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Novembre 04
02:00 2006

L’affaire Telecom è stato presentato all’opinione pubblica come un complicato rompicapo la cui trama intreccia strategie industriali e politiche, con l’attività di una rete occulta dedita a schedature e intercettazioni illegali di massa. Cercando di separare il grano dal loglio, alcuni aspetti appaiono però piuttosto chiari. Innanzitutto il cuore dell’intera vicenda non riguarda tanto problemi economici quanto guai finanziari. Non è di qualità dei servizi o validità dei prodotti messi sul mercato che si sta parlando, ma di patti di sindacato, profitti e indebitamenti. La seconda considerazione è che se il primo gruppo industriale del Paese cambia radicalmente per tre volte in cinque anni la sua strategia, che qualcosa non va lo capirebbe anche un bambino. Probabilmente il caso Telecom non è altro che la macroscopica metafora della fragilità del nostro capitalismo che, a sua volta, è fedele specchio del nostro Paese. Ora che il trucco delle tre carte è trasvolato dai banchetti nelle fiere ai teleschermi presenti in ogni casa è ancora più difficile rendersi conto che l’economia italiana è almeno un paio di lunghezze dietro rispetto a quelle delle altre nazioni avanzate, sia per assenza di una seria cultura di mercato, sia per una classe imprenditoriale che non ha coraggio di rischiare e non ricerca innovazione tecnologica, sia per la totale dismissione di settori strategici quali chimica, elettronica, farmaceutica. Un capitalismo che non si regge su regole trasparenti ma si basa ancora sulle grandi famiglie, sui salotti buoni, sulle azioni che si pesano e non si contano, sui ‘profitti privati’ e sulle ‘perdite pubbliche’. Il nome di Ernesto Rossi, maestro di economia e di giornalismo che dovrebbe essere considerato una specie di eroe nazionale, ai più non dice assolutamente nulla. Eppure Ernesto Rossi fu forse il primo e più esemplare dei manager pubblici, la cui successiva fioritura costituirà, salvo doverose eccezioni, una delle vergogne d’Italia. Manager pubblici e privati che prendono centinaia di migliaia di euro l’anno più liquidazioni da capogiro, indipendentemente dal risultato che raggiungono, fanno pensare che sono tutti in grado di fare i capitani d’industria, se i soldi che si rischiano sono quelli degli altri. La Parmalat è di nuovo quotata in Borsa, ma ai vecchi azionisti, che hanno perso i risparmi di una vita, nessuno si è preso la briga di comunicare che fine abbiano fatto le loro azioni. Quelle loro, di azioni, non si pesano, e neppure si contano. Non esistono e basta. Altra corsa, altro giro, ‘venghino signori venghino’.
Anna Politkovskaja, la più scomoda e famosa giornalista russa, è stata uccisa il 7 ottobre scorso, negli stessi istanti in cui Vladimir Putin festeggiava i suoi 54 anni con un ricevimento a San Pietroburgo. Un killer le ha esploso contro quattro proiettili. Il primo l’ha colpita al cuore, il secondo, per sicurezza, le ha trapassato la testa. Hanno scritto di un macabro regalo di compleanno. Ma, penserete voi, come è possibile che l’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder sia andato a lavorare per lui e il presidente Chirac gli abbia conferito la Legion d’onore? Lo zar russo deve essere per forza persona onesta e corretta, altrimenti la democratica e vecchia Europa invece di omaggiarlo e riverirlo alzerebbe forte la propria voce. La verità è che un’informazione schietta e onesta, qual’era quella di Anna Politkovskaja, non è più gradita non solo al potere russo, ma anche, ed è la cosa più triste, alla nostra sociètà, colpita solo dalla propaganda e dai titoli a caratteri cubitali della prima pagina. Tre anni fa lessi un suo libro sulla Cecenia (Cecenia. Il disonore russo, Fandango) e rimasi impressionato, non tanto dal fortissimo contenuto, quanto dal coraggio dell’autrice, che, nata a New York da genitori diplomatici, poteva tranquillamente girarsi dall’altra parte e godersi una vita dorata. Era impossibile convincerla a non pubblicare certe informazioni o ingraziarsela mettendola sul proprio libro paga. Hanno assassinato una donna straordinaria.

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