Le Trachinie di Sofocle
Dal 13 ottobre al 18 novembre 2004 - Teatro Vascello - Via G.Carini,78
- Roma
(Cristina Stillitano) - Le donne di Trachis sono le
testimoni sconvolte di un amore così intenso da condurre
alla tragedia totale. Assistono sconvolte al dramma di Deianira, moglie
appassionata di Ercole, che lo uccide senza volerlo e poi si uccide a sua
volta, vittima di una sorte malvagia e insostenibile.
Dolente per la lunga assenza del suo sposo, divorata dalla gelosia per
aver appreso che egli si è innamorato di Iole, nobile e indifesa figlia
di Eurito, per avere la quale ha distrutto Eucalia, Deianira tenta di
riconquistarlo con un filtro d’amore: la tunica impregnata del sangue
del centauro Nesso ucciso tanto
tempo prima da Ercole. Ma ella non sa di inviare al suo amato un
potentissimo veleno che lo ridurrà a sofferenze atroci e, infine, alla
morte. Si avvera l’antica, incoprensibile profezia secondo la quale
Ercole non sarebbe mai perito per mano di un vivo: l’eroe dalla forza
smisurata viene infine spezzato dalla vendetta lanciata dal centauro e
perpetrata dalle mani inconsapevoli di chi più lo ama al mondo.
Sottile indagatore dell’animo umano, Sofocle è qui attratto in
particolare dalla natura complessa di Deianira, che esplora con sapienza,
scavando nel fondo sino alle più laceranti e dolorose contraddizioni.
Natura malinconica ma non mite, carica di ardore e di slancio ma - anche -
popolata di ossessioni che lavorano nell’oscurità a rimestare tra
rimpianti, risentimenti e gelosie, ella attraversa il suo destino con
grandezza d’eroina dignitosa e appassionata. Manuela Kustermann sa
renderne le sfumature in una interpretazione intensa e ricca di
equilibrio.
L’adattamento scritto da Ezra Pound mira al difficile intento di
ricostruire una forma espressiva più adatta al nostro tempo: partendo dal
principio che la sostanza e la struttura della tragedia devono generare il
linguaggio, e non viceversa, la sua traduzione serba l’essenza antica
nella semplicità e nel gusto di un testo moderno e facilmente
comprensibile.
Minimale la scenografia, dal sapore orientale con la suggestione maestosa
di uno schermo che trasmette immagini in libera associazione.
Meno efficace, a nostro avviso, è la rivisitazione del coro, affidato a
quattro danzatrici e a due angeliche voci soliste che si inseriscono
nell’atmosfera surreale con note etniche stridenti e prive di pathos.
Vorremmo, per una volta, che non si avesse tutto questo timore della
classicità. Questa fretta di reinterpretarla, questa esigenza di
riadattarla, ci domandiamo che cosa significhi. Se essa conduca anche al
rischio di non saper più provare interesse per il diverso e per il
passato. Rischio di diventare spettatori a cui si mostra solo ciò che
appare facile, familiare e riconoscibile.
Che noia, sedersi a teatro e guardare sempre se stessi.
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