Bruno de
Finetti: così è, se vi pare – 1
“..ma davvero esiste la probabilità? e cosa mai sarebbe? Io
risponderei che non esiste.”
(di Luca Nicotra) - La probabilità, questa sconosciuta:
finzione e realtà.
Se a una persona di media cultura, ma non matematico, si chiedesse che
cosa intende per probabilità, “probabilmente” risponderebbe con
un’espressione del tipo: “E’ la fiducia (speranza o timore) che noi
riponiamo nell’avverarsi di un evento”. Anche la risposta alla nostra
domanda non è reputata certa, bensì affetta da un’indeterminabile dose
d’incertezza, che esprimiamo con il termine “probabilmente”.
Quando
abbiamo dubbi sul significato di un termine di uso generale, tutti noi
ricorriamo ad un vocabolario della lingua italiana. Ebbene, se consultiamo
il classico vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli, alla voce
“probabilità” leggiamo: “1- Condizione, carattere di ciò che è probabile;
2- La misura in cui si giudica che un avvenimento sia realizzabile o
probabile.” E poiché in entrambe le definizioni si rimanda all’aggettivo
“probabile”, leggiamo che cosa dice lo Zingarelli a tal proposito: “Degno
di approvazione; Verosimile; Che si può approvare; Da provare; Credibile,
ammissibile in base ad argomenti abbastanza sicuri”.
Certamente un vocabolario linguistico contiene soprattutto termini del
linguaggio ordinario e soltanto alcuni dei numerosi termini oggi
appartenenti, più propriamente, a gerghi tecnici, perché denotanti
concetti di pertinenza di specifiche branche del sapere. Il concetto di
probabilità è uno di questi, ma a differenza di molti altri prettamente
tecnici, esso, prima ancora di divenire oggetto d’indagine scientifica
circa trecentocinquanta anni fa, è stato utilizzato, forse da sempre, da
tutti gli uomini, e tutt’oggi, nella sua forma intuitiva e vaga, fa parte
della vita quotidiana dell’uomo, perché esprime forme incerte di
conoscenza (è probabile che domani piova, probabilmente otterrò una
promozione sul lavoro, eccetera) che riguardano la maggior parte degli
eventi della nostra vita. Incertezza significa difetto e non totale
assenza di certezza, e quindi induce sempre in noi, più o meno
consapevolmente, l’attribuzione di “un grado di fiducia” al verificarsi di
un evento. La probabilità, dunque, fa parte del patrimonio culturale di
tutti, e non solo dei matematici1.
I primissimi tentativi di formalizzazione matematica della probabilità
hanno inizio nel Rinascimento per opera del matematico, fisico, medico ed
astrologo Gerolamo Cardano (1501-1576) che, perdendo sistematicamente nel
gioco dei dadi, intraprese per primo lo studio matematico della
probabilità, scrivendo nel 1526 il De ludo aleae (Il gioco dei dadi), in
cui sono contenuti due importanti teoremi del futuro Calcolo della
Probabilità: la probabilità dell’evento prodotto logico (A e B) di due
eventi semplici A, B e una anticipazione della legge dei grandi numeri.
Tuttavia, i suoi studi caddero nell’oblio e il De ludo aleae fu pubblicato
postumo nel 1663. Anche Galileo Galilei, nella sua opera Sopra le scoperte
dei dadi (1630), si occupò di probabilità, stimolato da quesiti postigli
da nobili fiorentini appassionati del gioco della “zara” (un gioco con tre
dadi) del tipo: perché escono con maggiore frequenza il 10 e l’11 rispetto
al 9 o al 12? Analoghi quesiti sulle scommesse al gioco dei dadi furono
posti nel 1654 dal nobile francese Antoine Gombaud, Chevalier de Mérè,
all’amico Blaise Pascal, filosofo e sommo matematico dilettante. Uno di
questi era: “Un giocatore, gettando otto volte un dado, deve tentare di
far uscire il numero uno; dopo tre tentativi infruttuosi, ciascuno
costituito da una serie di otto lanci, il giocatore rinuncia a proseguire:
in che misura egli ha diritto alla posta pattuita? Un altro era: “E’
conveniente scommettere alla pari l’uscita di un 12, lanciando due dadi
per 24 volte?”, che altro non significa che reputare del 50% la
probabilità che lanciando per ventiquattro volte due dadi assieme esca
almeno una volta il numero 12. Ne seguì un carteggio fra Blaise Pascal e
Pierre de Fermat, magistrato e anch’egli geniale matematico dilettante,
che spesso, a torto, considerando le precedenti ricerche di Cardano e di
Galilei, è considerato l’atto di nascita della Teoria o Calcolo della
Probabilità, vale a dire di quella branca della matematica che si propone
di dare una definizione di probabilità per eventi semplici, tale da
consentire di attribuire ad essa un valore numerico e stabilire la
probabilità di un evento complesso, in funzione delle probabilità degli
eventi semplici componenti. In verità oggi, più propriamente, si distingue
il Calcolo della Probabilità, che studia in modo rigoroso le relazioni fra
le probabilità degli eventi composti e quelle degli eventi semplici
componenti, dai metodi per l’attribuzione della probabilità agli eventi
semplici, che, come vedremo fra poco, possono essere molto diversi fra
loro e sono sempre un’assunzione da parte del matematico. In altri
termini, mentre possono variare le definizioni “operative” di probabilità
degli eventi semplici, le “regole” per il calcolo della probabilità degli
eventi composti a partire dalle probabilità degli eventi semplici
componenti sono le medesime e possono essere stabilite in modo
matematicamente rigoroso. Abbiamo usato il termine evento, senza chiederci
qual è il suo significato. La risposta può variare secondo il tipo di
definizione di probabilità che, come vedremo poco oltre, può essere di
quattro tipi: classica, frequentista, assiomatica, soggettiva. Senza
entrare nelle discussioni delle diverse accezioni di tale termine nelle
quattro scuole di pensiero appena citate, possiamo appellarci al concetto
intuitivo, anche se vago, che ognuno di noi ha del termine “evento”:
risultato di una prova, qualsiasi affermazione della quale sia
verificabile il contenuto di verità, un fatto univoco e ben descrivibile.
Un evento “semplice” non è scindibile (almeno per il nostro punto di
vista) in altri eventi componenti. Viceversa, un evento “complesso” è un
evento che può essere considerato formato da più eventi semplici. Il
lancio di un solo dado dà luogo all’evento semplice “caduta del dado su
una faccia”; il lancio contemporaneo di due dadi dà luogo all’evento
composto, formato dai due eventi semplici e indipendenti “caduta di
ciascun dado su una faccia”.
Christian Huygens, il fondatore della teoria ondulatoria della luce, nel
1657 nella sua opera De ratiociniis in ludo aleae (Sui ragionamenti nel
giuoco dei dadi) ripropose in maniera più sistematica il contenuto del
carteggio fra Pascal e Fermat, dando anche una risposta al quesito di
Gombaud, non risolto da Pascal, di quale fosse la cifra equa da pagare a
un giocatore per subentrargli in una data puntata. Il primo vero trattato
sulla nuova scienza, però, sarà pubblicato soltanto nel 1713 con il titolo
Ars conjectandi (figura 1) dal grande matematico Jacques (o Jacob)
Bernoulli, appartenente alla celebre “dinastia” di matematici dei
Bernoulli, che così scriveva: “Noi definiamo l’arte di congetturare, o
stocastica, come quella di valutare il più esattamente possibile le
probabilità delle cose, affinché sia sempre possibile, nei nostri giudizi
e nelle nostre azioni, orientarci su quella che risulta la scelta
migliore, più appropriata, più sicura, più prudente; il che costituisce il
solo oggetto della saggezza del filosofo e della prudenza del politico”.
La nozione di probabilità, nata nell’ambito delle scommesse ai giochi
d’azzardo, per opera del fisico scozzese James Clerk Maxwell, intorno alla
metà del secolo XIX, cominciò a entrare nel campo scientifico trovando
applicazioni in fisica, dove ebbe nel successivo secolo XX sempre più
ampie e profonde implicazioni nello studio dei fenomeni delle particelle
elementari (meccanica quantistica). Infine la Statistica moderna, con
tutti i suoi svariati campi d’applicazione (fisica, scienze mediche,
biologia, scienze sociali, psicologia, eccetera) non esisterebbe senza il
Calcolo della Probabilità. Da questi brevissimi cenni sulle origini del
concetto matematico di probabilità, è possibile trarre alcuni elementi
essenziali e specifici. Quali sono? L’origine di questa nuova scienza
matematica, com’è evidenziato nei titoli dei primi libri intorno ad essa
(Cardano, Huygens, Galilei), è il giuoco d’azzardo2, e non ha quindi
origini auliche come altri rami della matematica. Inoltre, già nel titolo
del trattato di J. Bernoulli, si pone l’accento su un altro aspetto
caratteristico della probabilità, insolito per la matematica: la nuova
scienza proposta è “arte del congetturare”, che contrasta con
l’assolutismo della verità matematica che ha imperato fin dall’antichità.
La rivoluzione “relativista” del pensiero matematico, in base alla quale
le asserzioni e i concetti matematici non hanno validità assoluta, bensì
soltanto entro un certo sistema ipotetico-deduttivo, è una conquista del
secolo XIX, quindi posteriore rispetto al periodo in cui nasce il nuovo
Calcolo della Probabilità. In tale nuova scienza matematica, poi, si è ben
consapevoli di trattare con contenuti che non hanno il marchio della
certezza, ma al contrario dell’incertezza, essendo eventi e fatti “da
provare”, da dimostrare certi, (“probabile” deriva dal latino “probabilis”,
che è ciò che deve essere “probatus”, cioè provato) in contrapposizione a
quelli “provati”, cioè dimostrati. Tutto ciò pone questa nuova branca in
una posizione particolare e alquanto singolare rispetto agli
altri rami della matematica. All’uomo comune, “non matematico”, viene
subito spontanea un’osservazione: com’è possibile che la matematica,
scienza esatta per antonomasia, si occupi di ciò che a priori ha il
marchio dell’incertezza, che è “ammissibile in base ad argomenti
abbastanza sicuri” ma non completamente sicuri, quindi si occupi di ciò
che non è sicuramente vero o realizzabile? E non è strano che questa
“matematica dell’incertezza” sia fondata però su una certezza: la
consapevolezza dell’incertezza? L’uomo della strada, non condizionato dai
pregiudizi matematici del passato, nella maniera più spontanea, oggi,
penserebbe che una siffatta scienza non può avere quel carattere di
“oggettività” proprio delle altre scienze matematiche, e non si
scandalizzerebbe, anzi si meraviglierebbe del contrario, di fronte ad un
suo approccio “soggettivista”. Chi non sa di matematica dà quasi per
scontato che, se si vuole dare un valore numerico alla probabilità, vale a
dire all’aspettativa che un evento, non certo, si manifesti vero o si
realizzi, l’unico modo “naturalmente” accettabile di farlo è in base ad un
criterio soggettivo. Così vorrebbe il buon senso comune. Se il Calcolo
della Probabilità fosse nato nella seconda metà del secolo appena
trascorso, tale punto di vista sarebbe stato “probabilmente”,
opportunamente perfezionato, adottato anche dal matematico, grazie ai
profondi mutamenti critici del pensiero matematico iniziati nel secolo XIX
con l’avvento delle geometrie non-euclidee e maggiormente sviluppatesi nel
successivo secolo XX. Ma nella prima metà del secolo XVIII, quando esso
effettivamente nacque con l’Ars Conjectandi di Bernoulli, la mentalità
matematica era ben diversa: i concetti matematici erano considerati veri
in sé e per sé, ed il loro valore era considerato oggettivo. Parlare di
“soggettivo” in matematica era un non senso allora e fino alla metà del
secolo scorso. Tutto questo spiega la “pretesa” di fondare la Teoria della
Probabilità su una realtà che, com’è stato argutamente obiettato, è
soltanto “artificialmente oggettiva”, mentre di fatto non lo è. Dunque,
non deve meravigliare che le prime definizioni che i matematici hanno
proposto per la probabilità abbiano avuto l’ambizione di attribuire alla
probabilità un valore in base a criteri oggettivi, cioè indipendenti
dall’osservatore, quasi che essa fosse una proprietà intrinseca degli
eventi ai quali viene riferita. (continua)
Note:
1 L’insegnamento del Calcolo della Probabilità a livello universitario è
relativamente recente, iniziando circa centocinquanta anni fa.
2 Si può obiettare che anche gli antichi praticavano giochi d’azzardo;
come mai a nessun matematico dell’antichità è venuto in mente di formulare
una teoria matematica della probabilità? Una possibile risposta è che tali
giochi erano effettuati con strumenti, gli “astragali” (figura 2), che
avevano forme talmente diverse tra loro, da non permettere l’osservazione
di nessuna tendenza o presunta “regolarità” nei risultati ottenibili con i
lanci. |