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Sommario anno XIV numero 1 - gennaio 2005

 SPETTACOLI E ARTE

Variazioni su Jacques Derrida e Ornette Coleman (2)
(Claudio Comandini) - Derrida dal canto suo propone di “leggere i filosofi in un certo modo” (La scrittura e la differenza, 1967), sovvertendo dall’interno l’equivoco con cui l’occidente scambia il suo pensiero con la “forma universale della razionalità” (La mitologia bianca, 1971). La sua proposta è di disarticolare il sistema delle convenzionali relazioni concettuali, “slogare l’unità verbale” e “consumare i segni fino alla cenere” (Posizioni, 1972) per rendere la razionalità consapevole dei suoi condizionamenti, “cambiare terreno, in modo discontinuo e dirompente”, e “parlare parecchie lingue e comporre parecchi testi allo stesso tempo” (Fini dell’uomo, 1968), raffigurare “ciò che non appartiene al padre” (La disseminazione, 1972), accogliere ciò che è assolutamente straniero. Coleman sembra manifestatamente vicino a questa concezione, dove, come segnala già Michele Mannucci, le quattro note che formano il tema della Sinfonia in do minore di Beethoven vengono “decostruite metricamente” e spostate ad una struttura blues in The fifth of Beethoven (1960, su The art of improvisers, 1970).
Il pensiero di Derrida viene a precisarsi attraverso una diversificazione stlistica inesauribile, che prende anche forme parodistiche, come quando l’ombrello perduto di Nietzsche (da un appunto posto fra virgolette nei Frammenti Postumi 1881-2), diventa traccia del ritrovamento dell’oblio attivo: perdita dell’origine che permette l’azione (Sproni, 1978). Un tipo che smarrisce e trova ombrelli sembrerebbe anche Ornette Coleman, di cui Giampiero Cane dice: “le cose si presentano a lui caoticamente, in disordine, e vengono affrontate senza idea di un ordine in cui collocarle, ma proprio cercando di trovare la possibilità di un ordine.”
Ma il mondo della comunicazione ha altro da fare che sviluppare la sua intelligenza emotiva in musica e reinventare i suoi riferimenti concettuali. E dove la globalizzazione celebra il matrimonio fra religione e tele-tecnoscienza, e la guerra fredda implode nel terrorismo, per Derrida l’Europa “a venire” dovrà assumersi la responsabilità di riscoprire la sua cultura nel “non essere uguale a se stessa” (L’altro capo, 1991), cercando quindi la sua memoria non nel passato, ma nel futuro. Questo futuro non è il preteso trionfo del capitale finanziario internazionale e la “telecoscienza dei media” (Spettri di Marx, 1993), che afferma l’esclusiva logica della “ragione del più forte”, ma “l’attesa priva di attesa della singolarità dell’altro” (Stati canaglia, 2003), dove si esprime anche un’esigenza di altermondialismo le cui priorità vengono così precisate (in una recente intervista di Jean Birnbaum per Le Monde - tradotta su Internazionale 561- da cui sono tratte anche le citazioni successive): “Quel che chiamavo ‘nuova internazionale’ci impone molti cambiamenti nel diritto internazionale e nelle organizzazioni che regolano l’ordine mondiale: FMI, WTO, G8, e soprattutto l’ONU, di cui bisognerebbe cambiare almeno la carta, la composizione e innanzitutto la sede, portandola il più lontano possibile da New York.”
Se il decostruzionismo ha avuto grande influenza sulla critica letteraria americana post-modernista (Paul de Man, Ihab Hasan e Peter Carravetta, per esempio), la principale preoccupazione teoretica di Derrida è nella critica del logocentrismo, cioè la concezione secondo la quale la “parola” sarebbe la modalità di conoscenza privilegiata. Sulla base della differenza ontologica di Heidegger, l’essere, il pensiero più semplice, è irriducibile ad ogni forma di identità, è già diverso da se stesso, caratterizzato, seguendo Levinàs, dalla sua assoluta alterità. L’essere non è identità originaria, ed è irriducibile all’espressione linguistica con cui la sua presenza viene verbalmente formulata. L’origine non è costituita da presenza e unità recuperabili attraverso la parola, ma solo da “tracce”, segni dell’essere inattingibile come totalità, i quali costituiscono una “scrittura originaria” che prevale sulla parola detta. Attraverso la differenza della scrittura, “presenza di un’assenza” si accede all’essere come “differance” (con la a, per marcarne l’assoluta irriducibilità), portatori di un “lutto originario” per cui “imparare a vivere significa imparare a morire, a considerare, per accettarla, la finitezza assoluta, senza salvezza, resurrezione o redenzione, né per me né per l’altro.” Se sopravvivere è la dimensione strutturale dell’esistenza, la morte è la scrittura stessa, e l’anticipazione della morte è la filosofia: ma questa morte è dono e ci congeda dai morenti, come traccia che sopravvive, come “la vita più intensa possibile”.
L’8 ottobre 2004 Derrida è venuto a mancare, sopravvivendo in innumerevoli tracce, disseminato in numerosi testi, spesso ampiamente basati su “improvvisazioni”, su conferenze riadattate (come il materiale improvvisativo musicale viene sottoposto ad editing), dove sviluppi e riferimenti estremamente complessi sono esposti e “messi in opera” (Petrosino) sempre con una specifica contestualità, in un modo che un’altra volta ha relazione con le inconsuete geometrie musicali di Ornette Coleman. Il quale per descrivere il proprio lavoro utilizza termini che il filosofo avrebbe trovato senz’altro “intonati”: “La mia musica non ha un vero tempo, nessun tempo metrico. Ha un tempo, ma non nel senso in cui puoi darle un tempo. E’ più come un respiro, un tempo naturale, più libero. La gente ha dimenticato quanto sia bello essere naturali. Anche in amore.” A questo riguardo Derrida propone di abolire il matrimonio, equivoco civile ed ipocrisia religiosa che in una costituzione definitivamente e finalmente laica dovrà sostituirsi con “una ‘unione civile’ contrattuale, una sorta di patto di solidarietà generalizzato, migliorato, flessibile, regolato fra i partner di sesso e numero non imposto”.
L’esperienza di alterità radicale indicata da Derrida deriva dalla migliore eredità dell’illuminismo, da quella “capacità autocritica” da cui viene anche “la perfettibilità dell’occidente, e la possibilità di un futuro”. Tomorrow is the question, “la domanda è domani”, recitava il titolo di un disco di Ornette Coleman del 1959: se quel domani non è ora ancora il nostro presente, a quale futuro stiamo dando risposta?
(Per gentile concessione della rivista “Musica jazz”)

 SPETTACOLI E ARTE

Sommario anno XIV numero 1 - gennaio 2005