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Dal baratro alla rinascita

Aprile 04
02:00 2007

È giorno che è notte, è buio che è luce, è morte che è vita in una Croce che rimane inchiodata alle nostre coscienze per farcelo ricordare. Una Croce che sa delle nostre insubordinazioni alle fatiche del credere e dello sperare, mentre noi di dura cervice persistiamo a volgere le spalle all’umiltà del non volere e potere giudicare gli altri, piuttosto che noi stessi. Sono i giorni di una Croce che non accetta esilio, che non tace, né disconosce le nostre assenze, ma le invoca e rinnova in mille fremiti nuovi che non franano sui detriti del passato. Quel Volto sofferente, quella carne squarciata, non possiede lineamenti tramandati, ma occhi di pena, come quelli di nostra madre, di nostra figlia, di nostro fratello, del nostro amico. Sono i giorni che ci insegnano a non tradire noi stessi, per non tradire l’altro. Giorni a cancellare attimi che trapassano le nostre colpe, la nostra stessa ricerca di salvezza attraverso la condanna senza scampo degli altri. Quella Croce, quella agonia, quelle grida che non hanno avuto scampo, altro non sono che la morte che non c’è, quella morte che non vediamo, perché non ci compete. Sul legno che non marcisce, sul dolore che descrive le tante sordità all’intorno, c’è, sì, lo sfinimento per le tante morti che ci portiamo addosso, ma improvvisa la nota nascosta sale e scava in profondità, facendoci ritrovare il senso perduto dell’amore al rango più alto. Allora come ci ha detto un illuminato “non guardiamo negli occhi il gorilla di montagna, perché se così facciamo, egli ci assalirà. Invece inchinandoci sui palmi delle mani, sulle ginocchia, tocchiamo l’erba, in quell’umanità di Adamo che è terra. Il gorilla non ci colpirà, perché penserà che anche noi abbiamo fame”. Non c’è sfida né scommessa in questo atto, solamente lo sguardo in alto verso quella Croce, senza ingannare l’amore gratuito che ci è donato nell’intento di stare bene con il resto del mondo; appunto un piccolo resto, mai la somma. Non c’è esame da superare in quelle braccia allargate che ci attendono, non c’è pietra da scagliare nella tomba da noi scavata con dita frenetiche. C’è l’oscurità dell’inquietudine, dei tormenti, nella soddisfatta lapidazione che ipocritamente cura le nostre cecità. Mentre rinculiamo sulle nostre incertezze, fragilità e facili conclusioni, Cristo non muore, risorge e rinnova la promessa che fu tradita, e finalmente in noi cresce il desiderio profondo di accorciare le distanze e avvicinarci a quei piedi scomposti e feriti, aggrappandoci a quelle ali dispiegate, nell’irrefrenabile bisogno di schiodare quel Corpo dalle travi incrociate, affinché possiamo liberare ciò che ci portiamo dentro: la libertà di amarlo davvero, uscendo da noi stessi non più prigionieri in spazi chiusi costruiti a nostra misura.

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