Variazioni su
Jacques Derrida e Ornette Coleman (1 di 2)
(Claudio Comandini) - Partiamo da un inconsueto duetto. Il
primo di luglio del 1997 a Parigi durante un concerto di Ornette Coleman
(sax alto, tromba e violino) e Joachim Kuhn (pianoforte), da dietro le
quinte esce un uomo dai capelli bianchi, che dirigendosi verso microfono e
leggìo, mormora in francese e in inglese, contemporaneamente al pubblico e
ai performer: “Cosa succede? Cosa succede, Ornette? Cosa succede qui
adesso con Ornette Coleman?”. All’urlo della sala risponde il sax del
musicista, e l’uomo scompare nel silenzio. L’uomo è il filosofo Jacques
Derrida, e queste le parole con cui Coleman si riferisce a lui: “Conoscevo
in particolare le sue ricerche sulla decostruzione. Ma non l’avevo
invitato per discutere di un argomento preciso, volevo che potesse
condividere ciò che desiderava… Per me comunicare attraverso l’arte, la
cultura, la tecnologia etc, è un mezzo per rendere la vita più facile alle
persone che non hanno accesso a certe cose, per mancanza di soldi o altro.
Non ho mai pensato in termini di classe, semmai di ‘territori’, e questa
nuova comunicazione lega tutti questi territori, al di là delle
comunicazioni a cui siamo abituati”. E così Derrida su Coleman: “Conoscevo
l’importanza del suo lavoro, un po’ del suo percorso… Per certi versi noi
non abbiamo niente in comune, apparteniamo a due spazi culturali
differenti. Ciò nonostante io credo alla verità di una certa necessità di
questo incontro… (e lui) ha sentito che quello che facevo rappresentava
una certa marginalità, rottura, che noi avevamo delle cose da condividere…
Ho preparato dunque un testo, difficile da comporre: era necessario che mi
rivolgessi a lui, che non capisce il francese, e quello che avrebbe
contato per lui, era il mio ‘tono’, e lui avrebbe risposto a questo tono.
Mi ha quindi guidato l’indirizzarmi simultaneamente a lui e al pubblico,
su un certo tono, su un certo ritmo, che gli avrebbe permesso sia di
rispondermi, sia di suonare contemporaneamente a me... Oltre ai segni di
tono, di ritmo, al fatto che ci fossero più voci, molti elementi
premusicali, volevo abbordare, annodare a modo mio un certo numero di temi
da analizzare: l’improvvisazione, temi politici, come il suo rapporto con
il mercato…” Coleman, afroamericano del Texas, nato a Forth Worth nel
1930, è il musicista che più ha espresso l’esigenza di oltrepassare le
convenzioni sia del sistema tonale occidentale che dell’industria
culturale, praticando una musica basata sull’improvvisazione pura ed
elaborando anche il concetto di “armolodia”, basato sull’equivalenza di
ritmo, armonia e melodia, con l’indipendenza di ciascuna voce e
l’estensione del ruolo di solista a tutti gli esecutori. Un ascolto
indicativo è sicuramente Free Jazz (1961), che utilizza come copertina il
dipinto White Light (1954) di Jackson Pollock, e cattura un’irripetibile
improvvisazione per doppio quartetto (Ornette Coleman, Don Cherry, Scott
Lafaro, Bill Higgins + Eric Dolphy, Freddy Hubbart, Charlie Haden, Ed
Blackwell). E almeno una volta sentire Lonely Woman (su The Shape of Jazz
to Come, 1959): gli “unisoni armonici” di sax e tromba, con il primo (un
Conn di plastica) che si muove come per lamenti e la seconda (una tromba
tascabile pakistana) in leggero ritardo, i ceselli contrabbassistici che
aprono e chiudono il pezzo, le sottigliezze ritmiche delle pelli e dei
piatti, e farsi rapire dall’errante traccia del suo tema.
Derrida, ebreo francese nato nel 1930 ad El Biar in Algeria, è il filosofo
che ha formulato il concetto della decostruzione: una strategia di
destabilizzazione delle strutture teoriche basate sulle false opposizioni
(spirito - materia, universale - particolare), una pratica di sabotaggio
dei rapporti gerarchici di dominio messi in gioco nei processi di
legittimazione e di istituzionalizzazione. La decostruzione esamina una
idea, un’istituzione o un valore, introducendo un terzo termine estraneo e
mettendo in luce l’assenza di una verità originaria ed il ruolo creativo
espresso dalla filosofia. Nel suo pensiero, come nota Silvano Petrosino,
l’apertura costante al possibile si accompagna al rifiuto di ogni
compimento ultimo. Ora, il giovane Derrida desiderava diventare giocatore
di pallone professionista: questa caratteristica, insieme a quella di aver
pubblicato libri (ma il filosofo parlerebbe di testi), potrebbe
avvicinarlo in qualche modo al popolare Baggio: ma sia la loro opera che i
contesti che determinano sembrerebbero diversi, e non soltanto per
“intonazione”. E non a caso, la cosiddetta “società della comunicazione”,
che impone fenomeni rigorosamente dettati da esigenze di mercato come
quelli di un personaggio pubblico che fa un libro, o un disco, che
sostanzialmente riduce l’ “informazione” a spot pubblicitario portando
all’istupidimento delle stesse capacità percettive e intellettive, è da
Deridda e Coleman messa in discussione nei suoi stessi assunti, con la
proposta di pratiche radicalmente diverse.
Coleman quando afferma che “ogni nota va bene con qualsiasi altra” non
proclama l’arbitrio e l’incompetenza, ma propone una nuova comunicazione,
dove le strutture musicali tradizionali si dissolvono a favore
dell’esperienza di un ascolto “totale”. È indicativo il suo primo
approccio alla musica a quattordici anni, quando legge la notazione
inglese (che parte da A=LA) applicandovi i valori della scala naturale (DO
maggiore) ed eseguendola su un sassofono alto (intonato in MI b):
coerentemente con la trasposizione, un DO su questo strumento suona come
un LA, e quindi, pur sbagliando, il risultato ottenuto era corretto.
Analizzando la questione, il musicista arriverà a concludere: “tutte le
cose che sono state disegnate con una logica stringente hanno una sola
contraddizione: non c’è un solo modo di farle.”
Le note del suo primo disco Something Else!!!! (1958) approfondiscono:
“Penso che un giorno la musica sarà molto più libera. Allora, lo schema
armonico di un brano sarà dimenticato e il brano stesso sarà il proprio
schema, e non saremo costretti a forme convenzionali.” Uno strumentista e
compositore come Charles Mingus osserva: “è come una disorganizzazione
organizzata, o come suonare male suonando nel modo giusto…” Invece
l’approccio istintivo ostentato con la tromba e il violino avranno modo di
indignare un Miles Davis, che pur considerandolo inizialmente “matto”
dimostrerà poi interesse per la sua musica e le sue idee. Intanto, nel
1966 Denardo Coleman ha dieci anni, e inizia ufficialmente a suonare con
il padre Ornette; successivamente, dischi come Science Fiction (1971) e In
All Languages (1987) portano Coleman verso contaminazioni etniche ed
elettriche, mentre in Skies of America (1972), per orchestra sinfonica, la
frammentazione dei linguaggi è condotta ad una sintesi che mantiene la
diversità dei suoi singoli momenti. La composizione si muove con largo uso
delle quinte e delle ottave parallele, proibite dall’armonia classica, e
si sviluppa prevalentemente su sonorità acute che suggeriscono l’idea di
un mondo visto dall’alto, cercando dichiaratamente di “descrivere qualcosa
che non avesse confini”. |