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Sommario anno XIII numero 11 - novembre 2004

 ATTUALTÀ E COSTUME

Curiosità sul santo patrono dei… mariti traditi
(Domenico Rotella) - Quando la nostra civiltà era ancora di tipo rurale o comunque con saldi riferimenti ai cicli agricoli, la festa di San Martino rivestiva una grande importanza. Già i Greci e i Romani usavano aprire con grandi feste le botti del vino nuovo, in un giorno che più o meno coincideva col nostro 11 novembre. La tradizione continuò poi in epoche successive, dando origine al detto popolare «Si svina a San Martino / la botte del buon vino».
In tale data terminava pure l’anno agricolo e ciò dava luogo ad una serie di eventi correlati: si pagavano fittanze, rendite e locazioni; si iniziava sia l’anno scolastico che quello giudiziario; venivano rinnovati i contratti agricoli e - specialmente nel nord d’Italia - si effettuavano i traslochi. Al riguardo è rimasta celebre la frase di Vittorio Emanuele II alla vigilia della decisiva battaglia di San Martino nel 1859 «Qui, o prendiamo San Martino o ci fanno fare San Martino», anche riferendosi visivamente alle grandi carovane di masserizie che - ogni 11 novembre - intasavano le strade di Torino.
Ma è a Roma, in particolare, che la ricorrenza di San Martino è sempre stata ricordata come la festa dei mariti traditi o più efficacemente (absit iniuria verbis!!) dei ….cornuti, anche se oggi più nessuno è in grado di riconoscere il nesso tra il santo vescovo di Tours (che, per intenderci, è quello che tagliò parte del suo mantello per darlo ad un povero) e lo sberleffo a tale infelice categoria. Così siamo andati a consultare quella sterminata miniera di fatti, notizie e curiosità che è il monumentale “Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica” in 140 volumi di cui fu autore Gaetano Moroni, già potente aiutante di camera di papa Gregorio XVI tra il 1831 ed il 1846. Dice dunque il Moroni che già da alcuni secoli prima era tenuta in gran conto una devota usanza: dall’11 novembre iniziava di fatto l’Avvento, tempo di penitenza in preparazione del Natale, durante il quale si praticava il digiuno e l’astinenza da ogni carne, compresi quindi gli amplessi coniugali.
Poiché quaranta giorni erano lunghi, i mariti più ligi temevano che le mogli meno pazienti si prendessero - diciamo così - alcune libertà eccessive e quindi si affidavano al santo che vigilava l’inizio della penitenza, affinché vegliasse sulla onorabilità del focolare domestico. Fu così che la malizia popolare finì col rendere il povero Martino l’inconsapevole patrono di tutti coloro che comunque avevano moglie: la mentalità rigorosamente maschilista vedeva in ogni donna una potenziale Messalina, fatte sempre salve - ovviamente - le donne di casa propria. Detto tutto ciò, si potrebbe infine pensare che i portatori dell’ingrato trofeo sulla fronte costituiscano un’unica grande categoria, invece a Roma - almeno stando alla classificazione che ne fece il poeta Giggi Zanazzo ai primi del Novecento - se ne conoscevano addirittura cinque. La base era ovviamente costituita da coloro che non sapevano di essere traditi ed erano i classici Becchi. C’era poi il cosiddetto Cuccubbone, ossia quello che ne era consapevole ma che fingeva per quieto vivere; il Beccone, invece, oltre ad accettare lo stato di cose ne ricavava pure un vantaggio o un guadagno; il Tribbecco portava gli amici a casa e poi si assentava con una scusa; infine il Calidone (quello che secondo lo Zanazzo “portava lo stendardo nella processione di San Martino”) accompagnava lui stesso la moglie a casa degli amici! La figura del “cornuto e contento”, tuttavia, non era soltanto oggetto di dileggio da parte del popolo, bensì era addirittura una specifica figura di reato contemplata - con questa letterale dicitura! - dalla “Pratica Criminale delle Pene di Roma”, una sorta di codice penale di epoca pontificia rimasto in vigore fino al 1811. Va anche detto che la punizione non era di tipo detentivo bensì - almeno per certi versi - improntata a più raffinata crudeltà: la norma prescriveva infatti che il reo “ducatur mitratus per urbem”, ossia fosse messo alla berlina per le vie di Roma tenendo sul capo una sorta di “mitra” (che in verità è il copricapo a due punte che in genere portano i vescovi). In cosa consisteva esattamente la pena? Il colpevole di lieta passività dinanzi alla moglie fedifraga veniva posto a cavalcioni di un asino e coronato con un cappello di carta con le punte ben aperte all’insù, per simboleggiare quelle corna di cui si faceva vanto. Dopo di ciò gli sbirri lo conducevano in giro per esporlo agli insulti e agli sberleffi di chiunque. Al giorno d’oggi - essendo ormai mutati i tempi - i Cuccubboni, Tribbecchi e allegra compagnia vanno direttamente in televisione a magnificare la qualità delle loro corna, facendo a gara nell’affermare che le proprie sono più maestose di quelle altrui.

 ATTUALTÀ E COSTUME

Sommario anno XIII numero 11 - novembre 2004