Variazioni su Jacques
Derrida e Ornette Coleman (2)
(Claudio Comandini) - Derrida dal canto suo propone di
“leggere i filosofi in un certo modo” (La scrittura e la differenza,
1967), sovvertendo dall’interno l’equivoco con cui l’occidente scambia il
suo pensiero con la “forma universale della razionalità” (La mitologia
bianca, 1971). La sua proposta è di disarticolare il sistema delle
convenzionali relazioni concettuali, “slogare l’unità verbale” e
“consumare i segni fino alla cenere” (Posizioni, 1972) per rendere la
razionalità consapevole dei suoi condizionamenti, “cambiare terreno, in
modo discontinuo e dirompente”, e “parlare parecchie lingue e comporre
parecchi testi allo stesso tempo” (Fini dell’uomo, 1968), raffigurare
“ciò
che non appartiene al padre” (La disseminazione, 1972), accogliere ciò che
è assolutamente straniero. Coleman sembra manifestatamente vicino a questa
concezione, dove, come segnala già Michele Mannucci, le quattro note che
formano il tema della Sinfonia in do minore di Beethoven vengono
“decostruite metricamente” e spostate ad una struttura blues in
The fifth
of Beethoven (1960, su The art of improvisers, 1970).
Il pensiero di Derrida viene a precisarsi attraverso una diversificazione
stlistica inesauribile, che prende anche forme parodistiche, come quando
l’ombrello perduto di Nietzsche (da un appunto posto fra virgolette nei
Frammenti Postumi 1881-2), diventa traccia del ritrovamento dell’oblio
attivo: perdita dell’origine che permette l’azione (Sproni, 1978). Un tipo
che smarrisce e trova ombrelli sembrerebbe anche Ornette Coleman, di cui
Giampiero Cane dice: “le cose si presentano a lui caoticamente, in
disordine, e vengono affrontate senza idea di un ordine in cui collocarle,
ma proprio cercando di trovare la possibilità di un ordine.”
Ma il mondo della comunicazione ha altro da fare che sviluppare la sua
intelligenza emotiva in musica e reinventare i suoi riferimenti
concettuali. E dove la globalizzazione celebra il matrimonio fra religione
e tele-tecnoscienza, e la guerra fredda implode nel terrorismo, per
Derrida l’Europa “a venire” dovrà assumersi la responsabilità di
riscoprire la sua cultura nel “non essere uguale a se stessa” (L’altro
capo, 1991), cercando quindi la sua memoria non nel passato, ma nel
futuro. Questo futuro non è il preteso trionfo del capitale finanziario
internazionale e la “telecoscienza dei media” (Spettri di Marx, 1993), che
afferma l’esclusiva logica della “ragione del più forte”, ma “l’attesa
priva di attesa della singolarità dell’altro” (Stati canaglia, 2003), dove
si esprime anche un’esigenza di altermondialismo le cui priorità vengono
così precisate (in una recente intervista di Jean Birnbaum per Le Monde -
tradotta su Internazionale 561- da cui sono tratte anche le citazioni
successive): “Quel che chiamavo ‘nuova internazionale’ci impone molti
cambiamenti nel diritto internazionale e nelle organizzazioni che regolano
l’ordine mondiale: FMI, WTO, G8, e soprattutto l’ONU, di cui bisognerebbe
cambiare almeno la carta, la composizione e innanzitutto la sede,
portandola il più lontano possibile da New York.”
Se il decostruzionismo ha avuto grande influenza sulla critica letteraria
americana post-modernista (Paul de Man, Ihab Hasan e Peter Carravetta, per
esempio), la principale preoccupazione teoretica di Derrida è nella
critica del logocentrismo, cioè la concezione secondo la quale la “parola”
sarebbe la modalità di conoscenza privilegiata. Sulla base della
differenza ontologica di Heidegger, l’essere, il pensiero più semplice, è
irriducibile ad ogni forma di identità, è già diverso da se stesso,
caratterizzato, seguendo Levinàs, dalla sua assoluta alterità. L’essere
non è identità originaria, ed è irriducibile all’espressione linguistica
con cui la sua presenza viene verbalmente formulata. L’origine non è
costituita da presenza e unità recuperabili attraverso la parola, ma solo
da “tracce”, segni dell’essere inattingibile come totalità, i quali
costituiscono una “scrittura originaria” che prevale sulla parola detta.
Attraverso la differenza della scrittura, “presenza di un’assenza” si
accede all’essere come “differance” (con la a, per marcarne l’assoluta
irriducibilità), portatori di un “lutto originario” per cui “imparare a
vivere significa imparare a morire, a considerare, per accettarla, la
finitezza assoluta, senza salvezza, resurrezione o redenzione, né per me
né per l’altro.” Se sopravvivere è la dimensione strutturale
dell’esistenza, la morte è la scrittura stessa, e l’anticipazione della
morte è la filosofia: ma questa morte è dono e ci congeda dai morenti,
come traccia che sopravvive, come “la vita più intensa possibile”.
L’8 ottobre 2004 Derrida è venuto a mancare, sopravvivendo in innumerevoli
tracce, disseminato in numerosi testi, spesso ampiamente basati su
“improvvisazioni”, su conferenze riadattate (come il materiale
improvvisativo musicale viene sottoposto ad editing), dove sviluppi e
riferimenti estremamente complessi sono esposti e “messi in opera” (Petrosino)
sempre con una specifica contestualità, in un modo che un’altra volta ha
relazione con le inconsuete geometrie musicali di Ornette Coleman. Il
quale per descrivere il proprio lavoro utilizza termini che il filosofo
avrebbe trovato senz’altro “intonati”: “La mia musica non ha un vero
tempo, nessun tempo metrico. Ha un tempo, ma non nel senso in cui puoi
darle un tempo. E’ più come un respiro, un tempo naturale, più libero. La
gente ha dimenticato quanto sia bello essere naturali. Anche in amore.” A
questo riguardo Derrida propone di abolire il matrimonio, equivoco civile
ed ipocrisia religiosa che in una costituzione definitivamente e
finalmente laica dovrà sostituirsi con “una ‘unione civile’ contrattuale,
una sorta di patto di solidarietà generalizzato, migliorato, flessibile,
regolato fra i partner di sesso e numero non imposto”.
L’esperienza di alterità radicale indicata da Derrida deriva dalla
migliore eredità dell’illuminismo, da quella “capacità autocritica” da cui
viene anche “la perfettibilità dell’occidente, e la possibilità di un
futuro”. Tomorrow is the question, “la domanda è domani”, recitava il
titolo di un disco di Ornette Coleman del 1959: se quel domani non è ora
ancora il nostro presente, a quale futuro stiamo dando risposta?
(Per gentile concessione della rivista “Musica jazz”) |