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Sommario anno XIII numero 7 - luglio 2004

 ATTUALITÀ

La narrativa di Michelangelo Antonioni
(Caterina Rosolino) - BLOW-UP (1966)

Come in una fotografia vi sono elementi che incorniciano l’immagine, così le riprese iniziali del film, un camioncino di ragazzi travestiti da pagliaccio, si ritrovano nel finale. Questo perché la storia del fotografo che prepara il suo album non è raccontata da un narratore onnisciente: l’occhio della telecamera sembra corrispondere all’occhio del fotografo. Ed ecco che il film stesso si presenta come una ricerca del vedere, in cui lo spettatore non è ricettore passivo.
È la storia di un fotografo che per completare un album, che ha come tema la violenza, vuole servirsi di alcune fotografie scattate in un giardino pubblico. Sono le immagini di due amanti. “Un finale di pace andrà bene!” esclama soddisfatto, ma presto Thomas dovrà ricredersi. Quando sviluppa le foto si accorge d’una realtà che non aveva colto. Dopo essersi assentato rientra in studio: le foto sono sparite tranne una. E alla donna che è con lui in quel momento dirà “Non ho visto nulla”. L’unico testimone del fatto dunque non è lui: il suo occhio umano non è riuscito a cogliere quello che la macchina fotografica aveva catturato, così che in mancanza delle immagini la realtà è perduta, Thomas non può raccontarla (“non ho visto nulla”). È un segreto lasciato a quel giardino, luogo del mistero, dove ancora Thomas si ritrova in cerca degli ultimi brandelli, delle tracce d’un episodio smarrito…e invece vi trova un gruppo di ragazzi travestiti da pagliacci, che fingono di giocare una partita a tennis con una pallina invisibile. Quando la pallina invisibile cade fuori del campo sta a lui raccoglierla.
Tutti si voltano verso di lui, e Thomas sceglie di partecipare al gioco: si allontana verso la direzione che gli sguardi gli indicano nel vuoto, raccoglie l’invisibile  e lo respinge indietro, come per tutto il film si appropria di oggetti finiti per sbaglio fuori dal campo in cui hanno un senso, non può che respingere indietro involontariamente (perché sono le cose che s’incaricano di sfuggirgli) una realtà inconoscibile.

ZABRISKIE POINT (1970)
Siamo nell’america degli anni ‘ 70, nel tumulto d’una rivolta studentesca un ragazzo spara a un poliziotto e lo uccide. Da qui ha inizio la sua fuga dal mondo. Nel paesaggio desertico incontra chi come lui sta scappando dalla quotidianità della vita. E proprio in questo viaggio fuori la realtà esplodono gli istinti in essa repressi, s’intreccia la nudità dei corpi alla nudità d’un paesaggio dimenticato dagli uomini, in cui gli uomini si dimenticano e si ritrovano per un attimo in un respiro di pace: amore. Una pace che dura poco. Il ragazzo che torna con i piedi per terra, ha appena il tempo di atterrare con l’ aeroplano che viene subito accerchiato dalla paura (le macchine della polizia), e di conseguenza preso in trappola dalla morte. Segue il pianto d’un ruscello sul corpo della ragazza, entrata in una villa e il falò della villa immaginato dalla ragazza, che brucia di rabbia.
Gli elementi terra, aria, acqua, fuoco nel film divengono simboli dei sentimenti umani. L’interpretazione non è forzata ma nasce dall’osservazione: ogni elemento viene ripreso a lungo e nella seguente successione: la terra, simbolo di fecondità, nella scena del deserto in cui i due si amano; l’aria nel momento successivo in cui il protagonista vola tra le nuvole e sogna la libertà; l’acqua che scende con la tristezza; il fuoco della rabbia che distrugge.

 ATTUALITÀ

Sommario anno XIII numero 7 - luglio 2004