grottaferrata
San Nilo: Millenario 1004 - 2004
(sesta parte)
(Massimo Medici) - Le Biblioteche dei conventi
E, finalmente, siamo arrivati a parlare delle antiche biblioteche degli
antichi conventi: È stata una gran fortuna che, subito dopo la caduta
dell’Impero di Roma, al tempo delle invasioni barbariche (ma anche dopo,
quando l’Italia subiva le scorrerie di mille eserciti) vi fosse qualcuno
che gelosamente si preoccupasse di conservare le numerose opere del
pensiero latino e greco. In quel mare in burrasca che era l’Italia di quei
tempi, i monasteri offrirono sicuro rifugio a quegli scritti, non solo
salvandoli dalla distruzione, ma riproducendoli in numerose copie, una per
una scritte a mano, divenendo così, non solo centri di preghiera, ma anche
oasi di cultura. Anche quelli che fondò san Nilo attesero a questo
importante compito: conservare e trasmettere ai posteri gli scritti latini
e greci. Però le sue case religiose ebbero un nemico in più: i pirati
saraceni che, allorquando sbarcavano sulle coste meridionali della
Penisola per depredare gli abitanti, ritenevano anche di dover dare alle
fiamme i libri dei conventi per combattere il Cristianesimo.
Ciascuno, essendo fermamente convinto di essere nel giusto e di professare
l’unica vera religione, appariva “infedele” agli occhi dell’altro. Nessuno
di loro capiva che quando pregava il proprio Dio, il mittente era diverso,
ma il Destinatario era lo stesso, nonostante le parole usate fossero
tratte da idiomi diversi.
Il modestissimo autore di queste povere righe, non ha mai capito come
questa semplicissima considerazione non sia mai stata compresa in tutta la
storia dell’uomo grondante sangue a tal proposito. Basterebbe accennare
alle guerre di religione che travagliarono l’Europa tra il XVI e il XVII
secolo a seguito della Riforma protestante. Basta ricordare le sofferenze
che Carlo V inflisse ai tedeschi perché abbandonassero il protestantesimo.
Le leggi in forza delle quali i popoli dovessero seguire la religione del
loro principe. La cos’ chiamata “cuius regio eius religio”. Tutte le lotte
di religione che divamparono fra i Cantoni svizzeri, finché si accordarono
che ogni Cantone potesse praticare il culto che desiderava. Per non
parlare della rivolta della Valtellina, che era cattolica, contro i
soprusi e le violenze dei protestanti… ampiamente controbilanciate dai
roghi cattolici che punivano gli eretici ed i liberi pensatori. E poi
l’Inquisizione spagnola e non. E poi ancora la repressione di Filippo II
nei Paesi Bassi che si protrasse per mezzo secolo fino alla pace di Aversa
che, finalmente, ammise il distacco dei Paesi Bassi del Nord (che erano
protestanti) da quelli del Sud (che erano cattolici) e che avevano giurato
fedeltà al re di Spagna. Infine la Spagna, dopo molte lotte (e molto
sangue) riconobbe l’indipendenza dell’Olanda. E che dire delle guerre di
religione che travolsero i Valdesi, gli Ugonotti e i Cattolici, tutti
stretti in un turbine di sangue?
Che uomini i Romani (parlo degli antichi, naturalmente) che
intelligentemente e saggiamente seppero riunire nel Pantheon tutti gli déi
sia domestici che provenienti da lontano al fine che tutti fossero adorati
allo stesso modo da chiunque volesse accostarsi al divino. Che uomini e
che popolo! L’unico che avesse compreso la logica perfetta del sincretismo
religioso, anche se per fini politici.
Leggendo le pagine della storia non ci siamo (quasi mai) resi conto di
come il soggiorno su questa “valle di lacrime”, già breve di per sé e
pieno di pericoli, sarebbe meno lacrimevole se non si aggiungessero ai
problemi propri della condizione umana, anche quelli che ci industriamo a
creare con le nostre mani. Ma, tant’è, le cose stanno così e poiché
sicuramente non cambieranno, non divaghiamo oltre e torniamo
all’argomento.
Dunque, per sfuggire ai pirati di cui s’è detto, san Nilo risalì la
Penisola giungendo infine a Grottaferrata, dove fondò il suo convento e la
sua ultima biblioteca, dove trovarono finalmente riparo i suoi preziosi
manoscritti.
Prima, però, di trattare delle biblioteche dei conventi, è bene accennare
a come si redigessero nell’antichità i volumi che, poi, arricchivano la
cultura dei greci e dei romani antichi.
A quel tempo la scrittura dei testi era affidata esclusivamente a schiavi
al servizio dei privati o riuniti in comunità ed addestrati, fin
dall’infanzia, al lavoro calligrafico. Erano, peraltro, molto stimati a
seconda del personale talento e della loro cultura. Quando poi,
raggiungevano una certa capacità, prendevano il nome di “librarius”
(copista), oppure di “amanuensis”. Gli scavi di Pompei svelarono una
libreria con annesso laboratorio di copia, gestito a volte dagli stessi
copisti, molti dei quali avevano la condizione di “liberti”, cioè di ex
schiavi, prevalentemente greci, affrancati in conseguenza della loro
cultura. Il copista aveva, a volte, anche il compito di decorare i
manoscritti; ne incollava insieme le varie pagine, rilegandole infine a
formarne volumi. In questo caso assurgeva alla dignità ed all’incarico di
“bibliotecarius”:
Col diffondersi del cristianesimo e, successivamente a causa delle
invasioni barbariche, questa professione fu coltivata quasi esclusivamente
all’interno dei monasteri. San Girolamo, fin dal IV secolo, l’aveva
indicata come attività specialmente adatta alla vita monacale e fu così
che divenne l’occupazione principale dei monaci di molti ordini religiosi.
In quelle case religiose lo studio della calligrafia e della miniatura era
addirittura prescritta dalle regole monastiche, a cominciare dai
Benedettini. Sotto Carlo Magno si era soliti fissare il numero delle copie
che ciascun scrivano doveva stilare ogni anno. Si ricorda la famosa Bibbia
copiata nell’anno 796 in quanto opera magnifica del Monastero di san
Martino di Tours. Anche gli Ordini femminili fin dal Medioevo concorsero
validamente alla trascrizione dei testi antichi con pregevolissime opere
giunte quasi intatte fino a noi.
Il locale usato dagli “amanuensi” per il loro lavoro era chiamato
“scriptorium” ed era quasi sempre annesso alla biblioteca. All’entrata di
quelle stanze era spesso appeso un cartello: “silentium” e vi potevano
entrare soltanto i copisti, il bibliotecario ed i superiori. Gli scrivani
sedevano su alti sgabelli di fronte ad appositi tavoli e copiavano ognuno
un testo diverso dagli altri, oppure pagine singole di una stessa opera. A
volte erano riuniti tutti insieme e scrivevano sotto dettatura dell’ “armarius”,
riproducendo così molte copie dello stesso libro. Era un metodo che
metteva in competizione fra loro gli scrivani che tendevano a superarsi
vicendevolmente nella perfezione della calligrafia, ottenendo in questo
modo delle copie di particolare bellezza.
Col passare del tempo, poiché gli errori di scrittura erano sempre in
agguato, si formarono gruppi di correttori che dovevano rileggere ciascun
libro da cima a fondo correggendone, appunto gli errori. Nel XII secolo si
sviluppò la Corporazione degli scritturali di mestiere che si occupava
tanto delle opere anticher quanto di quelle teologiche.
È interessante, per noi moderni, andare a scoprire quale fosse l’aspetto
retributivo dei copisti. Ebbene, i salari di calligrafi erano computati,
secondo il metodo greco “a stixoi”, cioè a seconda del numero delle righe.
Oppure “a pecial”, ossia ogni due fogli interi di scrittura. Quest’ultimo
metodo era in uso nelle Università medioevali. Per i libri miniati, si
veniva pagati anche per ogni lettera, poiché spesso ognuna di quelle era
un piccolo quadro molto difficile da eseguire. (continua)
grottaferrata
S. Nilo e i suoi tempi - 8
(di Claudio Comandini)
7. Discepoli e maestri
Fantino,
egumeno al monastero del Mercurion, ogni settimana si reca alla grotta
dove Nilo pratica l’ascesi per portargli tre pani (ha dovuto insistere per
farglieli accettare), che scambia con trascrizioni di libri. Vedendolo
malato, lo convince a seguirlo al monastero. Per il suo tumore alla gola,
Nilo non riesce a mangiare e beve con fatica, eppure (fedele ai precetti
di Salmo CXLV (CXLIV), 19, e Romani VII, 7) resiste al forte desiderio di
mangiare del pesce, anche quando gliene viene offerta una discreta
quantità, sia lessa che arrostita. Interviene uno stimato monaco
proveniente dalla limitrofe zone del Latiniano, Lagonegro e Salernitano,
che gli offre, in nome di Cristo, il cesto di pesci.
Nilo accetta, sia per l’esortazione e probabilmente anche in virtù di un
legame che intratteneva con il monaco, ottimo cantante come del resto lui
stesso, inoltre compositore di inni sacri. Nilo infatti trasmette alla
chiesa latina i più antichi inni del mondo greco, e fonda anche diversi
scriptoria, fra i quali si distingue la scuola
melodico-innografica-criptense, diretta dal suo discepolo s. Bartolomeo
(l’autore della sua biografia). Di Nilo ci sono giunti canone, contacio e
prosomi dedicati a s. Benedetto, il contacio per s. Nilo Sinaita, l’inno
per s. Paolo, e decine di codici melurgici e innografici.
Dio ricompensa Nilo e “gli venne egli stesso in aiuto” facendogli sputare
il tumore dalla bocca, che emette “grande quantità di marcia”. Nilo,
“sollevato un poco”, torna alla solitudine, che “riteneva come sua madre”.
Intanto altre prove attendono Nilo perché possa essere “legittimamente
coronato”, e coerentemente con la concezione cristiana, il “diavolo” si
accanisce su di lui sostanzialmente per permettergli di “perfezionarsi”
ulteriormente: infatti, “se la Provvidenza di Dio glielo avesse permesso,
gli avrebbe tolto anche la vita.” Il nuovo attacco è addirittura condotto
sul piano fisico, in forma piuttosto violenta: mentre è intento a
salmeggiare e a genuflettersi nella grotta che si è scavato, “gli appare
il diavolo in forma di etiope”, che con una mazza gli da un poderoso colpo
in testa. Il “soccorso” a Dio è formulato continuando la recitazione del
Salmo LXX (LXIX) 2-4, e con il volto sinistro gonfio, il braccio
paralizzato, la preoccupazione maggiore che riesce ad esprimere è quella
di non potere più “soddisfare il dovere delle sue preghiere”. Nilo passa
tutto l’anno malconcio rifiutando di medicarsi, persuaso dal suo spirito
di penitenza “che le ferite inflitte dai demoni non possono guarirsi dalla
mano dell’uomo”, e che il dolore fisico gli fosse permesso per meglio
santificare la sua anima.
Per la festa di s. Pietro e Paolo, il 29 giugno al monastero si incontrano
i loro “imitatori” Nilo e Fantino, che passano una notte di veglia a
cantare gli inni, ascoltatati dagli altri monaci; Fantino prega Nilo di
alzarsi per leggere l’encomio dei ss. Apostoli di s. Giovanni Damasceno
(attualmente irreperibile secondo le ricerche del Giovannelli), una prosa
ornata con versi giambi (cioè con parti sciolte e parti ritmiche). Anche
se è ancora “mezzo rattrappito” Nilo obbedisce e si alza, e appena inizia
la lettura, il dolore scompare. Ne parla solo il mattino dopo con Fantino,
rigranziandolo di aver fatto “mediazione”; Fantino attribuisce il
“prodigio” alla sua obbedienza e all’intercessione degli apostoli, e in
pratica fanno a gara di umiltà nel trattenersi dal “darne gloria a Dio”.
La Provvidenza comunque lascia a Nilo “piccole tracce del suo male” che
porta fino alla vecchiaia, perché “gli ricordassero la sua protezione e la
sua cura per lui”.
Durante il secondo anno presso la grotta, a Nilo giunge dal suo stesso
paese un primo discepolo, Stefano di Rossano. Ora, nel testo del Bios, s.
Bartolomeo mentre afferma che dai frutti dobbiamo “ammirare” l’albero,
aggiunge che le mancanze dei seguaci nell’“imitare” i santi sono oggetto
di perdono: l’ambivalenza del passaggio è chiarita dal Giovannelli, che
ammette la sostanziale idiozia del discepolo di Nilo. Stefano, contadino
ventenne, orfano di padre con madre e sorella a carico (a cui seguendo
Matteo X, 37, preferiva il Cristo) viene infatti paragonato a figure come
Giobbe, o Paolo il semplice discepolo di Antonio Abate. Stefano un giorno
si affianca a Nilo senza dire una parola, e solo al tramonto c’è lo
scambio di battute fra i due. Nilo inizialmente gli dice di andare presso
un altro monastero, poi lo esorta a prendersi cura della propria famiglia.
Alla fine lo prende con sé, e gli dà da mangiare il mezzo pane rimastogli,
restando digiuno.
Stefano si rivela di carattere “rozzo e pigro”, ma Nilo si astiene
dall’incollerirsi con lui (come prescritto da Matteo V, 22), e lo
“correggeva con calma e mansuetudine”. Poi, forse ricordando la sentenza
del poeta latino Orazio sulla difficile educazione delle disposizioni
naturali (citata nel testo da s. Bartolomeo), comincia a prendere in
considerazioni “materie dure e mortificanti” per permettergli una seria
“formazione”, e quindi gli impartisce continui rimproveri e ingiurie,
insegnandogli salterio e orazioni a suon di schiaffi. Stefano non se ne
offende, anzi, “sopportava tutto con allegrezza” per conformarsi
all’insegnamento: venendo per questo preservato da “attacchi diabolici”.
L’unico aspetto di afflizione, l’esser “troppo assalito dal sonno”.
Nilo allora gli fa uno sgabello con un piede solo, che argutamente diviene
strumento di meditazione sulla Trinità: “Ecco qua, tu hai due piedi e uno
lo sgabello, che fanno tre”. Stefano prende a sedersi solo su quello, a
meditazione, a chiesa, perfino a mensa, con esiti a dire il vero anche
umoristici: “molte volte vinto dal sonno cadeva a terra, facendosi male
ora nel braccio e ora nella faccia”.
L’insegnamento e la vita quotidiana non sono distinguibili, ed ogni atto
diventa occasione di ammaestramento. Un giorno Stefano si mette a lessare
in un tegame più fagioli di quanti ne potessero entrare, e quello si
rompe. Raccolti i cocci e i residui, li mostra a Nilo, ammettendo la sua
colpa. Nilo gli ordina di mostrarli anche ai monaci dei monasteri, e
Stefano si reca al Mercurion da Fantino, che compresi i motivi di Nilo,
prima di “rimandarglielo corretto per l’avvenire” raccoglie i cocci con un
filo e “glieli sospese al collo”, facendolo così “stare in refettorio,
mentre i fratelli mangiavano”. Il brutale educativo di Nilo trova spesso
spazio a tavola: infatti un’altra volta Stefano coglie degli asparagi, li
lessa e li offre a Nilo per pranzo. Apprezzatili con gusto, chiede a
Stefano se fossero piaciuti anche a lui. Alla sua conferma, Nilo gli
ordina di buttarli, dicendo: “Questi erbaggi, che di natura loro sono
amari, li ha resi saporiti e dolci il diavolo”.
Nilo prende poi interessamento alla madre e alla sorella di Stefano, e lo
mette in contatto con Madre Teodora, una “vergine molto veneranda”,
superiora in un convento presso l’Arenario, che accoglie le due donne
presso di sé. Fino alla loro morte, tutti gli anni Stefano al “tempo della
mietitura” si reca a quel monastero, per tornare poi a lavorare nel suo,
“esercitandosi” sia nel digiuno che nella fatica. |