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Cali il silenzio su Yara

Maggio 09
14:31 2011

Mi hanno invitato a RAI 2 a dibattere su un tema assai scivoloso: la richiesta di silenzio stampa sul caso della giovane Yara avanzata dal parroco di Brembate Don Corinno Scotti.  Ebbene credo che valga la pena di premettere che sono e sarò sempre fieramente contrario ad ogni genere di censura, preventiva e non, e ad ogni genere di bavaglio che a qualunque titolo si voglia imporre alla informazione.

E inoltre mi pare quantomeno paradossale che tale bavaglio venga invocato da un parroco che, con le sue prediche infuocate, non ha certamente contribuito a placare gli animi e a smorzare i toni. Quando infatti si grida “all’orco che è tra noi”, quando si lancia una provocazione forte sostenendo che “è meglio avere un figlio morto che un figlio assassino”, quando infine si paragona la povera Yara addirittura a Santa Maria Goretti, non ci si può poi candidamente stupire dei pubblici pellegrinaggi sul luogo del delitto.

Ciò detto, va però considerato che una qualche forma di autolimitazione sarebbe bene che fossero per primi gli stessi operatori dell’informazione a porsela, ed in primis coloro che occupano gli spazi di cosiddetto “approfondimento” che dilagano nei pomeriggi e nelle tarde serate della nostra televisione, pubblica e privata, fatta una meritoria eccezione per LA7. Mi è capitato qualche giorno fa di passare da “Casa Perego” su Canale 5 a “Verissimo” su RAI 1, da “Pomeriggio sul 2” a “Porta a Porta”, per finire a “Matrix”, e di trovarvi dalle tre del pomeriggio all’una di notte una lunga giornata dedicata monotematicamente al “caso Yara”. Ora io so bene quali sono i meccanismi che sottintendono alla scelta di incentrare una puntata su un caso “forte” che assicura ascolti con poco sforzo, tratta un argomento che non ha implicazioni politiche, e che quindi non crea problemi alla redazione, permette di invitare opinionisti di vario genere e a vario titolo (la scelta di invitare me ne è lampante esempio), e si ammanta per di più del nobile titolo di “caso di cronaca”. Avendo condotto per moti anni un noto talk show quotidiano del mattino su RAI 3, so bene quanto sia allettante occupare una delle cinque caselle del palinsesto settimanale con qualcosa di sicuramente remunerativo sul piano degli ascolti, e di facile e veloce preparazione. Se poi le caselle diventano due a settimana tanto meglio. Ma se poi si moltiplica questo meccanismo per la miriade di programmi di tale genere che l’offerta televisiva ci propone, se ne ha un effetto a cascata che rende il fenomeno autoreferenziale, nel senso che costringe tutti a parlare di quell’argomento a prescindere dalla pressione degli eventi, ma solo per non lasciar sguarnita la vantaggiosa postazione mediatica. Se insomma devi coprire decine di ore per un fatto che è redditizio dal punto di vista dell’audience, quando hai qualcosa da raccontare lo fai, ma se non c’è niente di sostanzialmente nuovo da raccontare allora si ricorre alla tecnica delle ricostruzioni e dei dettagli cruenti e pruriginosi. Il risultato sono decine e forse centinaia di ore di chiacchiere su un fatto che si avvita su se stesso, e da cui bisogna spremere a tutti i costi elementi di dibattito, e se tali elementi non li fornisce il fatto stesso allora si ricorre alle ipotesi, alle illazioni arbitrarie, e alla fuga di notizie non controllate.

Ma come si possono definire questo tipo di trasmissioni? Come possiamo catalogare le centinaia di ore perse a disquisire su Yara, Sarah, Erika e Omar, Meredith, e persino ancora della povera Elisa Claps e addirittura della Cesaroni? Non sono certo “intrattenimento”, perché mi rifiuto di credere che la gente si diverta a seguire tali vicende con lo stesso spirito di chi si appresta a vedere una partita di calcio o un film. Allora sono cronaca? Ma la cronaca, e la migliore delle cronache, è quella che mette a disposizione dell’opinione pubblica i fatti, li rende noti e ne verifica le fonti. Cosa ha a che vedere la cronaca con quel chiacchiericcio generico che si nobilita definendosi “commento”, affidato come spesso accade a qualche esperto e a molti commentatori racimolati tra la compagnia di giro che accalca i talk show nostrani? Cosa resta infine di quelle centinaia di ore dedicate a rievocare gli ultimi tragici minuti, la serie delle coltellate inflitte, lo stato di putrefazione del cadavere, la presenza e la qualità di liquidi organici, i riflessi di difesa della vittima nello spasmo della morte, e via di questo passo? Cosa resta di tutto il tam-tam mediatico attorno a Yara, Sarah, Erika, Meredith, cosa possono conservare di utile coloro che sono stati indotti per mesi a seguire nei dettagli più atroci la vicenda della uccisione di un essere umano? Che cosa ci hanno raccontato, che narrazione è stata offerta al pubblico? Insomma: a cosa serve?

Mi si obietta che spesso tali programmi hanno la funzione di mettere sotto l’occhio degli inquirenti un caso altrimenti dimenticato. Certamente, onore a programmi come “Chi l’ha visto”, che hanno nel loro titolo una funzione sociale che può essere meritoria, cioè il contribuire al ritrovamento di persone scomparse e a volte persino essere il contenitore dove arrivano informazioni anonime altrimenti irraggiungibili. Ma una cosa è prodigarsi per aiutare a risolvere un caso, altro è diventare parte stessa del caso creando ad arte ipotesi, tracce, piste spesso basate sul nulla, con l’unico scopo di portare a casa un’altra puntata di successo e di preparare i presupposti per la prossima.

Mi si obbietta ancora che, soprattutto di recente, tali programmi hanno contribuito a mettere in luce gravi inefficienze del nostro sistema investigativo. Effettivamente, se si analizzano i metodi di conduzione delle indagini che emergono dai casi trattati, molti dubbi sull’efficienza delle nostre svariate polizie emergono inquietanti. Ma nascondere dietro il nobile manto del “giornalismo di denuncia” una serie di trasmissioni che non fanno che scavare con piglio necrofilo e quasi pornografico nei lati più sanguinolenti e macabri delle vicende narrate, è operazione ambigua. Se poi il problema che emerge è lo scarso livello di affidabilità degli inquirenti, allora davvero sarebbe il caso di fare una bella serie di puntate su un tema così spinoso e delicato, che avrebbe però lo svantaggio per le varie redazioni di creare non pochi grattacapi nei rapporti con l’autorità costituita. Però quello sarebbe davvero “approfondimento” e si potrebbe vantare di essere vero “giornalismo di denuncia”. Insomma, per essere chiari, a fronte delle centinaia di ore dedicate ai vari casi Yara, quante ore sono state dedicate a quel clamoroso, intricato e appassionante caso che fu l’assassinio del povero Stefano Cucchi da parte di alcuni rappresentanti delle Forze dell’ordine?

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