La
narrativa di Michelangelo Antonioni
(Caterina Rosolino) - BLOW-UP (1966)
Come
in una fotografia vi sono elementi che incorniciano l’immagine, così le
riprese iniziali del film, un camioncino di ragazzi travestiti da
pagliaccio, si ritrovano nel finale. Questo perché la storia del
fotografo che prepara il suo album non è raccontata da un narratore
onnisciente: l’occhio della telecamera sembra corrispondere all’occhio
del fotografo. Ed ecco che il film stesso si presenta come una ricerca del
vedere, in cui lo spettatore non è ricettore passivo.
È la storia di un
fotografo che per completare un album, che ha come tema la violenza, vuole
servirsi di alcune fotografie scattate in un giardino pubblico. Sono le
immagini di due amanti. “Un finale di pace andrà bene!” esclama
soddisfatto, ma presto Thomas dovrà ricredersi. Quando sviluppa le foto
si accorge d’una realtà che non aveva colto. Dopo essersi assentato
rientra in studio: le foto sono sparite tranne una. E alla donna che è
con lui in quel momento dirà “Non ho visto nulla”. L’unico
testimone del fatto dunque non è lui: il suo occhio umano non è riuscito
a cogliere quello che la macchina fotografica aveva catturato, così che
in mancanza delle immagini la realtà è perduta, Thomas non può
raccontarla (“non ho visto nulla”). È un segreto lasciato a quel
giardino, luogo del mistero, dove ancora Thomas si ritrova in cerca degli
ultimi brandelli, delle tracce d’un episodio smarrito…e invece vi
trova un gruppo di ragazzi travestiti da pagliacci, che fingono di giocare
una partita a tennis con una pallina invisibile. Quando la pallina
invisibile cade fuori del campo sta a lui raccoglierla.
Tutti si voltano verso
di lui, e Thomas sceglie di partecipare al gioco: si allontana verso la
direzione che gli sguardi gli indicano nel vuoto, raccoglie l’invisibile
e lo respinge indietro, come per tutto il film si appropria
di oggetti finiti per sbaglio fuori dal campo in cui hanno un senso, non
può che respingere indietro involontariamente (perché sono le cose che
s’incaricano di sfuggirgli) una realtà inconoscibile.
ZABRISKIE POINT (1970)
Siamo
nell’america degli anni ‘ 70, nel tumulto d’una rivolta studentesca
un ragazzo spara a un poliziotto e lo uccide. Da qui ha inizio la sua fuga
dal mondo. Nel paesaggio desertico incontra chi come lui sta scappando
dalla quotidianità della vita. E proprio in questo viaggio fuori la realtà
esplodono gli istinti in essa repressi, s’intreccia la nudità dei corpi
alla nudità d’un paesaggio dimenticato dagli uomini, in cui gli uomini
si dimenticano e si ritrovano per un attimo in un respiro di pace: amore.
Una pace che dura poco. Il ragazzo che torna con i piedi per terra, ha
appena il tempo di atterrare con l’ aeroplano che viene subito
accerchiato dalla paura (le
macchine della polizia), e di conseguenza preso in trappola dalla morte.
Segue il pianto d’un ruscello sul corpo della ragazza, entrata in una
villa e il falò della villa immaginato dalla ragazza, che brucia di
rabbia.
Gli elementi terra,
aria, acqua, fuoco nel film divengono simboli dei sentimenti umani.
L’interpretazione non è forzata ma nasce dall’osservazione: ogni
elemento viene ripreso a lungo e nella seguente successione: la terra,
simbolo di fecondità, nella scena del deserto in cui i due si amano;
l’aria nel momento successivo in cui il protagonista vola tra le nuvole
e sogna la libertà; l’acqua che scende con la tristezza; il fuoco della
rabbia che distrugge.
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