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Sommario anno XIV numero 4 - aprile 2005

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Dove va la lingua italiana?
(Luca Nicotra) - A volte mi chiedo se mi trovo veramente in Italia. Il dubbio mi assale leggendo cartelloni pubblicitari e insegne anche di semplici negozi. Magazzini e supermercati di una volta sono ormai diventati “store” e quelli ancora più grandi sono stati promossi a “superstore”. Quello che una volta si sarebbe chiamato un negozio di calzature, si trasforma in “shoe shop”, e il “Negozio delle belle cose” di Vincenzo Rossi si abbellisce del vezzoso “by Vincenzo Rossi”. Se un imprenditore italiano decide di aprire una società, il suo nome è spesso inglese, e lo è rigorosamente se il settore d’attività è quello dell’informatica, dove il “data” o il “net” finale sono d’obbligo, quasi fossero previsti da una forma sottaciuta di certificazione di qualità. Evidentemente, una società informatica, il cui nome non termini con “data” o con “net”, già a priori non è degna di essere presa in considerazione dal pubblico! Se si decide di festeggiare un evento, non v’è dubbio che si devono invitare parenti e amici ad un “party”, e se poi si ha la possibilità di allestire la “festa” in giardino, allora non si sta nella pelle di poter scrivere sul biglietto d’invito “garden party”. Nel campo tecnico-commerciale, è da tempo quasi un obbligo usare in abbondanza termini inglesi, anche quando esistono i corrispettivi italiani. E così nessuno sfugge (nemmeno lo scrivente!) all’uso di “design” e “designer” per “progettazione” e “progettista”, “setup” per “impostazione”, “gap” per “intervallo” e così via discorrendo. In campo commerciale, i fornitori diventano molto più dignitosamente “supplier”, mentre i clienti, non potendo essere da meno, si affrettano ad assurgere alla rispettabilità di “customer”. E se si deve personalizzare qualcosa sulla base delle specifiche richieste del cliente, non si può sfuggire all’uso di un termine terribile: “customizzare”, in ossequio al sacro “customer” inglese. Fino a qualche tempo fa alla televisione, che pure non è mai stata in contatto con l’Accademia della Crusca, si sentiva parlare di primo ministro e di segretario del partito tal dei tali. Da qualche tempo anche questi termini, ultimi baluardi in politica del parlare italiano, sono capitolati sotto la scure dei colleghi inglesi “premier” e “leader”. Quand’ero ragazzo, alla televisione, che non era ancora scivolata nella sua buca di decadenza, si poteva assistere a belle commedie di Gilberto Govi e di Eduardo de Filippo o ad interessanti sceneggiati e romanzi a puntate. Anche questi termini sembrano essere andati in pensione, e i nuovi assunti hanno il sapore frizzantino di “fiction”. Sono sicuro che se gli italiani dovessero avere corrispondenze assidue con amici e collaboratori inglesi o americani, in breve tempo anche il nostro “distinti saluti” sarebbe sostituto da un più rispettoso “best regards”, anche nella corrispondenza fra connazionali. Per fortuna gli italiani, così come leggono poco, scrivono poco, e questo pericolo, almeno per il momento, è scongiurato. Insomma, la nostra bella lingua, nata dal “dolce stil novo” di Dante, ci ha stancato, e non c’è quindi da meravigliarsi, se “il presidente dell’Unione Europea, Josè Manuel Barroso, ha cancellato la lingua italiana da tutte le conferenze-stampa dei commissari, ad eccezione di quelle che si tengono il mercoledì, unico giorno in cui è garantita la traduzione delle principali lingue dell’UE. “, come si legge nell’articolo “La Crusca: italiano declassato in Europa, politici colpevoli” di Belardelli e Di Stefano, apparso sul Corriere della Sera il 18 febbraio 2005. Francesco Sabatini, presidente dell’Accademia della Crusca, s’infuria contro i “politici che non hanno fatto nulla per difendere in Europa il ruolo dell’italiano”.
Certi fenomeni, tuttavia, non sono mai da ascrivere alla responsabilità dei singoli. L’affermarsi e il diffondersi di una lingua nazionale non dipendono dalla volontà di pochi, ma da quella di tutti i membri di una nazione. Il dilagare, spesso ingiustificato, di “anglicismi”, come quelli ricordati e molti più ancora, non citati, nella nostra lingua, è un segno evidente che da anni sono venuti a mancare in maniera generalizzata la fiducia e l’attaccamento alla lingua italiana. Le ragioni sono senz’altro più di una: la mortificazione post bellica dell’orgoglio nazionale, ingiustamente confuso con gli aspetti più deteriori del ventennio fascista; la convinzione, e quindi l’accettazione psicologica, della superiorità tecnica, scientifica, culturale, commerciale e militare dell’America (USA) e con essa della lingua che n’è il vettore comunicativo principale; il vezzo-vizio tutto italiano di non apprezzare ciò che abbiamo e, infantilmente, guardare a ciò che non ci appartiene con la cupidigia del bambino che desidera il giocattolo del suo compagno, pur avendo in abbondanza i propri; una certa “esterofilia”, che è il retaggio di troppi secoli d’asservimento allo straniero. Certamente, però, fa bene il professor Sabatini a puntare il dito contro i nostri politici, che dovrebbero essere i padrini dell’orgoglio nazionale e i tutori dei valori più alti delle nostre tradizioni culturali. Ma ci si può meravigliare veramente del declassamento della nostra lingua in ambito europeo, quando lo stesso attuale capo del governo (rifiuto da “italianista” il termine “premier”) non perde occasione per demolire quanto è rimasto in Italia di cultura, con continui attacchi alla scuola, alla ricerca scientifica e con pubblica ostentazione di disprezzo e disistima verso i docenti anche universitari? Siamo molto lontani dal modello di “principe-mecenate” di un tempo! Infatti, una volta (fino al secolo XIX) i capi politici e militari erano anche persone colte e amanti della cultura, al punto da essere essi stessi, spesso, grandi mecenati (per esempio Cesare, Augusto, Marco Aurelio e molti altri imperatori romani, i faraoni tolemei ad Alessandria d’Egitto, i Medici a Firenze, Napoleone a Parigi, Federico il Grande a Berlino, Caterina di Russia a Pietroburgo, eccetera). Nei tempi attuali, invece, cultura e mecenatismo purtroppo sono caduti in disgrazia e ai capi si chiede di essere soprattutto “pragmatici” (che erroneamente è stato frainteso con “incolti”), spregiudicati, opportunisti (ma il loro opportunismo non è quello machiavellico a beneficio del bene dello stato, anche se a discapito dei principi morali, ma è unicamente quello personale o di partito, a discapito sia del bene collettivo sia dei principi morali). Una nazione si distingue da uno stato per avere oltre che delle leggi comuni, una comune identità culturale. Una nazione è tale se tutti si sentono orgogliosi di farne parte. Allora diviene naturale, da parte di qualunque cittadino, difendere tutto ciò che ad essa appartenendo appartiene anche a lui. E la prima cosa che i cittadini di una nazione dovrebbero sentire propria è la comune lingua nazionale, che dovrebbero difendere quasi come se fosse il suolo patrio. Ma questo sembra non avvenire in Italia, dove da anni assistiamo ad un progressivo vilipendio della lingua nazionale, attraverso l’ostentazione di suoi usi errati, perfino da parte di coloro che (giornalisti, politici e uomini di spettacolo), essendo più di altri esposti all’attenzione pubblica, dovrebbero sentire maggiormente la responsabilità di dare il buon esempio. Forse, la pedanteria della nostra scuola del passato ha sortito l’effetto opposto di quello desiderato: allontanare anziché attrarre, scoraggiare anziché stimolare, far sentire vecchi anziché inalare la giovinezza della curiosità espressiva. Insomma, i vecchi mali del “latinorum”, non correttamente inteso, hanno prevalso su intenti che sicuramente all’inizio erano nobili. Dunque, hanno tutta la colpa i politici nel non difendere la lingua italiana all’Unione Europea? Io credo proprio di no: la colpa è di tutti noi italiani, che troppo poco amiamo sentirci italiani.

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