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40 anni dopo, ma senza retorica

Marzo 01
02:00 2008

Con questo titolo è stata dedicata al 1968, che quest’anno festeggia i suoi ‘primi quarant’anni’, la tavola rotonda tenutasi l’8 febbraio presso l’Auditorium del Goethe-Institut di Roma in apertura del ciclo di iniziative “Goethe rilegge il ‘68″. Tra gli intervenuti, alcuni protagonisti di quegli anni, come Gaston Salvatore, uno dei più stretti collaboratori di Rudi Dutschke, scrittori e storici; ha condotto il dibattito Daniele Protti, direttore de L’Europeo, che al ’68 ha dedicato interamente il primo numero. Obiettivo della manifestazione “ritessere il filo della memoria, perché gli Italiani hanno la memoria corta”, e ritrovare le radici del presente rivisitando un’Italia ben diversa, in cui il ’68 funge da vero e proprio ‘spartiacque’ al pari quasi della Grande Guerra, come ha sostenuto in seguito Sabatucci. In apertura dunque, Protti ha rievocato il quadro di un paese in cui il pontefice, Paolo VI, promulgava un’enciclica, la Humanae vitae, concernente temi adesso più che mai sul tappeto; e nello stesso tempo istituiva una commissione pontificia per modificare alcuni articoli del codice penale vaticano che ancora prevedeva la pena di morte; mentre sul versante italiano il presidente della Corte Costituzionale faceva abolire l’articolo che in caso di adulterio stabiliva l’impunità per il marito adultero e la galera per la moglie. Intanto un gruppo di ragazzi del milanese liceo Parini sconvolgeva l’opinione pubblica pubblicando sul giornalino scolastico La zanzara un’inchiesta sul sesso che gli avrebbe fruttato addirittura un processo (ma anche la prima pagina di Le monde per tutta la durata di quello). Il quadro dunque di un paese impegnato in una veloce e profonda trasformazione, avviata già nel ’66-’67 ed esplosa poi in modo palese nel ’68, che oggi si tende a confondere e identificare invece con gli anni ’70, gli ‘anni di piombo’ e il terrorismo. Nel primo intervento Gaston Salvatore, invitato a chiarire se il movimento a Berlino fosse stato in qualche modo segnato dalla particolarissima condizione di Insel-Stadt che quella città viveva all’interno della DDR, esordisce citando Marx, nonostante adesso sia “molto fuori moda”, e la sua convinzione che la rivoluzione si produca prima nei paesi in cui i rapporti nel sistema produttivo sono più avanzati, a giustificare la virulenza del movimento in quella sede. Sottolineando tuttavia anche la forza di quello italiano, superiore forse perfino a quella francese benché lì l’energica reazione di De Gaulle si spiegasse con il timore di una convergenza del movimento studentesco con un partito comunista di per sé molto forte. L’intervento di Giovanni Sabbatucci, storico “non prevedibile e non schierato, una delle non molte anime libere di questo paese” (a detta di Protti) è stato volto piuttosto a evidenziare del ’68 le contraddizioni, prima fra tutte l’atteggiamento di fronte alla rivoluzione dei consumi, che da una parte si rifiuta, mentre per altro verso se ne assumono i modi, la musica pop e beat, certo americanismo di costume, la psicoanalisi, le scienze sociali. Con un esordio provocatorio (“Saluto i ribelli della Sapienza”) e il ricordo della conoscenza con Renato Curcio, lo scrittore Peter Schneider valuta il ’68 come l’inevitabile reazione contro la generazione responsabile del Fascismo, e ne coglie l’evoluzione da movimento antiautoritario a marxista-stalinista fino allo sbocco terroristico nelle BR e nella RAF (Rote Armee Fraktion), senza per questo rinunciare allo spirito che quel movimento ha animato: “Io credo soltanto alla ribellione, non più alla rivoluzione… La ribellione sarà sempre necessaria, contro i maestri del mondo o i leader impazziti del proprio gruppo… Noi siamo colpevoli di non esserci ribellati contro i nostri leader impazziti”. A parere del politologo Claus Leggewie, invece, il ’68 ha rappresentato una vera e propria frattura in tutti i paesi europei, anche contro un partito comunista paradigma di totalitarismo (per il quale non è inopportuno il riferimento al carteggio tra Hannah Arendt e Cohn-Bendit sul dogmatismo del movimento operaio); e oggi ci sarebbero le premesse per un nuovo ’68, poiché il capitalismo non è stato mai così forte come oggi. Duro l’attacco del giornalista Marco Sassano contro quella parte della generazione del ’68 che “oggi è al potere”(tra questi Ferrara), nel ricordo commosso di chi non c’è più, come Walter Tobagi, “cattolico-socialista, povero figlio di operai” che lo cooptò nella redazione de La zanzara. E se è positivo il bilancio di un ‘68 che “ha vinto come rivoluzione culturale”, cambiando l’università, la politica (prima nella piazze e nei comizi, poi nelle scuole e nelle fabbriche), attuando lo ‘svelamento’ dei rapporti di potere, restano però anche i limiti di un movimento che in Italia è diventato “insofferenza della legalità”, rifiuto dell’’adultità’, per cui ora ci troviamo “nell’era dei Peter Pan, sospesi in un tempo senza tempo, sottratti all’assunzione di responsabilità”. In conclusione di dibattito, di fronte alla questione posta da Protti sui bilanci e le prospettive future, l’apertura possibilista e ironica di Gaston Salvatore (“con la globalizzazione, la classe operaia potrebbe riformarsi globalmente”, ma “il problema della sinistra è che si divide”) si scontra con la posizione critica di Sabbatucci verso la “violenza, anche verbale, degli slogans”, “la democrazia assembleare”, la “contestazione assurta a valore” di un movimento che “in un mondo pieno di dittature, si rivolse contro le democrazie”, mutuando dalla componente cattolica certi aspetti “un po’ penitenziali”. Senza appello anche la condanna politica di Sassano: “il ’68 si proponeva di cambiare il potere e su questo la sconfitta è piena e irrefutabile”, fino alla conclusione paradossale di Leggewie: “’68 war eine gluecklich gescheiterte Revolution”(“Il ’68 è stato una rivoluzione felicemente fallita”).

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