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“Canti” di Giuseppe Serembe

“Canti” di Giuseppe Serembe
Marzo 01
02:00 2008

Nell’entroterra ionico, ai piedi della Sila, si erge San Cosmo Albanese, un borgo ricco di storia in un singolare contesto culturale tuttora preservato. Qui approdarono, nel corso del XV secolo, comunità albanesi in fuga dall’ascesa turca lungo i Balcani. Paese memore delle gesta di Scanderberg, eroe nazionale della resistenza contro Maometto II e “atleta di Cristo” di papa Callisto III, altresì mai dimentico del suo poeta bohemien Giuseppe Serembe, immortalato nel mezzo busto eretto in piazza della Libertà e di recente celebrato dall’amministrazione locale attraverso questa pubblicazione. Una silloge che si avvale delle traduzioni di Vincenzo Belmonte, frutto di un’attenta ricerca e redatte con puntuali note per renderci al meglio l’originale gusto dei Kënka. Siamo nell’Ottocento, nel pieno delle vicende risorgimentali. Serembe ne è partecipe a tutti gli effetti, uno spirito trepidante e patriottico sia nei confronti dell’ospitante Italia che dell’antica madrepatria albanese, rivolto anche all’irredentismo greco. “Oggi il fucile/tutta Europa di fremiti riempie,/mentre volta le spalle il turco in fuga” scrive il poeta in una sua composizione che è anche cronaca dell’impegno civile dei tempi. Emerge una vita errabonda, che conosce la miseria e attraversa le Americhe due volte, fino alla morte dell’artista, probabilmente per stenti, in una piazza del mercato di San Paolo del Brasile. Personaggio parte di una Scapigliatura che tramandava, prima ancora che stili di vita alternativi, un’etica nazionale, sia pure nella contrapposizione dualistica tra vero e ideale nell’ottica di quel tardo romanticismo sgravato di ristagnante provincialismo. Non a caso Domenico Milelli, uno “sregolato” meridionale, sarà tra i pochi intellettuali dell’epoca ad interessarsene. L’amore gli “ha sconvolto il cervello,/agitato il sangue,/sottratto l’anima” ma dal paesaggio agreste “fronde e pagliuzze ruotano per l’aria” catturando ancora la sua attenzione. “Colui che sta recluso in questo colle/guarda sempre alla fertile pianura” evoca un Leopardi che inverte solo la linea dell’ orizzonte, un sostrato dove “il sonno ci conquista e prostra,/preludio del destino che ci atterra”. Nel Pensiero notturno, tuttavia, “fluttuavano baciandosi/cieli in onde di fiamma e pura luce,/ove amore è semente a soli e stelle” in una travolgente carica mistica. Ai SS.Cosma e Damiano, infatti, è una ricorrenza rituale del mondo rurale ed anche festività patronale del borgo natio. Temi religiosi ricorrono anche in A Maria Vergine, dove lo sconforto si sovrappone al fervore della devozione e segna la distanza in una miseria che incalza, quanto altrove definirà “infamissime insidie della Chiesa Romana”. A Giuseppe De Rada, altro poeta di lingua albanese, e Ad Alì di Tepelena, “sole dell’Albania” e fautore antelitteram di un’autonomia dall’impero ottomano, titola i suoi componimenti inneggiando ad una carducciana “stirpe guerriera” nelle vicende di un popolo che, oggigiorno, rimanda alle cronache del Kosovo. Poeta a cui (per la cronaca eravamo nel 1961) persino il regime di Enver Hoxha ha reso omaggio nell’opportunismo ideologico di un socialismo reale concentrato a ridare identità all’Albania attraverso il modello stalinista. Qui affiora la figura dell’eroe eclettico e ribelle che solo la “nuova storia della letteratura fondata su basi marxiste” arriva a comprenderne nei risvolti dei valori patriottici e sociali. La storia, quella vissuta da Serembe in prima persona, ripercorre un fugace scenario borbonico con il “re bomba” e “Franceschiello” per accogliere trionfante il “re galantuomo”, effigie liberale dei Savoia nell’Italia riunificata. Dell’altra sponda dell’Adriatico, riporta i grandi eventi, quelli per cui tutto non sarà mai più come prima e all’origine della stessa cultura arbëreshë, ne fa sintesi nella quartina di un poemetto dedicato Alla Signora Principessa Elena Gjika: “Alcuni, sconfitti dal turco,/affrontarono il mare,/altri tra i greci si dispersero,/apostatarono altri.”

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