Una voce e un
volto di Roma
(Luca Ceccarelli) - Quando la vidi per la prima volta in uno
spettacolo di varietà degli anni Settanta, con la minigonna, i capelli
imbionditi
e il trucco degli occhi molto pesante mi suscitò un senso di spaesamento.
Ero abituato ad altri ideali di femminilità, e quello che, più che
proporre, Gabriella Ferri imponeva, mi lasciava perplesso. Lo stesso
dicasi per la voce con cui cantava le canzoni italiane, napoletane e,
soprattutto, e meglio di tutte, quelle romane. Ci sentivo una vena
istrionesca, scherzosa ma nello stesso tempo malinconica. Pian piano mi
abituai alla sua voce, e al suo personaggio, e mi ci affezionai. Mi
affezionai ai suoi capelli troppo biondi, e ai suoi occhi truccati di
bistro troppo nero. Non era una maschera, era il suo modo di essere, di
popolana romana. Le donne di quella strana e mutevole entità che è il
popolo di Roma hanno sempre avuto un’attrazione irresistibile per il
trucco pesante, di cui ancora oggi non si è persa la traccia: gli occhi
devono essere ben cerchiati, il rossetto dev’essere molto carico, il
colore del volto e dei capelli molto vivace. È una questione di principio:
devo essere notata, e quando cammino per strada l’omini devono girarsi a
guardarmi, fischiare, fare un complimento, se qualcuno esagerà pazienza,
ci penserò io a tenere al loro posto i troppo esuberanti con le parole
giuste. Mi affezionai anche a quella voce, e a quell’euforia. E non solo
io mi affezionai, vista la diffusione del cordoglio che ha seguito la sua
morte.
La canzone romana ha un filone di interpretazioni che non sono del tutto
fedeli alla vena originaria: Giorgio Onorato, Sergio Centi, Claudio Villa,
più recentemente Lando Fiorini, hanno cantato in modo artisticamente
ineccepibile, ma con una quantità di svirgoli melodici che sanno più di
melodramma che di romanità genuina. Per questo la Ferri, come ha rivelato
Fiorini all’indomani della sua morte, non gli aveva nascosto la sua
personale perplessità sullo stile dell’”Iglesias di Trastevere”: «Canti
troppo bene. Canti bene le canzoni romane, ma le fai troppo pulite». A lei
le canzoni piaceva “sporcarle” un po’, il suo timbro di voce aveva la
ruvidezza della carta vetrata, e a volte un voluto soprassalto, in cui si
avvertiva un’euforia rabbiosa dove sembravano concentrarsi millenni di
passionalità. Secondo un’accezione largamente condivisa, di origine
romantica, la grande poesia è la voce di un popolo. Le canzoni di
Gabriella Ferri erano la voce di Roma, la sua sapienza vocale non era
dimentica del grido della peracottara romana che in un sonetto del Belli
passa per strada e «vva strillanno co ttanta de bbocca: Sò ccanniti le
pere cotte bbone».
Pier Paolo Pasolini volle affidarle una memorabile canzone di cui lui
aveva scritto il testo, e Pietro Umiliani la musica, Il valzer della
toppa, in cui una prostituta euforica per un quartino di più grida, non si
sa quanto credendoci lei stessa “me sento tornata un fiore de verginità …
che sarà, che sarà, che sarà” (in cui, forse non inconsapevolmente, c’è
un’allusione ad un racconto di Gustave Flaubert). Poi ci sono gli
stornelli, la cui origine si perde nella notte dei tempi, e le grandi
canzoni come Sinnò me moro, Canto de malavita, ‘Na gita a li Castelli, e
tante altre da lei reinterpretate e rivitalizzate.
Dopo la fine degli anni Settanta, per Gabriella Ferri gli spazi del mondo
dello spettacolo si restrinsero rapidamente, fino a chiudersi del tutto
per un lungo periodo, e a riaprirsi più tardi, ma solo per occasionali
interventi da ospite in qualche talk show qua e là. Nella televisione dei
nostri anni era difficile trovare lo spazio per un personaggio come lei, e
d’altra parte il suo talento scontava delle difficoltà interiori,
esistenziali, che non l’hanno abbandonata fino alla fine. Ma su queste
sono calati, nei giorni della sua scomparsa, il riserbo e il pudore
generale, quasi ubbidendo alle sue stesse parole in una nota canzone: «Che
te fischi, a sor fregnone, statte zzitto, abbi rispetto, che la sera
drent’ar letto, tu ce l’hai chi tte vo bbene; io c’ho solo ‘sti vent’anni,
como fussero ‘n dispetto, me li sento su la schiena, io co lloro vado a
letto». |