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Sommario anno XIV numero 2 - febbraio 2005

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Tsunami, una catastrofe evitabile?
(Simone Proietti) - Era il 26 Dicembre 2004, il giorno di Santo Stefano qui in Italia, una normale giornata di vacanza per molti Una zona di Banda Aceh subito dopo lo Tsunamilaggiù in quelle terre esotiche da sogno, proposte in tutti i cataloghi di viaggio, sempre conditi dalle foto mozza fiato di spiagge candide e mare smeraldino. Dei paradisi idilliaci che spesso hanno solleticato la mente di noi “occidentali di città” a mollare il caos e lo smog alla ricerca della tranquillità e bellezza di quei posti. Un teatro della natura perfetto, che nonostante la scelleratezza umana degli alberghi costruiti fin quasi sulle rive, delle barriere coralline ridotte a brandelli dall’innalzamento della temperatura prodotta da quanto continuamente riversiamo nell’aria, della vegetazione di mangrovie annientata per interi lunghissimi tratti di costa, riusciva ancora a sorprendere ed estasiare.
Posti da sogno, fino a quando quella parte di globo tanto meraviglioza quanto popolosa è stata spazzata quel 26 Dicembre dall’energia devastante di un terremoto di grado 9 scala Richter. L’epicentro in mezzo all’oceano, una fortuna? Macchè, l’energia del sisma in qualche modo doveva dissiparsi, è stata l’acqua ad incaricarsi di prenderla con sé, di trasportarla a velocità folle fino a terra, correndo in tutte le direzioni da quell’unico punto. L’acqua era quella dell’Oceano Indiano, che si è trasformata in un messaggero di morte, in un maremoto, o tsunami come lo chiamano in Giappone, un fenomeno ben conosciuto che da milioni di anni agisce soprattutto in quella parte del globo, con le sue onde tanto potenti quanto alte, un incubo tramandato dal passato che aveva alimentato nel tempo il rispetto per un mare tanto prodigo quanto pericoloso. Lo sanno bene alle isole Hawaii dove da anni è attivo un importante centro sismologico e non è permesso costruire al di sotto dei 10 metri di altitudine, lasciando liberi ampi tratti di spiaggia.
È bastata qualche ora che quel sogno color turchese della barriera corallina si sia tramutato in una catastrofe dalle dimensioni spaventose. Centinaia di migliaia di morti di tutti i paesi, milioni di sfollati, un evento naturale che ha messo in ginocchio intere nazioni.
Asse terrestre spostato di 6 centimetri, isole di 30 metri, ma questi strumenti tanto precisi non potevano invece segnalare un terremoto tanto catastrofico? Ma come, non siamo nel terzo millennio, non si poteva evitare una tragedia di tali proporzioni? Forse sì, se vi fossero state in quei paesi delle strutture scientifiche e di sorveglianza adeguate da raccogliere e diffondere gli allarmi degli organismi di ricerca internazionali, i quali avevano prontamente rilevato il sisma. Come riferisce lo stesso Ingegnere Guido Cavalieri, dell’ISMAR (Istituto di Scienze Marine) del CNR di Venezia, la velocità di propagazione di un’onda circolare come quella che si origina a seguito di un terremoto in mare, è ben conosciuta ed è pari alla radice quadrata della costante di gravità (9,81) moltiplicata per la profondità del punto dove avviene il sisma. Da ciò si ottengono mediamente velocità dell’ordine di circa 700 km\h in oceano aperto, per terremoti verificatisi a circa 4000 metri di profondità, una situazione paragonabile a quella del Sud-Esta Asiatico. Tale stima consentirebbe ad esempio di avere un margine di tempo di un paio di ore per avvertire e mettere in salvo gli abitanti di terre poste a 1400 km.
In Giappone gli tsunami sono fenomeni non rari, per i quali è stata approntata un’efficace rete di sorveglianza, che ha consentito in passato in diverse occasioni di avvisare e mettere in salvo la popolazione lungo le coste. Alcune delle immagini più spaventose degli tsunami ci arrivano proprio da quanti in quelle occasioni si erano messi in salvo, filmando in sicurezza la furia di un evento naturale catastrofico ma di grande spettacolo. Sì, oltre a misurare gli spostamenti dell’asse terrestre, peraltro non più influenti sul clima di quanto lo siano le nostre scellerate abitudini nella vita di tutti i giorni, i ricercatori avevano previsto tutto con un certo vantaggio. Un vantaggio che non avrebbe consentito di salvare le infrastrutture ma sicuramente di risparmiare una buona fetta di vite umane. Almeno le popolazioni dei paesi più distanti dall’epicentro, quali India, Sri Lanka etc, avrebbero avuto tutto il tempo per sgomberare le coste e rifugiarsi nell’entroterra. È mancato il passaparola in quei paesi spesso dimenticati, in cui spesso si esportano i modelli peggiori del nostro benessere senza istruire, senza diffondere quel concetto di “sviluppo sostenibile” tanto propagandato sulla carta dalle nostre parti, ma mai realmente applicato né da noi né altrove.
Una maggiore attenzione al Pianeta Terra, al monitoraggio dei fenomeni in atto, alla conservazione ed al rispetto dei fenomeni e dei meccanismi che lo regolano sarà fondamentale per evitare o quanto meno limitare nuove catastrofi in futuro. La ricerca scientifica può dare una grossa mano in questo senso, come avrebbe potuto darla nel Sud Est Asiatico se avesse avuto il modo di farsi ascoltare. Ora in quei paesi è ricominciata la ricostruzione. Sarebbe utile oltre che formativo programmare un viaggio da quelle parti per collaborare attivamente alla rinascita di quei popoli e contribuire all’economia di quelle popolazioni. Speriamo solo che tale tragedia sia di insegnamento per evitare l’evitabile e non commettere gli stessi abusi sull’ambiente perpetrati in passato. Sarebbe folle ricostruire a cinque metri dalle spiagge, sottovalutare l’importanza della vegetazione naturale, non investire in un valido organismo scientifico di controllo ed allarme in un’area che chissà quante altre volte sarà interessata dalla furia di terremoti tanto distruttivi. Il rischio ci sarà sempre, ovunque, ma si può abbassare, se prenderà corpo un nuovo atteggiamento di comprensione e rispetto dei processi naturali del nostro pianeta.

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