C’erano una volta le
municipalizzate
(Massimo De Fidio) - È un fatto che la buona gestione della
pubblica amministrazione è sempre più complicata e gli enti locali in
Italia sono costretti ormai a fare i conti non solo con il bilancio,
sempre più risicato stando ai tagli annunciati nella legge Finanziaria
2005, ma anche e soprattutto con la gestione manageriale di servizi
essenziali per i quali spesso non bastano più la programmazione politica e
la buona volontà dei funzionari preposti alla loro realizzazione.
In molti settori della pubblica amministrazione, dai trasporti alla
raccolta dei rifiuti urbani, dalle farmacie alla gestione immobiliare, dal
verde pubblico ai cimiteri, senza parlare delle nuove opere per le quali
la cronica mancanza di capitali pubblici favorisce il ricorso ai
project financing (ovvero ai progetti interamente finanziati da
capitale privato in cambio di un ritorno economico che può avere varie
forme, dalla tariffazione, all’uso del bene, alla realizzazione di opere
accessorie e collaterali), l’equazione comune fai da te non regge
più non soltanto perché spesso mancano agli enti locali le risorse
finanziarie da investire in queste attività ma anche perché ad essi
mancano le risorse interne per occuparsi al meglio di questi servizi (i
dipendenti pubblici sono sempre di meno e sempre più impegnati in attività
strategiche di controllo del territorio quali ad esempio la tutela
urbanistico-ambientale e/o i compiti della Polizia Municipale).
Ecco allora la vorticosa moltiplicazione dei processi di outsourcing
(termine che sta ad indicare l’affidamento dei servizi a società
specializzate) in virtù dei quali molti comuni, allo scopo di migliorare
la tempestività e l’efficienza della propria offerta, affidano a soggetti
esterni lo svolgimento di servizi e attività fino ad ieri gestiti da
strutture amministrative quali le aziende municipalizzate.
La differenza tra le due soluzioni balza subito agli occhi; con il vecchio
sistema delle municipalizzate era l’ente locale medesimo che assumeva
direttamente l’onere dell’erogazione di alcuni servizi essenziali con il
risultato nell’ipotesi migliore di avere conti in perenne deficit, salvo
essere a fine esercizio ripartiti e colmati in tutto o in parte da
trasferimenti regionali e statali, nel caso peggiore di erogare servizi di
qualità modesta, gestiti senza modelli economici di riferimento e pertanto
destinati ad abbassare inesorabilmente il livello dei servizi attesi dai
cittadini.
Con l’affidamento a società esterne, viceversa, il comune non si interessa
più del servizio che è gestito autonomamente dall’affidatario in regime di
diritto privato, in cambio del pagamento di un corrispettivo
predeterminato o della rinuncia ad una quota degli introiti derivanti dal
servizio medesimo che vengono incassati dalla società terza e ne
costituiscono il provento.
Può verificarsi inoltre il caso che il Comune e il privato diano vita ad
un nuovo ente, una società mista di diritto privato, nella quale il comune
detiene una quota azionaria di maggioranza e il privato si occupa della
gestione del business rispondendone nei confronti degli organi
societari.
In entrambi i casi, tuttavia, lo spazio di manovra degli enti locali, così
come il loro potere di indirizzo e controllo, è ridotto al minimo e viene
a cozzare con logiche e metodi di gestione che inseguono soprattutto
margini economici redditizi.
Bisogna affidarsi alla fortuna: se la società nasce e procede florida
nessun problema, in caso contrario risulterà difficile per l’ente
sganciarsi da scelte operative che competono ai manager, senza contare il
dispendio di risorse consistente nel tenere uno o più dirigenti impegnati
magari a tempo pieno a occuparsi delle nuove attività.
Da un’idea buona si è passati, come spesso accade in Italia, ad una
applicazione ancora lontana da un’apprezzabile efficienza dei servizi.
Da un lato i comuni non sono ancora (e chissà quando potranno esserlo)
attrezzati al ruolo che gli economisti definiscono di governance,
ovvero di governo e indirizzo della cosa pubblica. Sembra prevalere in
loro la tendenza ad abdicare ad alcuni compiti istituzionali senza
preoccuparsi troppo se ciò che avverrà dopo dovesse sfuggire al loro
controllo. Dall’altro l’auspicata liberalizzazione dei servizi pubblici
non ha prodotto i frutti sperati; non si è ancora dato vita ad un moderno
sistema di imprese pubbliche e private capaci di competere tra loro ma si
è di fatto determinato un progressivo allargamento dei monopoli pubblici,
che oggi svolgono più mestieri in uno. Sono al contempo società
concessionarie, partner di altri concessionari, stabiliscono le tariffe,
controllano l’esecuzione di opere altrui, appaltano lavori e, come se non
bastasse, sono continuamente rafforzate sul piano finanziario da cospicui
aumenti di capitale.
È un po’ quello che è successo, ricorderete, nella apertura alla
concorrenza di servizi essenziali e perciò irrinunciabili come l’energia,
il telefono, il gas, nei quali al proliferare sulla carta dei gestori non
è corrisposta né l’auspicata riduzione delle tariffe attesa dai
consumatori né la sparizione dei precedenti monopoli che, in alcuni casi
hanno cambiato nome e ragione sociale, pur mantenendo nella sostanza
inalterati i loro privilegi.
In questa situazione, la maggior parte degli enti locali, recitano la
parte del vaso di coccio manzoniano tra i vasi di ferro. E i cittadini,
vero terminale delle politiche pubbliche, lamentano una doppia condizione
di sfavore: tariffe in crescita e qualità dei servizi che sovente lascia a
desiderare. O ci si decide a dar vita ad una vera economia dei servizi,
concorrenziale sulla qualità e sulle tariffe, come reclamano a gran voce i
cittadini e anche quell’Europa delle opportunità di cui siamo ormai parte
integrante o, altrimenti, tanto varrebbe tornare alle vecchie e care
municipalizzate. |