Le ipotesi non euclidee – 11
(di Luca Nicotra)
3. Valore empirico o ideale della geometria?
La geometria euclidea, si è più volte detto in queste pagine, trae le sue
idee fondamentali e i suoi postulati dal mondo fisico. Questa asserzione
merita, però, qualche riflessione di carattere filosofico. Siamo proprio
certi che è l’esperienza a creare in noi le idee o viceversa queste sono
già in noi stessi e nell’esperienza siamo da esse guidati a cercare ciò
che, anche se imperfettamente, le rappresenta? Inoltre, da quale livello
della “realtà fisica” le idee primitive di punto, retta e piano sono state
tratte? La questione sollevata é tutt’altro che banale e riguarda
nientemeno che il problema generale della conoscenza (gnoseologia), uno
dei più affascinanti problemi della filosofia. Pur non potendo dilungarci
in queste pagine su di esso, è doveroso e necessario almeno accennarvi,
per comprendere sia il dubbio sollevato sia la portata dell’opera compiuta
dai creatori delle geometrie non-euclidee.
Platone aveva una triplice anima: del filosofo, del matematico e del
poeta. Nei suoi scritti ricorreva a due forme letterarie particolarmente
efficaci e suggestive: il dialogo e il mito, racconto fantastico
utilizzato per illustrare in maniera più espressiva e poetica il suo
pensiero. Per spiegare il processo della conoscenza, egli sviluppò il
“mito dell’anima”, secondo il quale la nostra anima sarebbe immortale e di
origine divina (cosa che avevano già pensato gli Orfici e i Pitagorici) e
sarebbe sottoposta a un succedersi di reincarnazioni, avvalorando una
specie di principio di conservazione dello spirito così come esiste quello
della materia. Il corpo per essa è una prigione da cui si libera alla
morte per tornare a librarsi nell’Iper-uranio, il mondo delle Idee, dove
l’anima può contemplare o intuire le idee, da cui noi traiamo i concetti.
Quando l’anima si reincarna, dimentica le idee intuite nella sua esistenza
extra-corporea: l’esperienza sensoriale ha la funzione di accendere
nell’anima la scintilla del ricordo. Dunque conoscere, per Platone, non è
nient’altro che ricordare ciò che già è interamente nell’Iper-uranio. I
concetti matematici, quindi, non sono derivati dall’esperienza, bensì dal
mondo delle Idee, tramite l’esperienza sensoriale che riaccende in noi il
loro ricordo. Questo punto di vista afferma che le verità matematiche
sostanzialmente sono dentro di noi e indipendenti dall’esperienza fisica,
vale a dire dal mondo esterno, e quindi sono necessarie. Il platonismo ha
influenzato molto il pensiero dei matematici di ogni tempo. A conclusioni
sostanzialmente coincidenti giunse pure il grande filosofo tedesco
Immanuel Kant (1724-1804) nella sua opera Critica della Ragion pura. Kant
distingueva i nostri giudizi in sintetici e analitici, a priori e a
posteriori (o empirici). I giudizi a priori sono indipendenti
dall’esperienza, al contrario di quelli empirici, che sono ricavati
dall’osservazione della realtà fisica. I giudizi analitici1 sono quelli in
cui il concetto che esprimono è già contenuto nel soggetto di cui si
parla. Sono utili soltanto perché esplicitano e rendono intelligibile ciò
che nel soggetto è contenuto cripticamente in forma implicita. Pertanto, i
giudizi analitici sono soltanto a priori e non aggiungono sostanzialmente
nuova conoscenza. I giudizi sintetici2 , invece, esprimono concetti non
già contenuti nel soggetto di cui si parla, e quindi costituiscono una
vera nuova conoscenza. Inoltre, i giudizi a priori, essendo indipendenti
dall’esperienza, sono necessari e universali, perché fanno parte del
nostro stesso pensiero. Kant considerava le proposizioni della geometria
giudizi sintetici a priori. Dunque, l’atteggiamento di Kant verso la
geometria euclidea era inequivocabile: essa era “conoscenza necessaria”.
Tali vedute erano così saldamente diffuse, che metterle in dubbio e ancor
più negarle, vale a dire sostenere, invece, che le idee matematiche
derivano direttamente dall’esperienza sensoriale, era veramente un atto
rivoluzionario. Un grande matematico del secolo XIX, Lobacevskij lo fece;
a lui bisognerebbe aggiungere Gauss, che però non ebbe il coraggio di
esporre pubblicamente le sue convinzioni in merito, per le ragioni che
vedremo.
Veniamo ora alla seconda questione, le precisazioni sulla “realtà fisica”
da cui sono state tratte le idee della geometria euclidea.
Un’esile cordicella ben tesa fra due chiodi, abbiamo già detto, privata,
nella nostra mente, della sua dimensione trasversale e della sua
consistenza fisica dà origine al concetto astratto di segmento di retta, e
questo a sua volta, prolungato indefinitamente dall’uno e dall’atro
estremo, genera l’idea di retta euclidea. In maniera analoga, la
superficie ben levigata di un tavolo prolungata idealmente all’infinito
lungo ogni sua retta, e privata della sua dimensione trasversale e della
sua consistenza fisica, dà luogo al concetto astratto di piano euclideo3 .
Teniamo presente che lo scopo originario della geometria era di descrivere
quel particolare aspetto dei fenomeni fisici, che hanno luogo sulla Terra,
legato alle forme e alla loro misura, e detto pertanto geometrico. La
stessa parola geometria significa letteralmente “misura della Terra” (dal
greco gè=terra e mètron=misura). Qualcuno ha asserito4 che l’idea del
piano tramandata da Euclide sia dovuta al fatto ch’egli accolse nei suoi
Elementi l’idea più antica della forma piatta del nostro pianeta e che se,
invece, avesse considerato l’idea della sfericità, che era ormai affermata
all’epoca in cui visse, l’idea di piano che ci avrebbe proposto sarebbe
stata quella di una superficie sferica, ottenendo una maggiore aderenza
alla realtà fisica a livello globale terrestre e giungendo a conclusioni
simili a quelle della geometria non-euclidea di Riemann. E’ vero che i
suoi Elementi rappresentavano una “summa” della conoscenza matematica dai
tempi più antichi fino alla sua epoca, e quindi è plausibile che siano
state travasate in essi anche idee radicate in tempi più remoti, tuttavia
ritengo molto improbabile che ciò sia avvenuto per la forma della Terra.
La sfericità del nostro pianeta fu affermata, per la prima volta, dai
Pitagorici più di due secoli prima del periodo in cui visse Euclide. È
poco credibile che dopo un intervallo di tempo di quest’ordine, in
un’opera come gli Elementi, che aveva l’ambizione di costituire la
perfezione e il massimo nella trattatistica matematica del tempo, sia
stata accolta un’idea, peraltro d’importanza fondamentale, ormai superata
da oltre due secoli. Inoltre, mentre il geocentrismo ebbe nell’antichità
alterne vicende, non mi risulta che dai Pitagorici in poi qualcuno abbia
rimesso in discussione la sfericità della Terra. Sembra, invece, più
verosimile che Euclide abbia derivato le idee fondamentali della sua
geometria da modelli concreti legati ad un livello della realtà fisica
“umano” o “domestico”, vale a dire quello coinvolto nelle nostre
esperienze di vita quotidiana, e non abbia considerato una scala più ampia
dell’ordine dell’intero globo terrestre.
4. Le geometrie non-euclidee come possibilità fisica
Il problema della dimostrazione del quinto postulato, come abbiamo già
visto, si è imposto all’attenzione dei matematici fin dall’antichità, ma
l’accanimento con cui questi vi si dedicarono, sempre in maniera
fallimentare, raggiunse l’apice nel secolo XVIII, tanto che nel 1759 Jean
le Rond d’Alembert lo definì “le scandale des éléments de géométrie”.
Tutti i matematici che si occuparono del problema delle parallele, lo
fecero soltanto per “sanare” quella manchevolezza dell’opera euclidea
costituita dal dubbio sulla natura del quinto postulato, ma non perché
dubitassero della verità della geometria euclidea.
Saccheri, in questo spirito, suo malgrado, scoprì le due geometrie
non-euclidee quasi un secolo dopo ritrovate da Lonacevskij, Bolyai, Gauss
e Riemann, ma la sua scoperta era stata casuale, perché ottenuta
inaspettatamente perseguendo in realtà l’obiettivo del perfezionamento
dell’opera euclidea e inoltre aveva un’origine esclusivamente logica.
Insomma, si continuava nell’errore di ritenere il quinto postulato un
teorema e mentre illustri matematici non si arrendevano di fronte ai
numerosi insuccessi così a lungo collezionati, un valente studente di
teologia dell’Università di Gottinga, poi dedicatosi alla matematica,
(1739-1812), fu il primo a dichiarare pubblicamente nel 1763, nella
dissertazione Conatuum praecipuorum theoriam parallelarum demonstrandi
recensio, l’impossibilità di dimostrare il quinto postulato. La sua
affermazione, però, non era avvalorata da una dimostrazione
d’indimostrabilità, ma derivava semplicemente dalla constatazione che i 28
tentativi di provarlo da lui esaminati, compreso quello di Saccheri, erano
tutti non esaurienti. Pur non avendo alcun valore logico, la dichiarazione
di Klugel è significativa, perché denota a quale stato d’estrema
stanchezza era giunto il problema delle parallele.
L’opera di Saccheri, per il fatto di essere stata soltanto stampata ma non
pubblicata, ebbe influenza su altri matematici (per esempio il già citato
J.H.Lambert) limitata nel tempo e nello spazio, proprio per l’assenza di
una sua adeguata diffusione. Nonostante il suo oblio, dovette formare in
qualche modo un indirizzo di pensiero nuovo, che probabilmente influenzò
indirettamente anche il matematico russo Nicolaj Ivanovic Lobacevskij a
distanza di quasi un secolo. Questi, ignaro dell’opera di Saccheri, nella
sua memoria Exposition succincte des principes de la geometrie avec une
demonstration rigoureuse du theoreme des paralleles letta nel 1826 alla
facoltà fisico-matematica dell’università di Kazan, ma da questa
volutamente non pubblicata, rivelò per primo al mondo scientifico
l’esistenza di una geometria non-euclidea che conteneva molti dei
risultati già ottenuti nel 1733 dal matematico italiano. Per tale motivo,
seguendo una consuetudine universalmente accettata, secondo la quale la
priorità di una scoperta scientifica spetta a chi per primo la rende
pubblica, Lobacevskij è considerato il padre delle geometrie non-euclidee,
anche se oggi sappiamo che tale titolo spetterebbe a Giovanni Gerolamo
Saccheri, la cui opera precedette di ben novantatré anni quella del
matematico russo.
L’approccio di Lobacevskij al problema del quinto postulato è del tutto
diverso da quello seguito dai suoi predecessori; egli non si preoccupa di
dimostrarlo, ma mette in dubbio la sua veridicità universale, e quindi
quella della geometria euclidea. “Per usare i termini di Einstein,
Lobacevskij sfidò un assioma. Chiunque si attenti a sfidare una verità
accettata, che è sembrata necessaria e ragionevole alla grande maggioranza
degli uomini intelligenti durante almeno duemila anni, rischia la propria
reputazione scientifica, se non addirittura la vita.”5
Contrariamente alle convinzioni filosofiche saldamente e universalmente
accettate riguardo alla “necessità a priori” delle concezioni geometriche
euclidee, per Lobacevskij le idee della geometria devono avere una
giustificazione empirica, sono quindi “giudizi sintetici a posteriori”,
per dirla con Kant. Da qui la sua critica alla non esauriente
giustificazione empirica delle idee della geometria euclidea, che lo portò
a concepire la possibilità di un’altra geometria fondata sulla
sostituzione del quinto postulato con una delle sue due possibili
negazioni: per un punto fisso fuori di una retta data passa più di una
retta parallela alla data.
Fine della 11° puntata
Note:
1 “... per mezzo di giudizi analitici la nostra conoscenza non può
estendersi punto, ma può invece essermi reso esplicito e intelligibile il
concetto che già posseggo “ (I. Kant, Critica della ragion pura)
2 “..nei giudizi sintetici io ho bisogno, oltre che del concetto del
soggetto, di qualcos’altro ancora, su cui si appoggi l’intelletto per
riconoscere che gli appartiene un predicato non compreso nel concetto.”
(I. Kant, Critica della ragion pura)
3 Nessuno sa, in realtà, a quali modelli concreti si sia riferito Euclide
nella concezione delle idee fondamentali della sua geometria. Ogni
supposizione è quindi parimenti opinabile. Fra queste è particolarmente
insolita l’ipotesi sostenuta dal matematico tedesco Hugo Dingler sulla
genesi “meccanica” del concetto di piano in Euclide. Secondo Dingler,
questi avrebbe derivato l’idea di piano dall’osservazione del taglio delle
pietre per ottenere delle lastre “piane”, che consiste nel far “strisciare
l’una contro l’altra tre lastre grandi a piacere di materiale duro fino a
che esse aderiscano completamente o che i due lati delle superfici che
così hanno origine siano in ogni posto e globalmente congruenti e
indistinguibili.” (tratto dalla citazione contenuta al cap. VIII di
Mutamenti nel pensiero matematico di Herbert Meschkowski, Boringhieri,
Torino, 1964)
4 Cfr. E.T. Bell, I grandi matematici, cap. XVI.
5 E.T. Bell, I grandi matematici, cap. XVI. |