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Sommario anno XIV numero 1 - gennaio 2005

 COSTUME

C’erano una volta le municipalizzate
(Massimo De Fidio) - È un fatto che la buona gestione della pubblica amministrazione è sempre più complicata e gli enti locali in Italia sono costretti ormai a fare i conti non solo con il bilancio, sempre più risicato stando ai tagli annunciati nella legge Finanziaria 2005, ma anche e soprattutto con la gestione manageriale di servizi essenziali per i quali spesso non bastano più la programmazione politica e la buona volontà dei funzionari preposti alla loro realizzazione.
In molti settori della pubblica amministrazione, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti urbani, dalle farmacie alla gestione immobiliare, dal verde pubblico ai cimiteri, senza parlare delle nuove opere per le quali la cronica mancanza di capitali pubblici favorisce il ricorso ai project financing (ovvero ai progetti interamente finanziati da capitale privato in cambio di un ritorno economico che può avere varie forme, dalla tariffazione, all’uso del bene, alla realizzazione di opere accessorie e collaterali), l’equazione comune fai da te non regge più non soltanto perché spesso mancano agli enti locali le risorse finanziarie da investire in queste attività ma anche perché ad essi mancano le risorse interne per occuparsi al meglio di questi servizi (i dipendenti pubblici sono sempre di meno e sempre più impegnati in attività strategiche di controllo del territorio quali ad esempio la tutela urbanistico-ambientale e/o i compiti della Polizia Municipale).
Ecco allora la vorticosa moltiplicazione dei processi di outsourcing (termine che sta ad indicare l’affidamento dei servizi a società specializzate) in virtù dei quali molti comuni, allo scopo di migliorare la tempestività e l’efficienza della propria offerta, affidano a soggetti esterni lo svolgimento di servizi e attività fino ad ieri gestiti da strutture amministrative quali le aziende municipalizzate.
La differenza tra le due soluzioni balza subito agli occhi; con il vecchio sistema delle municipalizzate era l’ente locale medesimo che assumeva direttamente l’onere dell’erogazione di alcuni servizi essenziali con il risultato nell’ipotesi migliore di avere conti in perenne deficit, salvo essere a fine esercizio ripartiti e colmati in tutto o in parte da trasferimenti regionali e statali, nel caso peggiore di erogare servizi di qualità modesta, gestiti senza modelli economici di riferimento e pertanto destinati ad abbassare inesorabilmente il livello dei servizi attesi dai cittadini. 
Con l’affidamento a società esterne, viceversa, il comune non si interessa più del servizio che è gestito autonomamente dall’affidatario in regime di diritto privato, in cambio del pagamento di un corrispettivo predeterminato o della rinuncia ad una quota degli introiti derivanti dal servizio medesimo che vengono incassati dalla società terza e ne costituiscono il provento.
Può verificarsi inoltre il caso che il Comune e il privato diano vita ad un nuovo ente, una società mista di diritto privato, nella quale il comune detiene una quota azionaria di maggioranza e il privato si occupa della gestione del business rispondendone nei confronti degli organi societari.  
In entrambi i casi, tuttavia, lo spazio di manovra degli enti locali, così come il loro potere di indirizzo e controllo, è ridotto al minimo e viene a cozzare con logiche e metodi di gestione che inseguono soprattutto margini economici redditizi.
Bisogna affidarsi alla fortuna: se la società nasce e procede florida nessun problema, in caso contrario risulterà difficile per l’ente sganciarsi da scelte operative che competono ai manager, senza contare il dispendio di risorse consistente nel tenere uno o più dirigenti impegnati magari a tempo pieno a occuparsi delle nuove attività.
Da un’idea buona si è passati, come spesso accade in Italia, ad una applicazione ancora lontana da un’apprezzabile efficienza dei servizi.
Da un lato i comuni non sono ancora (e chissà quando potranno esserlo) attrezzati al ruolo che gli economisti definiscono di governance, ovvero di governo e indirizzo della cosa pubblica. Sembra prevalere in loro la tendenza ad abdicare ad alcuni compiti istituzionali senza preoccuparsi troppo se ciò che avverrà dopo dovesse sfuggire al loro controllo. Dall’altro l’auspicata liberalizzazione dei servizi pubblici non ha prodotto i frutti sperati; non si è ancora dato vita ad un moderno sistema di imprese pubbliche e private capaci di competere tra loro ma si è di fatto determinato un progressivo allargamento dei monopoli pubblici, che oggi svolgono più mestieri in uno. Sono al contempo società concessionarie, partner di altri concessionari, stabiliscono le tariffe, controllano l’esecuzione di opere altrui, appaltano lavori e, come se non bastasse, sono continuamente rafforzate sul piano finanziario da cospicui aumenti di capitale.
È un po’ quello che è successo, ricorderete, nella apertura alla concorrenza di servizi essenziali e perciò irrinunciabili come l’energia, il telefono, il gas, nei quali al proliferare sulla carta dei gestori non è corrisposta né l’auspicata riduzione delle tariffe attesa dai consumatori né la sparizione dei precedenti monopoli che, in alcuni casi hanno cambiato nome e ragione sociale, pur mantenendo nella sostanza inalterati i loro privilegi.
In questa situazione, la maggior parte degli enti locali, recitano la parte del vaso di coccio manzoniano tra i vasi di ferro. E i cittadini, vero terminale delle politiche pubbliche, lamentano una doppia condizione di sfavore: tariffe in crescita e qualità dei servizi che sovente lascia a desiderare. O ci si decide a dar vita ad una vera economia dei servizi, concorrenziale sulla qualità e sulle tariffe, come reclamano a gran voce i cittadini e anche quell’Europa delle opportunità di cui siamo ormai parte integrante o, altrimenti, tanto varrebbe tornare alle vecchie e care municipalizzate.

 COSTUME

Sommario anno XIV numero 1 - gennaio 2005