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Cento giorni e cento notti di un precario

Dicembre 04
19:01 2012

Qualcuno di voi lettori ricorda ancora la storia del soldato e della principessa nel film Nuovo cinema Paradiso, di Giuseppe Tornatore? Narrava così: «…Una volta un re fece una festa e c’erano le principesse più belle del regno. Un soldato che faceva la guardia vide passare la figlia del Re. Era la più bella di tutte e se ne innamorò subito. Ma che poteva fare un povero soldato a paragone colla figlia del re? Finalmente, un giorno riuscì a incontrarla e le disse che non poteva più vivere senza di lei. E la principessa fu così impressionata del suo forte sentimento che disse al soldato: “Se saprai aspettare cento giorni e cento notti sotto il mio balcone, alla fine, io sarò tua”.

Subito il soldato andò sotto il balcone della principessa e aspettò un giorno, due giorni, dieci e poi venti ancora. Ogni sera la principessa controllava dalla finestra, ma quello non si muoveva mai. Con la pioggia, con il vento, con la neve era sempre là. Gli uccelli gli cacavano in testa e le api se lo mangiavano vivo, ma lui non si muoveva. Dopo novanta notti era diventato tutto secco, bianco e gli scendevano le lacrime dagli occhi, e non poteva trattenerle poiché non aveva più la forza nemmeno per dormire…, mentre la principessa lo guardava sempre. Arrivati alla novantanovesima notte, il soldato si alzò, si prese la sedia e se ne andò via». Sembra una favola, eppure la stessa identica situazione è specchio di quanto accade ai precari. Chi non è precario si è mai chiesto come sia la vita da precari? Proprio come descrive questa favola, si tratta di cento giorni e cento notti di attesa, un numero che può essere anche raddoppiato “settanta volte sette”! Si intraprende una strada con ogni buon proposito, convinti di dover costruire il proprio percorso mattone su mattone, giorno dopo giorno, accettando fatiche e sofferenze, sacrifici nostri e dei nostri familiari. Un precario vive d’attesa! Non conosce nulla del suo futuro, attende fiducioso che il Dio in cui prega sia un Dio della provvidenza e non il Dio che Montale vedeva immedesimato in «un falco in alto levato». Molti precari devono scegliere la graduatoria più conveniente, affrontando viaggi, spese di affitto, chiedendo prestiti ai familiari, convinti di accumulare mattoni per costruire un futuro e, così convinti, affrontano anche le nuove proposte per fronteggiare la lotta con gli altri aspiranti, si iscrivono ai master che garantiscono tre punti in graduatoria. Come evitarli, se ormai tutti si iscrivono? Se non ti iscrivi anche tu, rimarrai indietro per sempre, basta un solo punto e un altro precario ti supera! Accumuli, accumuli e il tuo muro non termina mai! Il precario non va incontro a una pensione, invecchia e non può neanche affittare una casa se non hai un garante, non può avere una sua famiglia o anche se sposato non può fronteggiare le spese economiche per garantire ai suoi figli un futuro. I soldi non appena entrano bastano solo per ripagare i debiti di chi lo ha sostenuto in questo percorso. Poi, capita anche di lavorare in scuole con supplenze su malattia, retribuite direttamente dalla scuola e non dal ministero e qui, se non ci sono abbastanza fondi, non si è pagati a fine mese! I precari sono etichettati come la piaga della società, i fannulloni che lavorano solo quando sono fortunati e sono disprezzati, ritenuti i “folli della società”, uomini e donne che credono nella cultura, perché quando loro sono stati studenti hanno creduto nei loro insegnanti e, grazie alla loro trasmissione del sapere, hanno saputo creare i loro bagagli culturali. Anime del purgatorio, che vagano trascinate dai venti, senza aver commesso nessuna colpa, tranne quella di aver creduto nella cultura, nella falsa illusione che per poter cambiare il mondo sia indispensabile istruirlo. Invece, il mondo cambia, muta secondo le sempre nuove etichette e le nuove barche che remano cambiando rotta. L’Italia è ormai un Paese in cui la cultura appartiene al passato. I teatri chiudono, i cinema chiudono, i musei sono diventati cimiteri del passato. Ed è così che ormai le persone convinte della loro cultura lasciano il proprio percorso, come il soldato della favola! Non si tratta di gettare la spugna ma, come diceva Kipling nella poesia IF: «Se sai fare un’unica pila delle tue vittorie e rischiarla in un solo colpo a testa o croce e perdere, e ricominciare di nuovo dall’inizio senza mai lasciarti sfuggire una parola su quello che hai preso». Certo non è facile e non è per tutti, bisogna avere vivi interessi, fantasia, spirito d’iniziativa e soprattutto forza per lottare in onore della propria dignità! Io parlo in particolare per i precari della scuola, costretti a tappare “buchi” dove manca qualcuno, lasciati alla deriva. Ogni scuola ha la propria autonomia, ma per il precario che ogni volta cambia scuola non è facile capire come si deve muovere. Gli si dice di chiedere, e le porte della vicepresidenza hanno un orario da rispettare e spesso anche in quell’orario non è garantita l’assistenza. Chi sta per entrare di ruolo ha diritto a un tutor, il precario non ha nessun diritto! E così chiede ai colleghi di ruolo, che difficilmente sono disposti a dargli una mano, sofferenti anche loro per una lavoro da cui non riescono ad andare in pensione, in cui i ragazzi cambiano notevolmente di generazione in generazione, i compiti da svolgere si moltiplicano, tutta una serie di componenti che ormai li inacidiscono e anche loro si scagliano contro il precario: «Se vuoi veramente lavorare nella scuola devi provare sulla tua pelle com’è duro questo lavoro!». Porte chiuse, porte sbattute in faccia. E tu, precario, chi sei se non un “fastidio”, su cui tutti si sfogano senza pietà? E questi sono solo esempi di vite, gettate in balia dell’esperienza, attesi al varco per essere frustati, bersaglio di accuse, lettere di addebiti disciplinari e sospensioni, volte solo al fine di farti cambiare lavoro, perché ormai i precari sono troppi! E per chi resta si spera che quel “falco in alto levato” abbia un archivio in cui depositare tutti gli episodi di sofferenza, per poterli almeno annoverare tra i martiri del passato.

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