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Concetta

Agosto 05
23:00 2007

La mia casa colorata è una specie di vento di passaggio,
una tempesta sul mare prima del temporale.
(da: “Quando avrò quarant’anni” di Jacqueline Fassero)

Mariano aveva conosciuto Concetta, chiamata poi zia Concetta da tutti, ma non da lui, per caso, come per molte altre incredibili conoscenze e storie della sua vita. Si può dire per obblighi di buon vicinato.

La conobbe nel periodo in cui aveva abitato in campagna e fingeva di studiare per ipotetici esami universitari; scambiava con lei verdure cucinate e minestre di legumi di lunga preparazione, che metteva a bollire nei pomeriggi di ozio libresco, con dolci semplici, cotti al forno, ereditati dalle origini abruzzesi della bella vecchietta. Vecchietta: non lo si sarebbe detto. Allora Concetta aveva quasi settant’anni, la pelle chiara e delicata, i capelli candidi distribuiti in morbidi ricci lucidi e gli occhi di un azzurro pulito e disarmante. Le pupille le si annacquavano un po’ troppo spesso a causa del suo sconfinato amore per il mondo. Con Siamo tutti nelle mani del Signore e in braccio ai Santi l’aveva conosciuta e continuava a conoscerla.
Quando di tanto in tanto Mariano andava a visitarla, lei, con gesti rapidi, attizzava il fuoco nel camino incorniciato di marmo chiaro e ordinava: “Prendi la guantiera, Mariano mio, che ti servo i taralli”. Appresso arrivavano i biscotti all’uovo, il vino cotto, le caramelle, i confetti di cannella irregolari e profumati fatti in casa e non c’era verso di non accettare almeno qualcosa. “Mariano – gli diceva congedandolo – che Sant’Enrico e la Madonna ti tengano in braccio, come sei bello!! “.
Quello che Mariano amava più di tutto in Concetta non era né il suo bell’aspetto di giovane magra invecchiata solo all’anagrafe, né i suoi modi delicati di donna dei primi del secolo, ma la sua capacità di capire tutti i malumori e le novità di un animo giovane come il suo. Insieme a Concetta si poteva parlare d’amore, d’affetto, di tradimenti, di scambi di coppie e orgoglio gay, senza che lei t’ascoltasse con la morbosità di una telenovela inverosimile, ma pronta invece a mettere tutto in discussione.
La sua disponibilità di mente veniva dalla sua vita di sposa felice della quale Mariano conosceva molti episodi attraverso la memoria trepidante della sua amica.
Aveva amato, riamata, un marito onesto e gentile che usava andarla a trovare a casa nella sua pausa del pranzo, quando i loro figli erano a scuola. Spesso pranzavano insieme nel loro lettone, dopo aver consumato un amore rumoroso, inimmaginabile di notte, con i figli, nel loro primo appartamento troppo piccolo per avere un po’ di intimità.
Il marito era ormai morto da almeno dieci anni, questo era uno dei motivi che le allagavano gli occhi e per i quali si sentiva padrona di rimproverare onestamente i santi che prima la tenevano in braccio…l’altro era la nascita della sua quarta ed ultima figlia, poliomielitica, così grave da essere condannata a vita sopra una sedia a rotelle. Concetta raccontava di avere sempre avuto con lei un meraviglioso rapporto, di averle donato la sua disponibilità di cuore e di averla incoraggiata a comunicare con la famiglia e col mondo, ma per questa sua figlia aveva comunque sofferto, perché pensava sempre che non avrebbe avuto un amore felice così come avevano potuto averlo suo padre e sua madre.
Concetta, nonostante l’amena età, viveva sola, provvedendo la sera ad andarsene a dormire dalla sua vicina, un’affittuaria poco più giovane di lei, che occupava metà del grande casale di proprietà ereditato dal padre e nel quale abitava ormai da quasi quarant’anni.
I tre figli di Concetta, tre maschi, abitavano a valle, lontani dalla sua campagna al confine con le montagne. Anche lei ci aveva provato, ma non si ritrovava nello spazio angusto e unico promesso dalla città. Concetta aveva bisogno di camminare almeno un chilometro al giorno, di trovare gente disponibile a parlare, e di – essere trovata a casa sua – come ripeteva spesso, per fermare il tempo e sentirsi viva, fuori dalle concessioni permesse dall’orologio a chi vive tra caseggiati interminabili e strade anguste di auto.
Così se n’era tornata lassù, promettendo di essere prudente, specialmente ora che era rimasta sola in casa dopo la partenza della sua figlia sfortunata che, aggravatasi nella sua infermità, si era voluta trasferire in un ospizio del nord. Si vedevano tre o quattro volte l’anno e andavano anche insieme a Lourdes. Da parte di Concetta più per starle vicina che per vera fede in un cambiamento estremo, o miracolo, come lo sentiva chiamare da qualche volontaria del treno.
Concetta continuava a credere alla vita, all’amore, a Dio e ai Santi, ma più per sua licenza verso di loro “che sono sempre esistiti e siamo tutti in braccio a loro, e tu lo sai Mariano” che per illuminazione Celeste. Era quasi per rispetto.
Mariano, ormai da qualche anno, da quando si era trasferito a Roma, andava a trovarla quando poteva almeno una volta al mese, scoprendosi a pensarla, a pochi chilometri dall’arrivo, accostata alla finestra ad aspettarlo con in mano il fazzoletto spiegazzato dove riponeva le lacrime di ricordi teneri e dolorosi quando queste si rifiutavano di arrestarsi al di qua degli occhi celesti e ormai perennemente arrossati.
(…) Concetta aveva impastato tutta la mattina, come quando a casa c’erano ancora i suoi quattro figli e suo marito. In una frazione di secondo l’odore della farina e il sole caldo sui piedi avevano fatto il miracolo e li aveva risentiti i suoi tre diavoli in pantaloni corti correre avanti e indietro per l’aia e poi per le scale e i corridoi della casa, spingendo a turno la sedia a rotelle di Betta. Poi suo marito che tornava da fuori con la verdura e un mazzo di ranuncoli gialli di primavera per lei. Un bacio agli steli e glieli riponeva tra le braccia….e pensare che pochi giorni prima, in televisione, aveva visto una reclame di biscotti nella quale c’era la stessa scena, ma lei lo sapeva che quella della televisione era tutta una finzione e chissà se qualcuno era stato mai felice come lei con quei fiori già mezzi intorpiditi dalla calura tra le braccia! Asciugò una lacrima calda che le scolava sulla guancia arrossata dall’emozione col fazzoletto che teneva sempre nella tasca del grembiule da cucina, e prese a tagliare la pasta fiera di quella sua arte, come la chiamava Mariano, che aveva voluto impararla per sentirsi a tutti gli effetti suo figlioccio e perciò “depositario delle importanti tradizioni di famiglia” – sue testuali parole.

Tratto dal romanzo breve “Il casale senza coltelli”.

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