Il declino della TV commerciale e generalista
(Massimo De Fidio) -
Da qualche tempo giungono
notizie preoccupate dal fronte dell’audience televisiva. Le cifre
snocciolate dagli operatori del settore e dai maghi della massmediologia
parlano di un calo generalizzato degli ascolti, in tutte le fasce orarie e
per ciascuna categoria di utenti. Ogni strategia è buona per recuperare
qualche decimale di share o almeno per non far prevalere i rivali:
assistiamo di volta in volta alla soppressione di programmi già inseriti
in palinsesto, allo spostamento di altri in fasce orarie considerate più
protette, al blocco di costose produzioni in attesa di perfezionare la
strategia di lancio. Insomma, non è un momento facile per chi si occupa di
televisione e il rischio di bruciarsi ancor prima di aver presentato il
proprio prodotto, buono o meno buono che sia, coinvolge sia personaggi
noti del piccolo schermo così come coloro che si affacciano pieni di
ottimismo all’esperienza televisiva.
In questa situazione a soffrirne maggiormente è il livello di qualità dei
programmi che vengono offerti al pubblico, perché l’ansia di sbagliare fa
sì che i network televisivi investano le loro risorse su programmi di
facile ascolto, destinati a catturare un pubblico pigro e poco curioso, il
cosiddetto popolo del telecomando. Ecco allora il fiorire di quiz
demenziali, di case abitate da fantasmi della società, di ex famosi
disposti anche alla fame per riacquistare un po’ di notorietà, della
riproposizione dell’intera saga mistico-religiosa che va sempre di moda,
insomma, di quella che con un termine abusato ma mai come oggi attuale,
viene comunemente definita TV spazzatura.
Notizie non migliori vengono dalle TV pay-per-view di cui da anni ormai si
attende il boom commerciale e che, se non fosse per gli appassionati di
calcio disposti a tutto pur di seguire la squadra del cuore, non
raggiungerebbero certo l’equilibrio del bilancio con i soli documentari e
i grandi film per i cinefili.
Eppure aumenta il tempo libero delle persone in tutto il mondo
occidentale, si passa sempre più tempo a casa, persino il lavoro, grazie
alla telematica e al computer, tiene maggiormente in casa le persone,
insomma ci sarebbero tutte le condizioni perché la TV tornasse ad essere
una valida compagnia, se non addirittura uno stimolo.
Si può parlare di disaffezione verso il simbolo principe della società dei
consumi, quel tubo catodico che tanta parte ha avuto nella evoluzione dei
costumi, nello sviluppo economico e persino nell’influenzare i
comportamenti quotidiani di miliardi di uomini e donne negli ultimi
cinquantanni? Prima di rispondere a questa domanda vale la pena
soffermarsi su un fenomeno che prende velocemente piede tra le nostre
abitudini e che credo abbia molto a che vedere con la crisi della
televisione generalista.
Stiamo assistendo al moltiplicarsi di una domanda di cultura, di
approfondimento, di confronto con persone e luoghi del costume, del
sapere, della storia. E più questi approfondimenti sembrano complessi,
apparentemente ostici, di nicchia e più cresce l’interesse delle persone
comuni ad essere protagonisti di questa nouvelle vague di
partecipazione motivata a ciò che succede intorno a noi.
Gli esempi sono molteplici: penso alle letture integrali della Commedia
dantesca tenute da Vittorio Sermonti davanti ad una platea sterminata di
casalinghe, di ragazzi che a scuola nemmeno si sognavano di aprire un
testo di Dante, di manager che trascurano i profitti delle loro aziende
per intercettare il messaggio morale offerto dal divin Poeta. Ma anche al
festival estivo delle letterature a Roma, dove folle trabocchevoli
attendono il premio Nobel di turno che, tra un assolo di violino e una
suite di musica dodecafonica, legge brani tratti dai suoi libri
(rigorosamente in lingua originale).
E che dire della crescente domanda di filosofia, applicata alle domande
sull’esistente, la morale, il divino. Il commerciante ormai chiude bottega
per interloquire con il filosofo e interrogarsi su se stesso, mentre
Platone e Seneca sono più familiari del vicino di casa con il quale si
discute non più del clima, come si usava una volta, ma dei danni della
deforestazione e delle migrazioni di massa.
Potrei continuare con desideri più prosaici come i corsi di alta cucina
seguiti da chi finora pensava che l’uovo in camicia si preparasse avvolto
in un tovagliolo o le visite culturali fatte non già nei musei, ché
sarebbe banale, ma nelle case di collezionisti nelle quali, camminando tra
i corridoi, si possono ammirare (a pagamento si intende) Picasso alle
pareti e reperti in marmo di epoca ellenistica sparsi quà e là.
Ma c’è di più: la gente non si limita ad ascoltare la lezione, la
conferenza, il parere dell’esperto di turno; vuole partecipare al
dibattito, dire la sua, far capire all’interlocutore-specialista di non
essere un guscio vuoto che aspetta di essere illuminato ma di avere
anch’esso delle cose da dire, delle idee da discutere, delle proposte da
avanzare, insomma, di non essere più disposto a fare da sopramobile nelle
discussioni come avviene nei talk show televisivi bensì vuole essere
attore protagonista di questa nuova frontiera della comunicazione. C’è un
rapporto tra questa presa di coscienza di parte del pubblico e la crisi
degli ascolti in televisione?
Sicuramente sì e per capirlo meglio è necessario indossare gli occhiali
del sociologo.
La società in cui viviamo ci appare giorno dopo giorno come una società di
diseguaglianze: ricchezze concentrate in poche mani convivono fianco a
fianco con enormi povertà, il 15% della popolazione mondiale detiene e
controlla l’80% delle risorse produttive del pianeta, l’alta tecnologia si
confronta a poca distanza con usanze tribali e arcaiche che sussistono in
molte aree, il dominio della scienza rende più forte il mondo occidentale
di fronte alle calamità naturali e alle malattie ma non impedisce il
diffondersi di carestie e epidemie di massa che nessuno è in grado di
controllare ecc.. Se questo è vero, anche sul piano dell’informazione e
dell’intrattenimento la domanda del pubblico si farà sempre più
diversificata.
Con gli esempi sopra descritti una parte della società sta dicendo ai
produttori dell’informazione televisiva di non gradire le loro ricette
false e zuccherose e rifiuta di farsi confinare all’interno di un
triangolo i cui vertici sono costituiti da volgarità, voyeurismo e bassi
sentimenti.
Dice anche che la televisione che vorrebbe deve parlare di idee, fatti
reali, di società a confronto, di approfondimento culturale, di lavoro, di
musica. Se questo non dovesse avvenire (e francamente sono in pochi a
illudersi) è disposta a fare a meno di questa televisione e a rivolgersi
altrove per soddisfare i suoi interessi e la sua curiosità.
Chi fa televisione è avvertito; può lasciare tutto com’è ma sappia che si
sta rivolgendo ad un pubblico sempre più distante e annoiato. Per
riconquistarlo ci vorrebbe la capacità di emozionarlo e ridargli la
sensazione che quel che vede si rivolge a lui e non a un guscio vuoto.
Chissà se ne saranno capaci.
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