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Sommario anno XIII numero 10 - ottobre 2004

 I NOSTRI PAESI - pagina 12

grottaferrata
San Nilo: Millenario 1004 - 2004  (sesta parte)
(Massimo Medici) - Le Biblioteche dei conventi
E, finalmente, siamo arrivati a parlare delle antiche biblioteche degli antichi conventi: È stata una gran fortuna che, subito dopo la caduta dell’Impero di Roma, al tempo delle invasioni barbariche (ma anche dopo, quando l’Italia subiva le scorrerie di mille eserciti) vi fosse qualcuno che gelosamente si preoccupasse di conservare le numerose opere del pensiero latino e greco. In quel mare in burrasca che era l’Italia di quei tempi, i monasteri offrirono sicuro rifugio a quegli scritti, non solo salvandoli dalla distruzione, ma riproducendoli in numerose copie, una per una scritte a mano, divenendo così, non solo centri di preghiera, ma anche oasi di cultura. Anche quelli che fondò san Nilo attesero a questo importante compito: conservare e trasmettere ai posteri gli scritti latini e greci. Però le sue case religiose ebbero un nemico in più: i pirati saraceni che, allorquando sbarcavano sulle coste meridionali della Penisola per depredare gli abitanti, ritenevano anche di dover dare alle fiamme i libri dei conventi per combattere il Cristianesimo.
Ciascuno, essendo fermamente convinto di essere nel giusto e di professare l’unica vera religione, appariva “infedele” agli occhi dell’altro. Nessuno di loro capiva che quando pregava il proprio Dio, il mittente era diverso, ma il Destinatario era lo stesso, nonostante le parole usate fossero tratte da idiomi diversi.
Il modestissimo autore di queste povere righe, non ha mai capito come questa semplicissima considerazione non sia mai stata compresa in tutta la storia dell’uomo grondante sangue a tal proposito. Basterebbe accennare alle guerre di religione che travagliarono l’Europa tra il XVI e il XVII secolo a seguito della Riforma protestante. Basta ricordare le sofferenze che Carlo V inflisse ai tedeschi perché abbandonassero il protestantesimo. Le leggi in forza delle quali i popoli dovessero seguire la religione del loro principe. La cos’ chiamata “cuius regio eius religio”. Tutte le lotte di religione che divamparono fra i Cantoni svizzeri, finché si accordarono che ogni Cantone potesse praticare il culto che desiderava. Per non parlare della rivolta della Valtellina, che era cattolica, contro i soprusi e le violenze dei protestanti… ampiamente controbilanciate dai roghi cattolici che punivano gli eretici ed i liberi pensatori. E poi l’Inquisizione spagnola e non. E poi ancora la repressione di Filippo II nei Paesi Bassi che si protrasse per mezzo secolo fino alla pace di Aversa che, finalmente, ammise il distacco dei Paesi Bassi del Nord (che erano protestanti) da quelli del Sud (che erano cattolici) e che avevano giurato fedeltà al re di Spagna. Infine la Spagna, dopo molte lotte (e molto sangue) riconobbe l’indipendenza dell’Olanda. E che dire delle guerre di religione che travolsero i Valdesi, gli Ugonotti e i Cattolici, tutti stretti in un turbine di sangue?
Che uomini i Romani (parlo degli antichi, naturalmente) che intelligentemente e saggiamente seppero riunire nel Pantheon tutti gli déi sia domestici che provenienti da lontano al fine che tutti fossero adorati allo stesso modo da chiunque volesse accostarsi al divino. Che uomini e che popolo! L’unico che avesse compreso la logica perfetta del sincretismo religioso, anche se per fini politici.
Leggendo le pagine della storia non ci siamo (quasi mai) resi conto di come il soggiorno su questa “valle di lacrime”, già breve di per sé e pieno di pericoli, sarebbe meno lacrimevole se non si aggiungessero ai problemi propri della condizione umana, anche quelli che ci industriamo a creare con le nostre mani. Ma, tant’è, le cose stanno così e poiché sicuramente non cambieranno, non divaghiamo oltre e torniamo all’argomento.
Dunque, per sfuggire ai pirati di cui s’è detto, san Nilo risalì la Penisola giungendo infine a Grottaferrata, dove fondò il suo convento e la sua ultima biblioteca, dove trovarono finalmente riparo i suoi preziosi manoscritti.
Prima, però, di trattare delle biblioteche dei conventi, è bene accennare a come si redigessero nell’antichità i volumi che, poi, arricchivano la cultura dei greci e dei romani antichi.
A quel tempo la scrittura dei testi era affidata esclusivamente a schiavi al servizio dei privati o riuniti in comunità ed addestrati, fin dall’infanzia, al lavoro calligrafico. Erano, peraltro, molto stimati a seconda del personale talento e della loro cultura. Quando poi, raggiungevano una certa capacità, prendevano il nome di “librarius” (copista), oppure di “amanuensis”. Gli scavi di Pompei svelarono una libreria con annesso laboratorio di copia, gestito a volte dagli stessi copisti, molti dei quali avevano la condizione di “liberti”, cioè di ex schiavi, prevalentemente greci, affrancati in conseguenza della loro cultura. Il copista aveva, a volte, anche il compito di decorare i manoscritti; ne incollava insieme le varie pagine, rilegandole infine a formarne volumi. In questo caso assurgeva alla dignità ed all’incarico di “bibliotecarius”:
Col diffondersi del cristianesimo e, successivamente a causa delle invasioni barbariche, questa professione fu coltivata quasi esclusivamente all’interno dei monasteri. San Girolamo, fin dal IV secolo, l’aveva indicata come attività specialmente adatta alla vita monacale e fu così che divenne l’occupazione principale dei monaci di molti ordini religiosi. In quelle case religiose lo studio della calligrafia e della miniatura era addirittura prescritta dalle regole monastiche, a cominciare dai Benedettini. Sotto Carlo Magno si era soliti fissare il numero delle copie che ciascun scrivano doveva stilare ogni anno. Si ricorda la famosa Bibbia copiata nell’anno 796 in quanto opera magnifica del Monastero di san Martino di Tours. Anche gli Ordini femminili fin dal Medioevo concorsero validamente alla trascrizione dei testi antichi con pregevolissime opere giunte quasi intatte fino a noi.
Il locale usato dagli “amanuensi” per il loro lavoro era chiamato “scriptorium” ed era quasi sempre annesso alla biblioteca. All’entrata di quelle stanze era spesso appeso un cartello: “silentium” e vi potevano entrare soltanto i copisti, il bibliotecario ed i superiori. Gli scrivani sedevano su alti sgabelli di fronte ad appositi tavoli e copiavano ognuno un testo diverso dagli altri, oppure pagine singole di una stessa opera. A volte erano riuniti tutti insieme e scrivevano sotto dettatura dell’ “armarius”, riproducendo così molte copie dello stesso libro. Era un metodo che metteva in competizione fra loro gli scrivani che tendevano a superarsi vicendevolmente nella perfezione della calligrafia, ottenendo in questo modo delle copie di particolare bellezza.
Col passare del tempo, poiché gli errori di scrittura erano sempre in agguato, si formarono gruppi di correttori che dovevano rileggere ciascun libro da cima a fondo correggendone, appunto gli errori. Nel XII secolo si sviluppò la Corporazione degli scritturali di mestiere che si occupava tanto delle opere anticher quanto di quelle teologiche.
È interessante, per noi moderni, andare a scoprire quale fosse l’aspetto retributivo dei copisti. Ebbene, i salari di calligrafi erano computati, secondo il metodo greco “a stixoi”, cioè a seconda del numero delle righe. Oppure “a pecial”, ossia ogni due fogli interi di scrittura. Quest’ultimo metodo era in uso nelle Università medioevali. Per i libri miniati, si veniva pagati anche per ogni lettera, poiché spesso ognuna di quelle era un piccolo quadro molto difficile da eseguire.           (continua)


grottaferrata
S. Nilo e i suoi tempi - 8 (di Claudio Comandini)
7. Discepoli e maestri
Fantino, egumeno al monastero del Mercurion, ogni settimana si reca alla grotta dove Nilo pratica l’ascesi per portargli tre pani (ha dovuto insistere per farglieli accettare), che scambia con trascrizioni di libri. Vedendolo malato, lo convince a seguirlo al monastero. Per il suo tumore alla gola, Nilo non riesce a mangiare e beve con fatica, eppure (fedele ai precetti di Salmo CXLV (CXLIV), 19, e Romani VII, 7) resiste al forte desiderio di mangiare del pesce, anche quando gliene viene offerta una discreta quantità, sia lessa che arrostita. Interviene uno stimato monaco proveniente dalla limitrofe zone del Latiniano, Lagonegro e Salernitano, che gli offre, in nome di Cristo, il cesto di pesci.
Nilo accetta, sia per l’esortazione e probabilmente anche in virtù di un legame che intratteneva con il monaco, ottimo cantante come del resto lui stesso, inoltre compositore di inni sacri. Nilo infatti trasmette alla chiesa latina i più antichi inni del mondo greco, e fonda anche diversi scriptoria, fra i quali si distingue la scuola melodico-innografica-criptense, diretta dal suo discepolo s. Bartolomeo (l’autore della sua biografia). Di Nilo ci sono giunti canone, contacio e prosomi dedicati a s. Benedetto, il contacio per s. Nilo Sinaita, l’inno per s. Paolo, e decine di codici melurgici e innografici.
Dio ricompensa Nilo e “gli venne egli stesso in aiuto” facendogli sputare il tumore dalla bocca, che emette “grande quantità di marcia”. Nilo, “sollevato un poco”, torna alla solitudine, che “riteneva come sua madre”. Intanto altre prove attendono Nilo perché possa essere “legittimamente coronato”, e coerentemente con la concezione cristiana, il “diavolo” si accanisce su di lui sostanzialmente per permettergli di “perfezionarsi” ulteriormente: infatti, “se la Provvidenza di Dio glielo avesse permesso, gli avrebbe tolto anche la vita.” Il nuovo attacco è addirittura condotto sul piano fisico, in forma piuttosto violenta: mentre è intento a salmeggiare e a genuflettersi nella grotta che si è scavato, “gli appare il diavolo in forma di etiope”, che con una mazza gli da un poderoso colpo in testa. Il “soccorso” a Dio è formulato continuando la recitazione del Salmo LXX (LXIX) 2-4, e con il volto sinistro gonfio, il braccio paralizzato, la preoccupazione maggiore che riesce ad esprimere è quella di non potere più “soddisfare il dovere delle sue preghiere”. Nilo passa tutto l’anno malconcio rifiutando di medicarsi, persuaso dal suo spirito di penitenza “che le ferite inflitte dai demoni non possono guarirsi dalla mano dell’uomo”, e che il dolore fisico gli fosse permesso per meglio santificare la sua anima.
Per la festa di s. Pietro e Paolo, il 29 giugno al monastero si incontrano i loro “imitatori” Nilo e Fantino, che passano una notte di veglia a cantare gli inni, ascoltatati dagli altri monaci; Fantino prega Nilo di alzarsi per leggere l’encomio dei ss. Apostoli di s. Giovanni Damasceno (attualmente irreperibile secondo le ricerche del Giovannelli), una prosa ornata con versi giambi (cioè con parti sciolte e parti ritmiche). Anche se è ancora “mezzo rattrappito” Nilo obbedisce e si alza, e appena inizia la lettura, il dolore scompare. Ne parla solo il mattino dopo con Fantino, rigranziandolo di aver fatto “mediazione”; Fantino attribuisce il “prodigio” alla sua obbedienza e all’intercessione degli apostoli, e in pratica fanno a gara di umiltà nel trattenersi dal “darne gloria a Dio”. La Provvidenza comunque lascia a Nilo “piccole tracce del suo male” che porta fino alla vecchiaia, perché “gli ricordassero la sua protezione e la sua cura per lui”.
Durante il secondo anno presso la grotta, a Nilo giunge dal suo stesso paese un primo discepolo, Stefano di Rossano. Ora, nel testo del Bios, s. Bartolomeo mentre afferma che dai frutti dobbiamo “ammirare” l’albero, aggiunge che le mancanze dei seguaci nell’“imitare” i santi sono oggetto di perdono: l’ambivalenza del passaggio è chiarita dal Giovannelli, che ammette la sostanziale idiozia del discepolo di Nilo. Stefano, contadino ventenne, orfano di padre con madre e sorella a carico (a cui seguendo Matteo X, 37, preferiva il Cristo) viene infatti paragonato a figure come Giobbe, o Paolo il semplice discepolo di Antonio Abate. Stefano un giorno si affianca a Nilo senza dire una parola, e solo al tramonto c’è lo scambio di battute fra i due. Nilo inizialmente gli dice di andare presso un altro monastero, poi lo esorta a prendersi cura della propria famiglia. Alla fine lo prende con sé, e gli dà da mangiare il mezzo pane rimastogli, restando digiuno.
Stefano si rivela di carattere “rozzo e pigro”, ma Nilo si astiene dall’incollerirsi con lui (come prescritto da Matteo V, 22), e lo “correggeva con calma e mansuetudine”. Poi, forse ricordando la sentenza del poeta latino Orazio sulla difficile educazione delle disposizioni naturali (citata nel testo da s. Bartolomeo), comincia a prendere in considerazioni “materie dure e mortificanti” per permettergli una seria “formazione”, e quindi gli impartisce continui rimproveri e ingiurie, insegnandogli salterio e orazioni a suon di schiaffi. Stefano non se ne offende, anzi, “sopportava tutto con allegrezza” per conformarsi all’insegnamento: venendo per questo preservato da “attacchi diabolici”. L’unico aspetto di afflizione, l’esser “troppo assalito dal sonno”.
Nilo allora gli fa uno sgabello con un piede solo, che argutamente diviene strumento di meditazione sulla Trinità: “Ecco qua, tu hai due piedi e uno lo sgabello, che fanno tre”. Stefano prende a sedersi solo su quello, a meditazione, a chiesa, perfino a mensa, con esiti a dire il vero anche umoristici: “molte volte vinto dal sonno cadeva a terra, facendosi male ora nel braccio e ora nella faccia”.
L’insegnamento e la vita quotidiana non sono distinguibili, ed ogni atto diventa occasione di ammaestramento. Un giorno Stefano si mette a lessare in un tegame più fagioli di quanti ne potessero entrare, e quello si rompe. Raccolti i cocci e i residui, li mostra a Nilo, ammettendo la sua colpa. Nilo gli ordina di mostrarli anche ai monaci dei monasteri, e Stefano si reca al Mercurion da Fantino, che compresi i motivi di Nilo, prima di “rimandarglielo corretto per l’avvenire” raccoglie i cocci con un filo e “glieli sospese al collo”, facendolo così “stare in refettorio, mentre i fratelli mangiavano”. Il brutale educativo di Nilo trova spesso spazio a tavola: infatti un’altra volta Stefano coglie degli asparagi, li lessa e li offre a Nilo per pranzo. Apprezzatili con gusto, chiede a Stefano se fossero piaciuti anche a lui. Alla sua conferma, Nilo gli ordina di buttarli, dicendo: “Questi erbaggi, che di natura loro sono amari, li ha resi saporiti e dolci il diavolo”.
Nilo prende poi interessamento alla madre e alla sorella di Stefano, e lo mette in contatto con Madre Teodora, una “vergine molto veneranda”, superiora in un convento presso l’Arenario, che accoglie le due donne presso di sé. Fino alla loro morte, tutti gli anni Stefano al “tempo della mietitura” si reca a quel monastero, per tornare poi a lavorare nel suo, “esercitandosi” sia nel digiuno che nella fatica.

 I NOSTRI PAESI - pagina 12

Sommario anno XIII numero 10 - ottobre 2004