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Sommario anno XIII numero 8 - agosto 2004

 CINEMA

Big fish, di Tim Burton
(Federico Scrimaglio) - Edward Bloom per tutta la vita ha raccontato a chiunque gli capitasse sotto tiro storie. O meglio, la storia, fatta di mille fantastiche avventure, della sua vita. Cosa che non è mai andata a genio al figlio: fa il giornalista e ce l’ha col padre per questo suo modo di mettersi in prima fila a incantare gli occasionali ascoltatori con le sue straodinarie vicende.
Edward Bloom adesso sta morendo: anche se è costretto a letto non la smette col suo vizio di inventare. Stavolta però i nodi vengono al pettine: deve fare i conti con la rabbia del figlio che vuole sapere la verità su quelle storie e suo padre; perché sta diventando a sua volta padre e cosa potrà mai racccontare a suo figlio del nonno? La favola sembra non bastare più e la domanda è di quelle impegnative: è vero? Proprio come chiedono sempre i bambini.
Ce lo chiediamo pure noi o almeno ci proviamo. Anche se veniamo subito incantati dal fascino di Bloom; dalla voce off del figlio che racconta la storia del padre: quella che comincia e finisce con l’immagine del grande pesce.
Perché nel mondo di Bloom essere un grande pesce significa aver combinato qualcosa nella vita; non è solo una metafora. In questo film immaginazione e realtà si stringono amichevolmente la mano nel guidare la vita degli uomini.
Nei suoi altri film Tim Burton aveva creato mondi immersi nella loro dimensione favolistica, senza alcun legame con una possibile realtà quotidiana: il gotico piovoso di Batman, l’humor nero dei morti di Beeteljuice, il poetico e originale Edward mani di forbice. Questa volta, accanto a quell’universo immaginario che si sbizzarrisce nei racconti che fanno parte della vita di Bloom, c’è la forte presenza di un mondo “reale”: fatto di dolore, speranza, bisogno di comprensione e ascolto.
I personaggi favolosi che Bloom ha sempre descritto possono essere persone reali che ha incontrato ed esaltato o “preso in prestito” per creare le sue affascinanti avventure. Allora, dove sta la “verità”?
Qui si comprende il valore della fantasia: intensifica la vita, la esalta in aspetti trascurati; insomma, ci apre gli occhi.
È un gioco continuo, tra realtà e finzione, fatto di rimandi e ammiccamenti dove chi, come il figlio di Bloom, è molto scettico può vivere i suoi momenti “strani”: sta pulendo la piscina e vede nell’acqua guizzar via un grosso pesce; come quello delle favole che gli raccontava da piccolo suo padre. È solo un attimo: realtà, allucinazione o miracolo?
E sarà proprio lui, così diffidente, a prendere il posto del cantastorie nel finale e a raccontare “com’è andata” a finire la storia di Edward Bloom, con un grande atto di pietà e comprensione nei confronti del padre: naturalmente è una fine straordinaria. È un passaggio che segna l’accettazione di un modo di essere, di uno sguardo diverso sulla vita. Ora, il figlio sa cosa racconterà al bambino che sta per nasccere di suo nonno.

 CINEMA

Sommario anno XIII numero 8 - agosto 2004