Elephant di Gus Van Sant
(Roberto Esposti
flann.obrien@email.it) - C’era una volta tanto tempo fa un re
burlone. Un giorno, per
diletto,
chiamò nella piazza della capitale alcuni sudditi ciechi chiedendo loro di
esaminare al tatto un animale, senza rivelare ad essi quale fosse. Dopo
molto tempo nessuno di loro riuscì a capire l’identità della bestia e le
divergenze di opinione portarono presto alla zuffa per il divertimento del
re e dei presenti. Ai poveri ciechi non fu chiaro che solo collaborando
tra di loro avrebbero potuto capire che di un elefante si trattava, lo
stesso elefante che dà il titolo all’ultimo film di Gus Van Sant.
Questa parabola buddista può infatti servire a ridicolizzare ogni
tentativo di fornire una spiegazione (figlia di sociologie da Bar Sport)
al perché due liceali un bel giorno arrivino a scuola armati fino ai denti
ed ammazzino come cani ogni compagno ed insegnante che si pari di fronte a
loro. Ossia ciò che successe al liceo Columbine di Denver negli Stati
Uniti nel 1999.
Ampiamente trattata nel recente documentario Premio Oscar “Bowling for
Colombine” del nostro amico Michael Moore, la mattanza di 16 persone
avvenuta in Colorado consegna a Van Sant la possibilità di (ri)creare
l’orrore in maniera sorprendentemente semplice.
La via è prendere la testa dello spettatore, cacciarla dentro una
cinepresa a spalla e mandarla ad esplorare una scuola che sembra un quadro
di un videogioco, in cui le figure che si incontrano e seguono sono solo
attori neutri, fino a quando non si arriverà al mostro, che ci sarà e lo
spettatore/giocatore lo sospetta.
I piani sequenza lunghi ed incostanti incrociano nel liceo e scelgono
arbitrariamente di seguire alcuni studenti e di spiarne le azioni: alcune
interessanti, altre noiose. Qualità e successione delle stesse sembrano
generate in maniera casuale, un po’ come se si osservasse la vita con
occhi di più persone, ma il tempo riesce comunque ad avanzare, quantomeno
per saturazione dello spazio posto a sua disposizione.
E così si arriva al mostro: impersonificato da due teenagers imberbi, che
come ogni mostro di videogiochi che si rispetti che è sempre stato fermo
lì ad aspettare che ha ingannato il tempo magari suonando Beethoven in
attesa di divertirsi quando fosse venuto il suo momento, la vita non l’ha
mai conosciuta e nessuno gli ha mai spiegato che possa anche essere bella.
Il mostro trasfigura in gesto e causa orrore, l’orrore quasi archetipico
di vedere nostri possibili figli, nostri possibili amici ammazzati in una
biblioteca o in un laboratorio fotografico che potrebbero essere quelli
della nostra possibile scuola.
L’orrore quasi archetipico che due sedicenni possano acquistare armi
automatiche ed esplosivi su Internet in tutta libertà.
L’orrore che squassa le nostre sensibilità al termine di 81 minuti di
grandissimo cinema. |