Ingmar Bergman, Il settimo sigillo,
Milano, Iperborea, 2002, pp. 93, € 8.50
(Emanuela Evangelisti) - Oltre a essere l’indimenticabile
film del 1956 che conosciamo e amiamo in molti, Il settimo sigillo è anche
un affascinante viaggio letterario che, grazie alla casa editrice
Iperborea e al traduttore Alberto Criscuolo, dal 1994, anno della prima
uscita, anche i lettori e le lettrici italiane possono gradevolmente
intraprendere, lungo sentieri talvolta precari e dolorosi ma pur sempre
infinitamente umani.
Antonius Block è il Cavaliere. In compagnia dello scudiero Jöns è di
ritorno dalle Crociate in Terra Santa dove si era recato dieci anni prima
credendo di riuscire, combattendo per una giusta causa, quella della
presunta giustizia divina, ad allontanare i fantasmi della sua mente, a
scongiurare le paure e a sciogliere nel valore i quesiti irrisolti. Ma
dopo dieci anni, non solo la sua iniziale credenza si era rivelata
sbagliata, ché anzi gli interrogativi erano diventati più insopportabili,
ma la stessa causa che prima gli era sembrata così chiara, da tempo ormai
aveva perso i suoi contorni e svaniva nel turbine implacabile dell’ignoto.
Per questo, quando nelle prime righe del libro, nonché nella prima scena
del film, la figura della Morte giunge a prenderlo, infine, dopo anni di
combattimento, sulle rive calme ma inquiete di un mare afoso, il Cavaliere
la invita a intrattenere una partita a scacchi, gioco enigmatico eppur
ricco di logica, al fine di prolungare il proprio tempo su questa terra,
onde tentare, grazie a un’ultima chance, di conoscere finalmente la
risposta ai suoi inestinguibili e assillanti dubbi sull’esistenza.
Antonius Block e la Morte svolgeranno a più riprese la loro sfida.
L’oscuro giocatore infatti apparirà e scomparirà, avvolto nel suo nero
mantello, più volte nel corso del testo (e del film): ora sulla spiaggia,
poi in un convento, dove ascolta, senza esser visto, la confessione di
Block, uno dei passi più affascinanti del testo, dove l’istanza filosofica
si amalgama all’ispirazione poetica in un crescendo di disperazione
verbale che si blocca quando la Morte mostra il suo volto; di nuovo ancora
sul carro che trasporta la giovane strega verso il rogo che l’attende, e
infine sulla radura notturna che riflette una luna “non più quieta e
inanimata, ma misteriosa e cangiante”, che lascia presagire l’imminenza
della fine, quando la Morte prevedrà la sua ultima mossa, scacco matto.
Ciò che rende questa un’opera d’arte, letteraria prima che filmica, è un
linguaggio fluido e lirico a un tempo, dove le descrizioni dei paesaggi
non sono mai secondarie rispetto al dramma fondamentale incarnato dalla
complessa figura del Cavaliere, che è poi quella di tutti noi posti
davanti all’inestricabilità della nostra condizione di esseri umani,
fallibili e geniali allo stesso tempo, effimeri nell’esistenza e
potenzialmente immortali nell’essenza.
Si riscontrano nel testo poche lievi differenze rispetto alla resa
cinematografica, come a renderlo, una volta di più, indipendente da
questa, un prodotto artistico compiuto in sé stesso, una lettura
irrinunciabile per coloro che amano l’opera del regista svedese, non in
quanto regista, ma come originale artista e pensatore contemporaneo capace
di travalicare i confini nazionali, europei e mondiali nell’eterea
disposizione a una ricerca universale di significati e forme proprie
dell’essere. |