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Intervista a Riccardo Agrusti
(Federico Gentili) - Incontrando lo scrittore Riccardo
Nazario Agrusti, ideatore di “I versi in una stanza”, cerchiamo di
tracciare un bilancio della manifestazione e di parlare del suo impegno
nel mondo della cultura.
F.G: Uno degli strumenti privilegiati nelle letture sembra essere stato
quello della dissonanza, che in ambito linguistico significa la
trasgressione dell’espressività media e nel figurativo la ricerca
dell’urto di linee e colori. Nella sua esperienza alle Scuderie
Aldobrandini del Comune di Frascati in cosa è consistito l’uso di questo
strumento?
R.A: Nella sua “Poétique musicale” Stravinskij scriveva che la dissonanza
non è portatrice di disordine, così come la consonanza non è garanzia di
sicurezza. Nella poesia moderna Mallarmé ha sancito definitivamente quella
frattura tra linguaggio e idealità che era già alla base della poetica di
Baudelaire e di Rimbaud. Avvertendo la realtà come insufficienza e la
trascendenza come il Nulla, Mallarmé non poteva stabilire un rapporto con
l’una o con l’altra se non in una dissonanza assoluta e cioè come origine
della parola che altro non ha che sé stessa. Origine creativa, dissonante,
percepibile anche se non di immediata comprensione. Del resto, come
avvicinare maestri come Lorca o l’universo di Campana? Non certamente
attraverso un contrasto di toni, di piani o d’altro, ma attraverso un
tentativo di stile che, nella propria originalità, assicurasse
strutturalmente una sufficiente comunanza tipologica del diverso.
D: Qual è stato il criterio con il quale ha accostato i suoi testi a
quelli letti da Ilaria?
R: Nel corso delle rappresentazioni è stato fatto riferimento alla vita
dei poeti e alla tragica fine di alcuni di essi. Tuttavia, proprio per
quel che le dicevo, non credo che la drammatizzazione abbia costituito
l’elemento portante delle letture. È stato piuttosto un evocare, l’intimo
piacere di vivere la poesia. Per quanto riguarda me, ho cercato di seguire
il fiume della musica, delle visioni di questi grandi autori, quel magico
trasporto della parola che a volte si fa chiara come acqua di sorgente e a
volte si oscura come una notte senza fine. Non artificio né
immedesimazione, il criterio è stato uno soltanto: quello di mettersi a
nudo, con la propria realtà, davanti agli altri e come gli altri, perché
in definitiva il processo di comunicazione si avvicinasse il più possibile
al compiersi di un rito.
D: Quanto ha contato, nella realizzazione dell’evento, trovare la
disponibilità di una classe politica, che guarda ancora alla cultura come
a un buon investimento?
R: Molto. La disponibilità del Sindaco Francesco Paolo Posa nonché
dell’Assessore Stefano Di Tommaso ha consentito e incoraggiato la riuscita
di queste iniziative, segno di una sensibilità politica alla cultura che
riesce a cogliere e soddisfare i bisogni dei cittadini. Frascati ha grandi
tradizioni artistiche e culturali e una classe dirigente in grado di
valorizzarle.
D: Qual è stata la più grande soddisfazione nell’ideare e realizzare un
progetto in cui si è messo parecchio in gioco, sia a livello intellettuale
che fisico?
R: Non ci crederà, ma la gioia di stare insieme con tanti altri e di
ripetere dentro di me, come il braccio di un pendolo stanco: la poesia non
è morta, continua a vivere. E’ un fatto di democrazia, e di libertà.
D: Alla base della nostra esperienza orale ci fu un cieco, analfabeta,
forse neanche realmente esistito. Cosa è rimasto di questa figura
archetipica nella moderna esperienza orale?
R: Omero? Orfeo? Si dice che il primo fosse cieco, ma raccontò le gesta
degli eroi. Dell’altro si racconta che vinse le resistenze degli dei degli
Inferi, per riavere l’amata sposa Euridice, che poi perse per un tragico
errore o per volontà o perché lei semplicemente non lo voleva. Il mito
esautorato ritorna ogni giorno, ogni ora della nostra vita, siamo uomini
perché elaboriamo simboli, ci raccontiamo delle storie, anche nelle
periferie desolate o nella monotonia della quotidianità, viviamo con i
simboli, malediciamo i fantasmi della mente e continuamente sforniamo
questo pane. Omero o Orfeo? E quale Orfeo? Archetipi dell’arte o della
psiche, classicità o atipicità insolente e fannullona, ma capace di
sorprendere e di incantare. Più che un perenne distinguo, è origine
creativa, è la parola che esplode nella bocca dell’uomo.
D: Il concetto di cultura rimanda ad una sfera di attività di natura
squisitamente sociale: la radice indoeuropea è un lascito ben preciso. Il
termine designa propriamente il girare, l’andare attorno; in senso
figurato, la socializzazione stessa, l’atto di rendersi partecipe del
mondo e insieme di rendere il mondo partecipe di sé. Qual’è la sua
concezione di cultura?
R: Non mi appartiene molto una nozione di cultura in senso patrimoniale:
sarebbe invero una ricchezza sciupata, oggettivata e morta, comunque
morta, anche se custodita in una teca impenetrabile. Una rete fluttuante
di saperi che vaga nell’universo. La cultura è la misura di noi stessi, di
quanto riusciamo a vivere insieme della grandezza dell’uomo e per questo è
pace e libertà: non serve una cultura che affligge, che copre l’uomo per
ciò che non sia la sua spiritualità. Le idee non stanno né in cielo né
negli atomi, sono degli uomini, i libri valgono quando diventano parte di
noi stessi e in ciò l’educazione ha valore politico e morale.
D: Leggendo la sua biografia colpiscono i trascorsi da bancario. Un
sentiero già battuto, tra gli altri, da Giampaolo Rugarli, scrittore che
ha riscosso un notevole successo e che vive, come lei, vicino a Roma. Un
buon segno, non crede?
R: Speriamo. Comunque il denaro è un simbolo, l’errore è credere che sia
l’unico.
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La cultura in
una stanza
(Federico Gentili) - Perché esiste la poesia? Chi ne avverte
ancora la necessità? Queste domande se le pone non soltanto il poeta, ma
anche colui che l’arte la percepisce, o in ossequio allo “spirito dei
tempi”, potremmo dire, la consuma. Il fine di ogni arte, non proprio
uguale a quello di una qualsiasi merce che viene acquistata e consumata,
dovrebbe essere quello di spiegare la vita. Se non proprio di spiegarla,
di porla almeno al centro di una qualche riflessione. Di stimolare
problemi e suscitare domande. Non importa, poi, se a queste domande
saranno affiancate delle risposte. In questo gioco il punto di partenza
conta più di quello d’arrivo. Del resto “dubium initium philosophiae”, no?
Con il preciso scopo di produrre uno sconvolgimento emotivo, una sorta di
catarsi, l’arte deve essere prima di tutto “sentita” e poi, se mai, anche
compresa. All’uomo che a quell’universo guarda non dovrebbe essere
richiesto un certo bagaglio culturale, ma un determinato livello
spirituale. «La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita»
affermava T. S. Eliot.
Allora si cerchi, per un momento, di capovolgere la visuale e si veda
nella figura del poeta quella di un servitore che si sforza di sdebitarsi
per il prezioso dono che gli è toccato in sorte. Il poeta come un uomo con
immaginazione e psicologia da bambino e percezioni del mondo immediate,
nonostante ne sia profonda la sua conoscenza. Nella figura di chi osserva
l’opera d’arte si veda, invece, quella di una persona che è in possesso di
uno strumento, una sorta di metalinguaggio per mezzo del quale riuscire a
comprendere il mondo, entrando in contatto con altri uomini. Con il quale
riuscire a comunicare informazioni su se stessi e a far propria
l’esperienza altrui. Se dunque l’arte ha una funzione prettamente
comunicativa/conoscitiva, non può e non deve essere per pochi. Ma, al
contrario, interessare il maggior numero di persone.
Secondo la scuola storica delle Annales, un periodo storico lo si puo
raccontare in due modi, dall’alto o, per così dire, dal basso. Anche gli
eventi culturali possono essere pensati e costruiti in due modi: come un
inner circle che pone paletti e alza steccati, oppure come delle moderne
“agorà” nelle quali vengono ricreati lo spazio e il tempo tipici del rito.
E dove, se non nel rito, si consuma, probabilmente, il più antico atto di
comunicazione collettiva?
Queste considerazioni possono essere utili ad avvicinarsi al modo in cui è
stata pensata e attuata la brillante operazione culturale, dal nome
vagamente familiare, “I versi in una stanza”. Una serie di incontri
dedicati alla lettura di importanti testi poetici, un’esperienza che si
colloca nel solco tracciato dai sempre più affollati reading letterari di
Roma e di Mantova. La manifestazione, ospitata nelle Scuderie Aldobrandini
di Frascati e conclusasi nel mese di Novembre, è stata ideata dallo
scrittore Riccardo Agrusti e ha riscosso, da subito, il fondamentale
sostegno dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Frascati.
Nel corso degli incontri sono stati letti, dopo un’adeguata introduzione
dello scrittore, brani di grandi poeti: Dino Campana, Dylan Thomas,
Federico García Lorca. Splendide e immobili stelle polari per quanti, in
solitario, solcano ancora i profondi oceani della letteratura.
La parola letteraria pronunciata a gran voce e vissuta nella concretezza
di un luogo aperto poteva essere una sfida pericolosa e un rischio ancor
più grande, se si pensa che nella nostra società i libri non sono proprio
il rifugio preferito. Meno che mai, poi, quelli di poesia.
Mi viene alla mente quanto una volta ha raccontato Mario Vargas Llosa, il
quale molte volte, alle fiere del libro o in libreria, viene avvicinato da
uomini in cerca di un autografo. Questi signori, di solito, si affrettano
a precisare che la firma non è per loro, ma per le loro mogli, le loro
madri o le loro sorelle, che sono grandi lettrici e appassionate di
letteratura. E alla domanda dello scrittore peruviano che chiede perché
non lo siano anche loro, rispondono che anche loro leggerebbero, se non
avessero così troppe cose da fare! È sempre più frequente sentir parlare
della letteratura come di un passatempo o di un’operazione di cosmesi,
consentita solo a coloro che hanno molto, molto tempo per lo svago.
Un’attività che potrebbe essere tranquillamente sacrificata, se si
stilasse una scala delle priorità da fare nella quotidiana lotta per la
sopravvivenza.
Lode, allora, a iniziative come questa, che non puzzano di accademico e di
elitario, ma ricercano nella partecipazione empatica del pubblico una
sponda che faccia anche da colonna portante all’intera impalcatura. Lode a
Ilaria Tucci, giovane attrice di teatro, che ha saputo leggere e
magnificamente interpretare. Un’oralità, la sua, che alla fine si
identificava con la creazione e muoveva sentimento, fantasia, estro. Se è
vero che leggere un buon libro è altrettanto difficile che scriverlo, la
sua non deve essere stata proprio una passeggiata di piacere. Lode a
Riccardo Agrusti che ha vuto il coraggio di osare e di “giocare”. E lode,
in ultimo, al Sindaco Francesco Paolo Posa e all’Assessore Stefano Di
Tommaso che quando sentono parlare di cultura... non si tirano mai
indietro.
Fino a quando ci saranno persone interessate a leggere poesie e altre
disposte a fermarsi per ascoltarle, vorrà dire che forse non tutto è
perduto. A patto che si tratti di una lettura «intesa come nobile
esercizio spirituale [...], non quella che ci culla dolcemente
addormentando i nostri sentimeni elevati, ma quella verso la quale bisogna
protendersi in punta di piedi, alla quale noi consacriamo le ore migliori
della veglia». Così Thoreau in un passo del suo straordinario “Walden”.
A noi, in silenzio, non rimane che ascoltare. |