lavoro totalmente
gratuito, completato la meticolosa ricostruzione delle navi di Caligola in
ferro battuto; le aveva esposte a Nemi in occasione dell’ultima Sagra
delle Fragole, quando proprio intorno a questi suoi capolavori s’era
allestita la Mostra dei Fiori. Ci aveva detto che non aveva spazio per
metterle; che non poteva più sostenere le spese per il pur minuscolo
locale in cui erano. Ci aveva chiesto un locale più acconcio per poterle
tenere in mostra, ad istruzione e godimento dei visitatori, a ricompensa
minima del gran lavoro e della gran passione. Il Comune di Nemi, ahimé,
non aveva, non ha, locali adatti; dovemmo, a malincuore, negargli lo
spazio che meritava, che avremmo voluto dargli. Il Sindaco si riservava di
parlare con le Autorità competenti per poter far accogliere le navi di
Previtali nel posto più adatto a loro: il Museo delle Navi romane,
appunto. Ma non s’è fatto in tempo. Bruno se n’è andato, e qualunque
cosa si riesca a fare adesso, non sarà lo stesso, perché lui non ne avrà
la soddisfazione che gli ci voleva. Rimane il senso di inadempienza,
rimane la rabbia dolorosa, rimane il dolore della perdita. Non abbiamo
fatto in tempo perché si tende a non pensare che gli uomini sono mortali,
e il tempo può sfuggire.
Perdonaci, Bruno. A
nome di tutta l’Amministrazione Comunale di Nemi
|