La
televisione che muore e “live tv”
(Claudio Comandini) - La televisione italiana era un tempo
uno strumento con il quale, nel contesto delle speranze dell’Italia
repubblicana, si cercava di trasmettere una cultura per un paese ancora in
fase di unificazione, proseguendo con un nuovo supporto tecnologico
l’opera intrapresa dalla monarchia e dal fascismo, che era rimasta
sostanzialmente incompiuta. La vecchia televisione di stato, servizio
pubblico dal solido impianto professionale, attenta alle esigenze
didattiche oltre che a quelle di svago, conosceva spazi appositi per la
poesia e offriva argomentate tribune politiche, e in essa la pubblicità
costituiva perlopiù il pretesto per le sceneggiature di Carosello,
spesso autonome rispetto al prodotto di riferimento.
All’inizio degli anni
‘80 Berlusconi, forte della protezione dell’allora potente Craxi,
entra nel nascente pluralismo italiano e lo distrugge, acquistando piccole
“Tv libere” che riorganizza secondo piatti criteri commerciali,
cominciando a costringere la televisione di stato ad una concorrenza al
ribasso, e costruendosi una legittimità “informazionale” molto più
efficace degli strumenti della propaganda tradizionale. Dalla legge Mammì
all’ingresso in politica di Berlusconi al (finora) mancato colpo del Ddl
Gasparri la storia della televisione è quella del suo progressivo
trasformarsi in uno strumento di manipolazione di massa, grazie al
patinato squallore dei suoi programmi: varietà, soap opera, reality
show, e sopratutto un’informazione di “indottrinamento”,
accompagnano lo sviluppo di una politica che può definirsi come una
pubblicità priva di prodotto.
La cosidetta legge
Gasparri, che il presidente della repubblica Ciampi non ha firmato in
quanto “non in linea con la giurisprudenza della Corte
Costituzionale”, è uno degli strumenti con cui si tenta di fornire al
conflitto d’interessi, strumento di mantenimento dell’anomalia
italiana, un crisma legislativo, consentendo l’espansione
dell’oligopolio dell’informazione esercitato dal presidente del
consiglio Berlusconi e l’esclusione di tutti gli altri soggetti con una
serie di “trucchi” anche piuttosto evidenti: introduce con il SIC,
Sistema Integrato Comunicazioni, un parametro statistico falsato che
accresce a dismisura le quote di mercato su cui calcolare l’antitrust;
non riconosce limiti alle pubblicità televisive, inaridendo le
disponibilità economiche per la carta stampata; anticipa forzatamente i
tempi di realizzazione della Tv digitale per aggirare la sentenza della
Corte Costituzionale n. 446 del 20 nov, 2002, che stabilisce dal gennaio
2004 la trasmissione via satellite di Rete 4; tende a realizzare una
privatizzazione Rai priva di trasparenza sulle forme di finanziamento; non
sfiora nemmeno il problema del conflitto di interessi. Parallelamente ad
una azione legislativa che toglie i diritti piuttosto che garantirli, c’è
la censura diretta che esclude professionalità riconosciute e dall’alto
indice di gradimento, colpevoli di credere che l’informazione, nelle sue
diverse forme, sia uno strumento critico di analisi della realtà, ed un
servizio da offrire alle persone per permettergli una crescita culturale:
Biagi, Santoro, Luttazzi, Massimo Fini e Sabina Guzzanti sono soltanto i
primi nomi di una lista che comprende tutto il popolo italiano, elettori
berlusconiani compresi, tutti insieme esclusi dallo stesso apparato che
tende a controllarci.
Proprio Sabina Guzzanti,
in una delle ultime battute dello strepitoso Raiot - Armi di
distrazione di massa, fornisce una delle via d’uscita: “Pensa che
bello se tutto questo fosse dal vivo”. Alle parole sono seguite i fatti,
dove ventimila persone all’Auditorium di Roma hanno assistito
alla replica live della trasmissione, trasmessa subito dopo dalla
televisione satellitare di Jacopo Fo e da un’ampia rete di televisioni
regionali; le denuncie di Mediaset e Rai, basate l’una su
un’imputazione di reati d’opinione in cui vale una pretestuosa
definizione di satira formulata dallo studio Previti (!), l’altra su una
paradossale accusa di plagio in cui si fanno valere i diritti della
trasmissione acquisiti dalla RAI, rispetto al sottile e raffinato gioco
dalla Guzzanti sono un cane sdentato che abbaia alle ombre, e non reggono
neppure sotto il punto di vista legislativo.
L’iniziativa della Guzzanti e quelle di altri operatori
dell’informazione (fra cui Federico Orlando con art. 21, e
Giulietto Chiesa con Megacheap) di determinare contesti non
controllati, si accompagna al fenomeno popolare delle Street TV,
televisioni di quartiere realizzate con tecnologia a basso costo (servirà
pure a qualcosa il progresso, no?): la moltiplicazione di autonomie
volutamente marginali rispetto al potere centrale porta alla
demistificazione del grossolano incanto del Grande Fratello, basato
sull’assurdo desiderio di una fama ormai così a buon mercato da non
valere niente. Piuttosto, non è affatto necessario subire condizionamenti
mediatici e accontentarsi di relazioni surrogate: fare televisione è
affare di tutti, e possiamo renderla anche più interessante, più vicina
ai nostri bisogni, alla nostra realtà. Le Street TV (ricordiamo Aut
TV di S. Lorenzo a Roma, e Gaeta TV che serve una città con più
di ventimila persone) realizzano le riprese dei consigli comunali, fanno
telegiornali umoristici più attendibili di quelli veri, e ritrasmettono
anche quello che le Tv di regime hanno espulso dai loro programmi; inoltre
sono state oggetto di una proposta di legge, la n. 3708 del 21 febbraio
2003, presentata dai deputati Bulgarelli e Lion, in cui si prevede che
parte del canone (un anacronismo nelle condizioni attuali, se non una
rapina, visto che è anche ingiustificatamente aumentato) vada a
disposizione di queste “televisioni comunitarie”.
Non si tratta di seguire
le regole del gioco (come, seguendo una tarda scuola “situazionista”,
ancora predica il buon Freccero), ma di prendere il giocattolo tutto
intero nelle proprie mani, stabilendo nuove regole. La televisione va
rifondata forse proprio rompendo la sua autoreferenzialità e la sua
pretesa di risolvere il mondo, estremizzandone alcuni aspetti e
connettendola con altre esperienze, che sono quelle veramente importanti,
e quindi va definitivamente ricollocata accanto agli altri
elettrodomestici.
Un fenomeno tutto a
parte, che raccoglie questi motivi in modo originale, è quello di Live
TV, fortunata serie di performances realizzate lo scorso anno allo
spazio teatrale del centro sociale di Trastevere Il Cantiere, e
attualmente sugli schermi di Teleambiente (lunedì alle 24:00 e
giovedì alle 20:00), i cui studi si trovano nella campagna sotto Monte
Porzio Catone. Ideata dal musicista americano Chris Blazen, compositore di
avanguardia e inventore di strumenti musicali (fra i suoi progetti Bassifondi
Orchestra, e Curva Chiusa, con cui è stato ospite anche alla
Biennale di Venezia), Live TV nasce sostanzialmente da due istanze:
dalla constatazione che l’attuale dittatura telecratica ha distrutto il
terreno di molti ambiti di espressione, e dall’intenzione di ricostruire
una cultura ripartendo inevitabilmente dall’ultimo gradino a cui siamo
scesi. Il neo-produttore, che si definisce un “esule americano a
Roma”, ha anche intrapreso un singolare “sciopero della pasta per
protestare contro Berlusconi che ha rovinato la società italiana”. Live
TV è creativa, bizzarra, imprevedibile, mette insieme una comicità
viscerale con sofisticate tecniche digitali, fa pubblicità gratuite alle
botteghe artigiane, riprende i gruppi underground al lavoro nei loro
studi, realizza esplorazioni urbane alla scoperta dei “misteri di
Roma”. Chi la vedrà, scoprirà che il sottoscritto è fra i sui
protagonisti: il fatto di parlarne non è un tentativo di imitare il
conflitto di interessi berlusconiano, ma esprime l’intenzione di
coinvolgere chiunque ad essere parte di una nuova fase della storia della
comunicazione. C’è solo da voltare le spalle a qualcosa che già è
morto, e che ormai non ci appartiene più. Io, poi, non la vedo mai,
neppure quando ci sono io.
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