Suoni
dal mondo
(Claudio Comandini) - Se gli interessi che sostengono il
mondo sembrano condannati ad un conflitto di cui non si intravedono ancora
soluzioni, popoli e culture continuano a fare quello che fanno da sempre,
cioè si incontrano, stabilendo confini e oltrepassandoli. Le differenti
culture si compenetrano e si contaminano mostrando universi di senso
irriducibili tanto ai sistemi chiusi di particolarismi e integralismi che
alla piatta omogeneità della globalizzazione finanziaria. Il modo con cui
si sviluppa l’incontro può essere riduttivo o fertile, una sorta di
“pasticcio” insipido o una celebrazione delle “differenze”: la
musica è forse fra tutte le arti quella che può confrontarci
maggiormente con le caratteristiche di un mondo “fluttuante”,
attraversato da identità fluide e formicolante di contaminazioni, con
tutti suoi limiti e possibilità.
A nostro avviso, il doppio concerto di martedì 8 giugno dell’Auditorium
di Roma ben rappresenta questa duplicità di soluzioni, presentando da una
parte Radiodervish (ultimo disco In search of Simurg) e dall’altra
Mercan Dede (ultimo disco Nar). Il primo è un gruppo fondato a Bari,
crocevia culturale (e affaristico) non indifferente, dal cantante e
chitarrista Nabil Salameh, palestinese, e dal chitarrista e bassista
Michele Loboccaro; la loro musica, nonostante una indubbia raffinatezza
melodica e precise citazioni dalla cultura mediorientale (come le poesie
del persiano Farid ad.din Attar, mistico sufi del XII sec.), è sembrata
ampiamente scivolare dalla world music a un pop italiano un po’ di
maniera, affogato in stucchevoli arrangiamenti per archi: suggestiva
forse, ma quasi come la colonna sonora di un sogno di “integrazione al
ribasso”, da consumatori globali compiaciuti.
Invece, Mercan Dede (vero nome Arkin Allen) è un musicista turco
(dall’improbabile capigliatura a “raggiera” ) che vive fra Istambul
e Montréal, adepto contemporaneo del sufismo e apprezzato dj di
tecno-house tribale. Suona il flauto ney e usa con competenza
l’elettronica con i suoi Secret Tribe: in questa occasione il professore
di conservatorio Goksel Baktagir al kanun -una sorta di cetra- e il
quattordicenne Aykut Sutoglu ad un clarinetto che acquisiva sonorità
vicine a quelle della zurna, e due percussionisti. La loro musica,
piuttosto che unire due mondi distinti, sembra scaturire da una specie di
“spazio intrinseco”, meditativo e corporeo, dove si conoscono al loro
“stato nascente”, e sono contemporaneamente l’uno e l’altro, e
significativamente in alcuni brani si svolge assieme dalla danza sufi di
Mira Burke: una donna, che compie una danza originariamente destinata agli
uomini.
Ora, oltre l’Oriente e l’Occidente è l’Africa, madre spesso non
riconosciuta del mondo intero e di tante culture. Può sembrare singolare,
ma a fare una musica dalla netta ispirazione africana è un chitarrista e
cantante di origine americana, vissuto in giro per il mondo e risiedente
da tempo nella campagna dei Castelli Romani: David Hoffman, che con i suoi
Yampapaya (ultimo disco Global Coloured Track), caratterizzati
dall’ampia variabilità di organico, ha offerto il 12 e il 26 giugno due
concerti, nell’iniziativa di beneficenza per gli animali svoltasi presso
Colonna Animal Party, e all’interno della rassegna Sconfinando di
Grottaferrata: se il secondo concerto si è distinto per aver messo a
disposizione del pubblico gli strumenti a percussione, nel primo le
caratteristiche africane del sound si sono messe in evidenza con grande
suggestione grazie alla presenza di tre voci in stile soukous dei
congolesi Teo Lolango, Brian Moussa, e Bixas Liberatore (che inoltre canta
in Francia con l’altro congolese Papauemba), sostenute da un efficace
ritmica rock. Sulla loro scia, la stessa sera hanno suonato, in una delle
loro prime uscite, gli Extramusica, i cui fulcri sono il chitarrista
Luciano De Cesaris e il cantante e percussionista toghese Joel Ayeboua
(che la il 26 ha suonato anche con Yampapaya): promettenti, per quanto
bisognosi di sviluppare maggiore originalità.
E sempre il 12, la formazione Memoria Zero (ultimo disco Free sdraio) con
il chitarrista e altosassofonista Ettore Scandale, il chitarrista Antonio
Acunzo, il bassista Stefano Acunzo, il batterista Marco Della Rocca, ha
presentato il suo sound elettrico e decadente, dove la matrice rock rivela
esigenze di ricerca, nel tentativo di portare una musica occidentale oltre
i suoi presupposti: forse, in questa serata, in maniera meno incisiva di
altre occasioni.
Per osservare questa tendenza in uno dei suoi momenti più riusciti,
bisogna andare al concerto dei Tuxedomoon (ultima uscita Cabin in the sky,
ma ascoltare almeno Desire, 1981, e Holy wars, 1885) a Roma aVilla Ada il
27: lo storico gruppo che esplorò le forme più avanzate del post-punk,
cioè di un universo musicale da ricostruire dopo l’azzeramento dei suoi
presupposti, ancora costruisce le sue ardite ipotesi sulle escursioni del
sax soprano di Steve Brown, le tirate al violino di Blaime Reininger, il
basso rotondo e ostinato di Peter Principle (con la formazione ha
collaborato spesso il performer giapponese Wiston Tong), e una elettronica
né ambiente né effetto, ma semplicemente continua risorsa musicale per
un equilibrio mai risolto fra melodie struggenti e canzoni ispirate e
momenti musicali fortemente sperimentali.
La tensione ad una musica tanto libera di forme precostituite quanto
capace di autoorganizzarsi in ogni suo passaggio, a ben vedere né
occidentale né orientale perché ha sommato e superato ambedue le
direttrici, è stata invece ben espressa dai General Disaster, quintetto
del contrabbassista Roberto Bellatalla (a lungo in Inghilterra con
personaggi come il pianista Keith Tippet), che con il trombonista Daniele
Persanti, l’altosassofonista e clarinettista Michael Tieke, il
chitarrista Antonio Iasevoli e il batterista Marco Ariano (questi ultimi
due anche nella Etruria Criminale Banda) hanno debuttato con piena maturità
stilistica il 16 giugno all’Astra di Roma.
Con tentazioni d’impronta anglo-americana ormai ampiamente alle spalle
è quindi la Etruria Criminale Banda, originale formazione di circa venti
elementi che in una formazione acustica e ridotta di nove elementi (!) il
19 giugno a Grottaferrata nella rassegna Sconfinando ha offerto una
spettacolo coinvolgente e divertente, dove a fianco dell’influenza
balcanica (zona di metissage fra Oriente e Occidente) si mantiene il gusto
sia per la melodia che per l’improvvisazione, le cui punte sono state
nei pezzi cantati da Nando Di Cosimo e nelle sortite solistiche del
clarinetto dixie di Sebastiano Forti, oltre che nel canto armonico con cui
Edu Nofri, anche chitarrista, contrappunta efficacemente molti dei brani.
Intanto, sempre il 19 giugno, al Reggae Rock Festival di Guidonia,
suonavano i Cardamomo fondati dal chitarrista e cantante Andrea Mollica,
che con una fitta ritmica di basso batteria e percussioni e la voce
femminile di Irene Amata, la chitarra solista di Raffaele Cacciaglia e il
moog di Francesco Ranieri sviluppano un reggae psichedelico dai testi
politicamente impegnati, che ha già avuto modo di imporsi
all’attenzione di che ama il ballo ma non cerca solo semplice
intrattenimento.
E al di là delle parole, l’impegno può avere anche la forma della
ricerca rigorosa sulle tradizioni popolari, e ad un convegno di
etnomusicologia svoltosi sabato 26 al Palazzo della Provincia di Roma, ha
suonato La Piazza, gruppo storico di musica del Lazio fondato da Sara
Modigliani, già voce del Canzoniere del Lazio, che con Simone Colavecchi
alla chitarra e tamburello, Gabriele Modigliani alla chitarra, e Pino
Pontuali all’organetto, dimostrando che ciò che è tradizione non per
forza è passato.
Ma oltre l’Oriente, l’Occidente, l’Africa e l’Italia, c’è il
mondo, il quale visto nel suo insieme ci fa comprendere che tante
distinzioni sono convenzionali, e quel che conta è la musica, e gli spazi
che sa aprire: viaggiando per 11 paesi ed 8 lingue, in un memorabile
concerto al Villaggio Globale di Roma il 24 giugno, i 17 elementi (più
direttore, Mario Tronco degli Avion Travel) della Orchestra di Piazza
Vittorio (che ha appena pubblicato un disco omonimo) hanno in definitiva
ricordato questo, che più che un “messaggio”, è un modo fondamentale
di intendere le cose. Sorprendenti incroci fra voci dell’Ecuador (Carlos
Paz), dell’India (Mohammed Bilal) e della Tunisia (Houcine Ataa), una
violoncellista ungherese (Eszter Nagypal)
a fianco di un violinista elettrico di New York (John Maida) più
in là un violino andaluso-marocchino (Abdel Majid Karam), dall’altra
parte un rumeno al cymbalion (Marian Serban), poi un tunisino con un uod
elettrico (Ziad Trabelsi), un contrabbassista romano (Giuseppe Pecorelli),
un trombettista cubano (Omar Lopez Valle, anche con gli Yampapaya), un
sassofonista di Dragona, Caserta (Peppe D’Argenzio, anche con gli Avion
Travel), un cornista pugliese, le tabla indiane (Amrit Hussain),
percussioni dal Senegal (El Hadji Yeri Samb) e da Cuba, un batterista
argentino (Raul Scebba), con inoltre l’intervento di un chitarrista
italiano per un brano (i nomi omessi dipendono dalla differenza fra
l’organico del concerto e la formazione presentata sul sito
www.orchestradipiazzavittorio.it, utile inoltre per chi fosse interessato
a sottoporsi ad un provino per entrare nell’orchestra…), tutti
notevoli sia negli impasti orchestrali che negli assolo. E tutto ciò non
è melting-pot, fusione consumistica priva di culture autonome, ma uno
spazio aperto dove le peculiarità si esprimono per quello che sono,
mettendo in comune linguaggi ed esperienze.
Dopo un mese di concerti, possiamo dire che se il mondo seguisse la sua
anima musicale, non ci sarebbe nemmeno tempo per distrarsi con guerre ed
altre atrocità. Ma i “potenti” e i loro servi compiaciuti
probabilmente non hanno alcuna considerazione per la musica (a parte
promuovere quella, falsa, che favorisce il consenso nei loro confronti),
troppo impegnati nel tentativo di dominare un mondo pieno di rovine e
finalmente silenzioso.
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